Maradona
Splendori e miserie del gioco del calcio (1995)
Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto. L'analisi rivelò la presenza di efedrina e Maradona concluse in malo modo il suo Mondiale del 1994. L'efedrina, che non è considerata una droga stimolante nello sport professionistico degli Stati Uniti e di molti altri Paesi, è proibita nelle manifestazioni internazionali.
Ci fu stupore, scandalo. I tuoni della condanna morale assordarono il mondo intero, ma bene o male si fecero sentire alcune voci di appoggio all'idolo caduto. E non solo nella sua addolorata e attonita Argentina, ma anche in posti lontani come il Bangladesh, dove una manifestazione numerosa gridò nelle strade contestando la FIFA ed esigendo il ritorno dell'espulso. In fin dei conti giudicarlo era facile, ed era facile condannarlo, ma non risultava altrettanto facile dimenticare che Maradona continuava a commettere, da molti anni, il peccato di essere il migliore, il delitto di denunciare a viva voce le cose che il potere ordina di tacere e il crimine di giocare alla mancina, che secondo il Piccolo Larousse illustrato significa "con la sinistra" e significa pure "al contrario di come si deve fare".
Diego Armando Maradona non aveva mai usato stimolanti alla vigilia delle partite per moltiplicare le risorse del suo corpo. È vero che era stato prigioniero della cocaina, ma si drogava nelle feste tristi, per dimenticare o essere dimenticato, quando già era assediato dalla gloria e non poteva vivere senza quella fama che non lo lasciava vivere. Giocava meglio di chiunque altro malgrado la cocaina, e non grazie a essa.
Era schiacciato dal peso del suo stesso personaggio. Aveva problemi alla colonna vertebrale dal lontano giorno in cui la folla ne aveva gridato il nome per la prima volta. Maradona portava un carico chiamato Maradona, che gli faceva scricchiolare la schiena. Il corpo come metafora: gli dolevano le gambe, non poteva dormire senza pastiglie. Non aveva impiegato molto a rendersi conto che era insopportabile la responsabilità di dover lavorare da Dio negli stadi, ma sin da principio capì che era impossibile smettere di farlo. "Ho bisogno che abbiano bisogno di me", confessò quando già da molti anni portava sulla testa l'aureola, sottomesso alla tirannia del rendimento sovrumano, imbottito di cortisone, analgesici e ovazioni, incalzato dalle esigenze dei suoi devoti e dall'odio di coloro che offendeva.
Il piacere di abbattere gli idoli è direttamente proporzionale alla necessità di averli. In Spagna, quando Goikoetxea lo picchiò alle spalle e senza pallone e lo lasciò fuori dai campi di gioco per diversi mesi, non mancarono fanatici che decretarono il trionfo per il colpevole di questo omicidio premeditato, e in tutto il mondo c'era gente in abbondanza disposta a festeggiare la caduta dell'arrogante sudaca, un intruso nell'Olimpo, il nuovo ricco, quello che era scappato dalla fame e si concedeva il lusso dell'insolenza e delle smargiassate.
Poi, a Napoli, Maradona fu Santa Maradonna e San Gennaro divenne San Gennarmando. Nelle strade si vendevano immagini della divinità in pantaloncini corti, illuminata dalla corona della Vergine o avvolta nel sacro manto del santo che sanguina ogni sei mesi. E allo stesso modo si vendevano casse da morto per i club del nord dell'Italia e bottigliette con le lacrime di Silvio Berlusconi. I bambini e i cani sfoggiavano parrucche di Maradona. C'era un pallone sotto i piedi della statua di Dante e il tritone della fontana vestiva la maglietta azzurra della squadra del Napoli. La squadra della città in oltre mezzo secolo mai aveva vinto un campionato, città condannata alle furie del Vesuvio e alla sconfitta eterna sui campi di calcio. E grazie a Maradona il sud oscuro era riuscito, infine, a umiliare il nord luminoso che lo disprezzava. Coppa dopo coppa, negli stadi italiani ed europei, la squadra del Napoli vinceva, e ogni gol era una profanazione dell'ordine costituito e una rivincita sulla storia. A Milano odiavano il colpevole di questo affronto commesso dai poveri che non stavano più al loro posto, lo chiamavano il prosciutto con i riccioli. E non solo a Milano: nel Mondiale del 1990 la maggior parte del pubblico castigava Maradona con furiose salve di fischi ogni volta che toccava il pallone, e la sconfitta argentina davanti alla Germania Ovest fu celebrata come una vittoria italiana.
Quando Maradona disse che voleva andarsene da Napoli, ci furono alcuni che gli gettarono contro la finestra pupazzetti di cera trafitti da spilloni. Prigioniero della città che lo adorava e della camorra, lui stava già giocando contro il suo cuore, in contropiede; e allora esplose in tutta la sua irruenza lo scandalo della cocaina. Maradona divenne immediatamente Maracoca, un delinquente che si era fatto passare per eroe.
Più tardi, a Buenos Aires, la televisione trasmise il secondo regolamento di conti: arresto dal vivo e in diretta, come se fosse una partita per il divertimento di coloro che si gustarono lo spettacolo del re nudo portato via dalla polizia.
"È un malato", dissero. Dissero: "È finito". Il Messia invocato per redimere la maledizione storica degli italiani del sud era stato perfino il vendicatore della sconfitta argentina nella guerra delle Malvine, grazie a un gol rubato e a un altro gol favoloso che lasciò gli inglesi a girare come trottole per anni. Ma all'ora della caduta, el Pibe de oro non fu altro che un commediante cocainomane e puttaniere. Maradona aveva tradito i bambini e disonorato lo sport. Lo diedero per morto.
Ma il cadavere si sollevò con un balzo. Espiata la condanna della cocaina, Maradona fu il pompiere della nazionale argentina che stava bruciando le sue ultime possibilità di arrivare al Mondiale del 1994. Grazie a Maradona ci arrivò. E nel Mondiale Maradona tornava a essere, come ai vecchi tempi, il migliore di tutti, quando esplose lo scandalo dell'efedrina.
La macchina del potere gliel'aveva giurata. Lui gliene cantava di tutti i colori e questo aveva il suo prezzo; il prezzo si incassa in contanti e senza sconti. E lo stesso Maradona regalò loro la giustificazione, per la sua tendenza suicida a servirsi su un piatto d'argento in faccia ai suoi nemici e per quella irresponsabilità infantile che lo spinge a precipitarsi in tutte le trappole che si aprono sul suo cammino.
Gli stessi giornalisti che lo assediano con i microfoni gli rimproverano la sua arroganza e i suoi scoppi d'ira, e lo accusano di parlare troppo. Non che non abbiano qualche ragione, ma in realtà non è questo che non riescono a perdonargli: in realtà a loro non piace quello che lui a volte dice. Questo piccoletto con la lingua lunga e il sangue caldo ha l'abitudine di lanciare frecciate verso l'alto. Nel 1986 e nel 1994, in Messico e negli Stati Uniti, denunciò l'onnipotente dittatura della televisione che obbligava i giocatori a spaccarsi la schiena a mezzogiorno, abbrustolendosi al sole. E in mille altre occasioni, in tutto l'arco della sua accidentata carriera, Maradona ha detto cose che hanno sollevato un vespaio. Non è stato l'unico giocatore disobbediente, ma è stata la sua voce quella che ha dato risonanza universale alle domande più insopportabili. Perché non valgono nel calcio le norme universali di diritto del lavoro? Se è normale che qualsiasi artista conosca gli utili che il suo show produce, perché i giocatori non possono conoscere i conti segreti dell'opulenta multinazionale del football? Havelange tace, in altre faccende affaccendato, e Joseph Blatter, burocrate della FIFA che non ha mai tirato calci a un pallone ma gira in una limousine di otto metri con autista nero, si limita a commentare: "L'ultima stella argentina è stato Di Stéfano".
Quando Maradona fu, infine, espulso dal Mondiale del 1994, i campi di calcio persero il loro ribelle più clamoroso. E persero pure un giocatore fantastico. Maradona è incontrollabile quando parla, ma molto di più quando gioca: non c'è chi possa prevedere le diavolerie di questo inventore di sorprese, che non si ripete mai e gode nello sconcertare i computer. Non è un giocatore veloce, torello corto di gambe, ma porta il pallone cucito sul piede e ha occhi su tutto il corpo. Le sue arti di equilibrista incendiano gli stadi. Può risolvere una partita sparando un tiro fulminante con le spalle alla porta o servendo un passaggio impossibile, da lontano, quando è circondato da mille gambe nemiche; e non c'è chi possa fermarlo quando si lancia dribblando gli avversari.
Nel calcio frigido di fine secolo, che esige di vincere e proibisce di godere, quest'uomo è uno dei pochi a dimostrare che la fantasia può anche essere efficace.
EDUARDO GALEANO
Splendori e miserie del gioco del calcio (1995)
Commenti
Posta un commento