BAD BOY BILL
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19 MAGGIO 2021
illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Daniele Vecchi
articolo di Daniele Vecchi
Un piccolo fan, innocente.
Un bambino tifoso da sempre del grande gigante bianco numero 40, colui che lotta ogni notte contro i colossi di Chicago, di Boston, di Los Angeles e di tutte quelle altre città che disprezzano Detroit, la città delle macchine, tanto brutta, tanto inospitale e tanto bistrattata dagli americani di ogni Stato.
Il bambino era lì, fuori dell’allenamento che aspettava il gigante bianco. Voleva un autografo, il custode gli aveva promesso che, all’uscita del numero 40, sarebbe venuto lì e gli avrebbe messo una firma sul suo taccuino. Il bambino non stava nella pelle dall’emozione.
Finalmente, lo vide uscire. Gli batteva forte il cuore e gli si fece incontro, lasciando indietro il padre, che lo lasciò andare con ardore verso il proprio idolo. Il gigante bianco vide il microbo, lo squadrò neanche un secondo con quel taccuino in mano, e gli disse, sprezzante: “Fuck you” andandosene, lasciando di sasso bambino e padre.
Il padre, lui pure basito e intimorito, non ebbe né la forza né il coraggio di dire nulla, mentre il bambino non riusciva a credere a ciò che era appena accaduto.
Questo e molto altro ancora era il Bill Laimbeer giocatore, un duro, in tutti i sensi, anche magari quando non ce n’era bisogno, come nel caso del bambino.
Il giorno in cui Bill Laimbeer, all’età di 36 anni e martoriato da infortuni alle ginocchia e alla schiena, annunciava il suo ritiro dalla NBA dopo undici partite nella stagione 1993/94, Horace Grant, suo più che acerrimo rivale e nemico nella storica e quanto mai accesa rivalità tra Pistons e Bulls, dichiarò:
“Bill Lambeer si è ritirato? Ok, allora stasera a casa mia darò una grande festa, siete tutti invitati!”
Le parole di Grant, davano l’idea di quanto il Numero 40 della Motown (ora appeso nel soffitto del Palace of Auburn Hills) fosse ben visto, amato e apprezzato dai suoi colleghi giocatori.
Chiunque, ma veramente chiunque abbia avuto a che fare cestisticamente (e anche, diciamocela tutta, parzialmente umanamente) con l’ex-giocatore della Pinti Inox Brescia (stagione 1979/80, appena uscito da Notre Dame), dichiarò il suo astio, la sua antipatia, e il suo disrespect per “The Grandmaster of Flop”, inteso come l’atto di simulazione più falso e bieco che possa esistere, del quale Laimbeer pare avesse l’incontrovertibile copyright fin dai primi anni Ottanta.
William Laimbeer Jr., detto Bill, è ricordato quindi ancora oggi nella NBA come il più arcigno, violento, scorretto, cattivo, simulatore e piagnucolone di tutti coloro che hanno vestito una casacca della National Basketball Association. Qualsiasi insider mondiale degno di tale nome indicherà lui come re incontrastato della magica trasformazione del basket in bagarre con soluzioni extra-cestistiche.
Nato in Massachussetts (ma cresciuto nei sobborghi di Chicago, più precisamente a Clarendon Hills) da famiglia molto benestante, il Nasty Bill frequentò la scuola superiore in California, alla Palos Verdes High School, dove si guadagnò una borsa di studio per la prestigiosa (non solo sportivamente) Notre Dame.
Con la casacca dei Fighting Irish non fece comunque una grandissima impressione, aveva buone mani al tiro, era un discreto rimbalzista difensivo, ma troppo spesso veniva tacciato come pigro, lento e indolente, senza ritagliarsi mai uno spazio importante o degno di nota.
Nelle sue ultime due stagioni in verde Irish mise assieme comunque dei discreti numeri (7.3 punti e 6 rimbalzi a partita), numeri che gli valsero la sessantacinquesima chiamata all’NBA Draft del 1979, scelto al terzo giro dai Cleveland Cavaliers, Draft che vide come prima scelta assoluta Earvin Magic Johnson, e che vide altrettanti giocatori che poi avrebbero militato nel nostro campionato, come Larry Demic, Lee Johnson, Larry Wright, Tony Zeno, James Bradley e Bruce Flowers.
Nell’estate 1979 infatti la franchigia dell’Ohio testò intensamente il centrone da Notre Dame, senza però offrirgli un contratto, così Laimbeer, che aveva comunque un buon mercato europeo, si accordò con Brescia firmata Pinti Inox.
In Italia, nella stagione 1979/80, in una squadra a dir poco esaltante guidata da Riccardo Sales con Marco Solfrini (il compianto grande schiacciatore italiano degli anni ottanta), Ario Costa, Giordano Marusic e Marc Iavaroni (campione NBA con i Philadelphia 76ers nel 1983), squadra che arrivò fino ai quarti di finale-scudetto, eliminata dalla Emerson Varese, Bill Laimbeer si distinse per essere un grande giocatore (21.1 punti e 12.5 rimbalzi di media a partita nella sua stagione italiana), un giocatore forse dominante, non solo in Italia, ma con le potenzialità per diventarlo anche nella NBA.
I Cavaliers nella stagione successiva non si fecero pregare e diedero un contratto a Laimbeer, che come da pronostico si confermò un solidissimo rimbalzista e un realizzatore affidabile e continuo.
foto cavsnation.com
Forse il coaching staff dei Cavs non era completamente convinto delle qualità di Laimbeer, o forse con quella squadra, con quella casacca e con quella mentalità, Laimbeer non riuscì completamente ad esprimere il massimo, quindi accadde che nel febbraio del 1982, dopo vari rumors, arrivò la svolta nella carriera di Bill, che venne ceduto ai Detroit Pistons insieme a Kenny Carr, in cambio di Paul Mokeski e Phil Hubbard, in una scelta che si rivelerà fondamentale per le stagioni successive dei bianco-rosso-blu del Michigan.
A Detroit, Laimbeer trovò il suo ex compagno di squadra a Notre Dame, Kelly Tripucka, e si ritrovò con un leader della squadra poco più che ventenne, un chicagoano dei bassifondi proveniente da Indiana, un playmaker-folletto, un certo Isiah Thomas.
Da qui cominciò la storia dei grandi Bad Boys allenati da Chuck Daly, una missione, anno dopo anno, per scalzare dalla vetta della Central Division della Eastern Conference i Milwaukee Bucks di Sidney Moncrief, Junior Bridgeman e Bob Lanier a suon di gomitate e gioco duro.
Nella Motown, Bill Laimbeer costruì il suo personaggio, dando libero sfogo alla sua vera indole, trovando il vero se stesso. Sarà sempre e solo grazie a lui che i Bad Boys sono stati e sempre saranno tali, perché il bad boy per eccellenza era lui.
Foto Espn
Dennis Rodman, Rick Mahorn, Joe Dumars, Spider Salley, Vinnie Johnson e tutti gli altri seguivano il mentore della durezza e della cattiveria, il gigante bianco numero 40.
A prescindere dalla mentalità, dalla durezza e dalla strafottenza che dimostrava sul campo, i suoi numeri erano comunque strepitosi, dal 1982 al 1990 nessuno nella lega catturò più rimbalzi di lui, nella stagione 1985/86 fu il miglior rimbalzista della NBA con 13,1 a partita, rubando lo scettro di re dei tabelloni a Moses Malone, che per i cinque anni precedenti era stato il migliore della lega.
Anche la sua fase offensiva si dimostrò eccellente, mantenendosi continuamente sopra i 10 punti di media, continuando con la sua continua e asfissiante presenza polemica, provocatoria e intimidatoria in entrambe le aree del campo.
I fatti e le testimonianze dell’epoca parlano chiaro.
Praticamente tutti i grandi “duri” della Lega di quel tempo hanno avuto almeno uno scambio di schiaffi, gomitate, spintoni o cartoni veri e propri con Bill Laimbeer.
Bob Lanier in maglia Bucks (uno dei centri più duri della Lega a quel tempo) che camminava tranquillamente verso centrocampo accerchiato da giocatori dei Pistons, mentre Laimbeer giaceva disteso sotto il tabellone faccia a terra dopo aver ricevuto un pugno in faccia da Lanier, rimase una delle immagini più emblematiche di ciò che era l’ex giocatore di Notre Dame, botte date, botte prese, sangue sul parquet, e provocazione continua, fuori e dentro il campo.
Dopo infinite battaglie con i Milwaukee Bucks e i Chicago Bulls verso la fine degli anni Ottanta, i Pistons si confermarono un vero squadrone, raggiungendo la Finale NBA nella stagione 1987/88, venendo sconfitti in sette memorabili e durissime partite dai Los Angeles Lakers di Pat Riley.
Ma la vera rivalità di Detroit, era con i Boston Celtics.
foto Slam
Una rivalità quasi antropologica e culturale quella tra le due tribù, la operaia e dura Detroit contro la intellettuale e radical-chic Boston, gli affamati mai titolati Pistons contro i blasonati e pluri campioni Celtics, due città e due squadre che erano il più irreversibilmente e naturalmente possibile agli antipodi gli uni dagli altri.
E anche i due leader carismatici erano lontani anni luce, tra loro, e di certo non si amavano. Anzi.
Il “rapporto” di Bill Laimbeer con i Boston Celtics, e soprattutto con Larry Bird, era ed è tuttora infatti di apertissimo odio, espresso molteplici volte sia sul parquet sia nella vita.
E tutto partiva da una cosa apparentemente insignificante, e non partiva da Laimbeer, ma da Larry Legend.
In pratica Bird ODIAVA Laimbeer fin dai tempi del college, quando lui era già una stella di prima grandezza e Laimbeer quasi uno sconosciuto. Accadeva infatti che la madre di Larry, Georgia (deceduta all’età di 66 anni a causa del tremendo morbo di Lou Gehrig), avesse due giocatori preferiti, al college, ovviamente assieme al figlio Larry. Entrambi erano ovviamente di due college dell’Indiana, ovvero Isiah Thomas, da Indiana University, e… Bill Laimbeer, da Notre Dame! Questa cosa non è mai andata giù a Larry, che tra le altre cose ha sempre odiato l’All-Star Game quando Laimbeer era convocato perché doveva stare in sua presenza e spesso a suo stretto contatto con lui per un intero weekend.
Dagli albori fino a ben oltre la fine di entrambe le carriere cestistiche, i due non si sono mai sopportati, e non lo hanno mai nascosto.
Ovviamente l’apice di questa reciproca idiosincrasia si poteva vedere sul parquet durante le sfide-playoff tra Pistons e Celtics nella seconda metà degli anni Ottanta, quando le serie erano veramente all’ultimo sangue, con falli durissimi, accenni di rissa e risse vere per tutta la durata delle partite.
Detroit era in ascesa, mentre Boston era lentamente in parabola discendente, e Laimbeer e i Bad Boys si affermarono come i padroni della Eastern Conference a partire dal 1988, quando guadagnarono l’accesso alla Finale NBA battendo 4-2 i Celtics nelle Eastern Conference Finals, venendo poi sconfitti dai Lakers in sette, durissime, partite.
Quella serie finale lasciò il segno nei Pistons, che sentendo di essere stati ingiustamente battuti, covarono per tutta la stagione successiva sentimenti di rivalsa, che arrivò al culmine alle Finali del 1988/89, dopo una stagione intera passata dai Pistons con l'unico obbiettivo di battere i Lakers nella Finale.
E così fu, un bulldozer targato Motown annerì di asfalto i giallo-viola californiani, un cappotto che la diceva lunga sullo stato mentale e motivazionale dei Pistons, una macchina da guerra, in tutti i sensi.
I Bad Boys, con Laimbeer a capo della gang (Joe Dumars fu l’MVP delle Finali), si erano finalmente laureati campioni.
foto Doug Pizac
Ma non era abbastanza. Ormai i Bad Boys avevano da dimostrare di non essere solo una intemperante meteora nell’universo delle stelle NBA, e così fecero la stagione successiva. Ancora una volta in Finale NBA, contro i Portland Trail Blazers, i Pistons si ritrovarono sconfitti in Gara Due dopo aver vinto Gara Uno.
La stella dei Blazers, Clyde Drexler, a quel punto, disse incautamente le fatidiche parole: “Non torneremo a Detroit”, intendendo così che i Blazers avrebbero chiuso la serie in Oregon con tre vittorie consecutive.
foto nba.com
I Bad Boys vinsero tutte e tre le gare a Portland, e confezionarono il Re-Peat per la Motown.
In tutto questo Bill Laimbeer fu protagonista, con lavoro sporco, gomitate in faccia, proteste e uscite plateali per falli, insieme ad una assoluta presenza sotto i tabelloni, a un incommensurabile apporto offensivo (in Gara Due segnò sei canestri da tre punti, eguagliando il record per una Finale NBA a quel tempo) e a una leadership latente di grandissimo peso.
Poco dopo, Laimbeer (nel 1993) si ritirò, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti i suoi nemici sul campo. Laimbeer era una icona del male, un catalizzatore di odio e disprezzo. Era consapevole di esserlo, e ne era fiero e felice.
Quei Pistons, quei Bad Boys, furono un granello di sabbia negli ingranaggi di quella NBA. La lega infatti stava pian piano arrivando alla perfezione mediatica, tesa ad eliminare, con regole più ferree sul campo a riguardo della protezione delle proprie superstar, e con ben precise e mirate strategie di marketing e comunicazione, tutto ciò che era fuori degli schemi, tutto ciò che rappresentava eccessi, tumulti e regole infrante.
C’erano le grandi e belle rivalità, le superstar perfette e super talentuose capaci di far sognare le generazioni, l’inizio della campagna mondiale di sensibilizzazione e aiuto da parte della lega verso continenti e realtà disagiati (l’inizio delle campagne di NBA Cares e il reclutamento degli NBA Ambassadors), vi era insomma una brusca e remunerativa sterzata verso una lega all’insegna del politically correct, che non avrebbe più tollerato eccessi di rabbia, violenza, risse, droga e tutto ciò che esulava dalla faccia pulita, venduta a suon di decine di milioni di dollari alle televisioni di tutto il mondo.
E quei Pistons furono un bug del sistema. Detroit era infatti l’opposto di tutto quello che David Stern stava cercando di promuovere, erano un difetto, un problema. Poteva starci che ci fosse una squadra di cattivi, una specie di nemico comune da immolare nel nome dei “buoni”, ma era totalmente sanguinoso per la NBA che questa squadra di cattivi riuscisse addirittura a vincere dei titoli NBA.
I brutti e cattivi dovevano perdere, i buoni e belli dovevano vincere. Questa era la regola.
A cavallo degli anni Ottanta e Novanta però i brutti e cattivi vincevano, mentre i buoni e belli diventavano vecchi e tramontavano (Lakers e Celtics), e la nuova icona aveva ormai addosso la etichetta di egoista e perdente (Michael Jordan). Furono anni di delusioni e di sorrisi a denti stretti alla Olympic Tower, mentre il male imperversava. E il male aveva la faccia di Bill Laimbeer.
Poi per fortuna della immagine e del dipartimento Marketing e vendite della NBA, Michael Jordan imparò a vincere, i cattivi vennero spazzati via e il granello di sabbia negli ingranaggi fu definitivamente smaltito.
La carriera di Bill si concluse con 1068 partite giocate, con una media di 12,9 punti e 9,7 rimbalzi a partita, anche se il suo contributo al gioco è andato ben oltre le mere cifre.
Dopo la fine della carriera da giocatore Bill divenne un ottimo coach, portando le Detroit Shock a tre titoli WNBA, continuando poi la sua carriera sempre ad alto livello prima con le New York Liberty (due volte vincitrici della Eastern Conference) e poi con le Las Vegas Aces, vincendo la Western Conference nel 2020 perdendo la Finale WNBA contro le Seattle Storm.
foto Slam
Un Bill Laimbeer oggi non c’è più, nella NBA moderna, e probabilmente nemmeno più ci sarà. Questo è un dato di fatto incontrovertibile.
I “duri” di adesso, i giocatori considerati intensi e “sporchi”, i Draymond Green del terzo millennio, per intenderci, non hanno nemmeno lontanamente la cattiveria agonistica e umana di personaggi come Laimbeer, anche perché nemmeno avrebbero la possibilità di diventarlo.
Questo può essere un male o un bene, dipende da che prospettiva si guarda il gioco.
Il gioco di oggi, per naturale procedimento di sviluppo e maturazione, risulta essere molto meno sporco, molto meno duro e molto meno intenso di quello di un paio di decenni fa, le regular season NBA per alcuni risultano essere per molti versi noiose e ricolme di difese inesistenti, quindi il Bill Laimbeer degli anni Ottanta, oggi, faticherebbe ad avere un senso, se non per le sue doti a rimbalzo e la sua mano educata.
Per quanto sporchi, brutti e cattivi fossero i Bad Boys, per quanto fossero una spina nel fianco nella attitudine politically correct della NBA, per quanto fossero visti malissimo da molteplici schiere di perbenisti dello sport, le loro vittorie, la loro intensità, la loro carica agonistica, la loro durezza mentale e la loro totale dedizione alla causa della vittoria li ha, loro malgrado, trasformati in culto.
Qualcuno direbbe “del male”, o “dell’antisportività”, ma quello che i cattivi di Detroit hanno rappresentato in quegli anni, e ancora oggi rappresentano, è un qualcosa di genuino e vero, che si contrapponeva e tuttora si contrappone alla facciata perfetta, per quanto bellissima e che tutti noi amiamo, della NBA, intesa come lega più famosa al mondo.
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