Quando il requiem risuonò per Mozart
Trent’anni fa, a causa di un tragico incidente stradale, moriva a soli 28 anni Dražen Petrović, molto probabilmente il più forte cestista europeo della storia
di STEFANO MARELLI
7 giugno 2023 - la Regione
Robert Redford, Sam Mendes e Mark Wahlberg, per motivi da loro stessi definiti men che futili, la mattina dell’11 settembre 2001 decisero in extremis di non salire sugli aerei che avrebbero dovuto prendere, tutti destinati a schiantarsi negli attentati contro le Torri Gemelle o contro il Pentagono. Il destino volle dunque che quei capricci dell’ultimo minuto salvassero la vita alle tre star hollywoodiane.
Qualche anno prima invece, il 7 giugno del 1993, Dražen Petrović scelse – quando si trovava già nella sala d’imbarco – di salutare i compagni di squadra e di uscire dall’aeroporto di Francoforte per rientrare a Zagabria, invece che volando, sull’auto guidata da Klara, la sua ragazza. E anche quella volta il fato – proprio come fece coi tre cineasti ma con effetti opposti – volle metterci lo zampino. I componenti della nazionale croata di basket atterrarono sani e salvi allo scalo della capitale della neonata nazione balcanica, mentre il più forte cestista europeo della sua generazione – ma probabilmente in assoluto – perse la vita in autostrada a 28 anni e mezzo.
Lo schianto
Pioveva così forte quel pomeriggio nei pressi di Denkendorf, in Baviera, da impedire a chi guidava di vedere cosa succedeva appena al di là del cofano. E così l’autista di un TIR, accortosi all’ultimo istante che davanti a lui il traffico si era fermato all’improvviso, scelse di sterzare verso sinistra, contro il guardrail che divideva i due sensi di marcia. Il problema è che viaggiava spedito, e le barriere cedettero come fossero fatte di carta. L’autotreno invase la corsia opposta proprio mentre a velocità sostenuta sopraggiungeva la Golf guidata dalla morosa di Dražen, che non riuscì a frenare in tempo e si schiantò contro il camion. La ragazza uscì dall’incidente praticamente illesa, e qualche anno più tardi diventò la moglie del calciatore tedesco Oliver Bierhoff, mentre il campione – che senza cintura di sicurezza dormiva sul sedile del passeggero – non ebbe scampo.
L’America
La notizia della morte di Dražen gettò nella disperazione familiari e amici, e lasciò il firmamento della pallacanestro mondiale privo di una delle sue stelle più splendenti. Petrović, infatti, dopo aver vinto tutto e dispensato poesia agonistica in Europa per quasi un decennio, da qualche tempo era andato a mostrare la propria arte al di là dell’Atlantico, in quell’America che il basket lo aveva inventato e che, ancora, era assai scettica sulle qualità dei giocatori del Vecchio mondo, laggiù ritenuti inadeguati sia fisicamente che tecnicamente. Pregiudizi che non avevano per nulla scoraggiato il ragazzo di Sebenico, e che erano invece serviti a spingerlo a migliorarsi ulteriormente – sotto ogni punto di vista – affinché potesse mostrare al mondo intero di cosa fosse capace con la palla in mano.
E ce l’aveva fatta: in quella sua quarta e ultima stagione in NBA da poco conclusa – la terza ai New Jersey Nets dopo averne giocata una e mezza piuttosto sacrificata a Portland, franchigia dove già c’era una certa qualità nel suo ruolo di guardia – Petrović si era finalmente affermato come pedina insostituibile, partendo sempre in quintetto e chiudendo l’annata con oltre 22 punti di media a partita, decimo miglior realizzatore dell’intera lega. Sulle sue qualità, ormai, s’erano ricreduti anche i più scettici, che a lungo gli avevano rimproverato qualche lacuna in difesa. A quei tempi, infatti, questo aspetto nella NBA era ancora ritenuto importante, niente a che vedere, insomma, con ciò che accade oggi, dove pare diventato proibito – oltre che offensivo – cercare di impedire agli avversari di andare a canestro.
Da tutti ritenuto meritevole di partecipare all’All-Star Game – la classica sfida invernale fra due squadre composte dai migliori atleti del campionato – fu però a sorpresa escluso dalla lista dei selezionati, che veniva decisa dai voti dei tifosi, evidentemente ancora propensi a boicottare i giocatori stranieri, che a quell’epoca si contavano sulle dita di una sola mano. Invitato comunque all’evento per partecipare alla gara del tiro da tre punti – specialità in cui quasi non aveva rivali – Drazen, ancora offeso per il trattamento ricevuto, decise di declinare.
Ed è probabilmente risalente a quei primi mesi del 1993 anche la sua decisione di lasciare i Nets a fine stagione per raggiungere una squadra con maggiori ambizioni: aveva ricevuto ricchissime offerte sia dai vicini New York Knicks sia dagli Houston Rockets, la franchigia che avrebbe vinto i due campionati successivi. Ma grande era pure la tentazione di tornare in Europa, sempre che ci fosse qualcuno disposto a mettere sul piatto le stesse cifre avanzate dagli americani, e pare che il Panathinaikos potesse permetterselo.
Le origini
Dotato di un talento purissimo e ineguagliabile, il giovane Drazen – che era nato il 22 ottobre del 1964 – aveva esordito nel massimo campionato della Jugoslavia del "Maresciallo" Tito quando aveva solo 15 anni, eppure era già in grado di dominare gli avversari e di decidere da solo l’esito delle partite. Lasciata la squadra della sua città – il Sibenik – era approdato al Cibona Zagabria, club che avrebbe guidato alla conquista di due Coppe dei campioni consecutive e, grazie alla sua stratosferica media di oltre 44 punti a gara, innumerevoli allori in patria. Nel 1985, ancor prima di compiere 21 anni, era riuscito nella mirabolante impresa di segnare, in una partita contro l’Olimpija Ljubljana, la bellezza di 112 punti tutti da solo.
In campo era immarcabile, elegante e un po’ strafottente con gli avversari, che non riuscivano a limitarlo nemmeno bastonandolo. Grazie a una felicissima intuizione di Enrico Campana della Gazzetta dello Sport, che a quei tempi era probabilmente la firma più autorevole d’Europa per quel che riguardava la palla a spicchi, presto Dražen era diventato per tutti ‘Mozart’, soprannome che riassumeva alla perfezione la sua genialità, l’innata maestria nel fare qualsiasi cosa sul parquet, la sua idiosincrasia a certe regole, la spavalderia che sempre accompagnò il suo percorso di atleta.
Ormai unanimemente considerato il più forte giocatore europeo, nel 1988 aveva accettato dal Real Madrid un’offerta che aveva dell’incredibile: 4 milioni di dollari l’anno, una cifra che all’epoca non guadagnava nemmeno un certo Diego Armando Maradona. Nella capitale spagnola si fermò un solo anno, il tempo di battere altri record e di fare innamorare, come detto prima, i Portland Trail Blazers, che gli fecero attraversare l’oceano, una cosa quasi impensabile per un cestista europeo di allora. Al Real lo ricorderanno, oltre che per le magie, per la grinta e l’impegno che metteva anche in allenamento: dopo ogni sessione, non si fiondava sotto la doccia se prima non riusciva a infilare centro triple, roba da far impallidire perfino uno stakanovista del tiro come Larry Bird.
La Jugoslavia e la Croazia
Della nazionale jugoslava, che ai tempi contendeva la supremazia planetaria del basket Fiba all’Unione sovietica e agli universitari statunitensi, Drazen divenne presto leader ed elemento imprescindibile. Nel giro di soli 4 anni – con suo fratello Aza e insieme a campioni del calibro di
Dalipagić, Djordjević, Kukoc, Radja, Danilović, Komazec, Paspalj, Savic e all’amico per la pelle Vlade Divac – il Mozart dei canestri si mise al collo la bellezza di 6 medaglie: oro e bronzo agli Europei, argento e bronzo alle Olimpiadi, bronzo e oro ai Mondiali. E fu proprio alla rassegna iridata nel 1990, disputata in Argentina e vinta dalla nazionale jugoslava forse più forte di sempre, che si consumò uno dei più celebri litigi della storia dello sport.
Nel momento del trionfo, a Buenos Aires, mentre gli slavi si abbracciavano festanti in mezzo al campo, un tifoso li raggiunse sventolando una bandiera croata. Il serbo Divac – l’amico fraterno con cui il croato Dražen condivideva la camera fin dai tempi delle nazionali giovanili – gli strappò il vessillo dalle mani e lo gettò via urlandogli in faccia ‘Siamo la Jugoslavia, non la Serbia o la Croazia!’.
Tutti i giocatori, pare, capirono e condivisero: tranne Dražen, che alla sua piccola patria teneva molto e che del giogo esercitato da Belgrado ne aveva piene le tasche. Del resto, nel 1990, le tensioni indipendentiste nel Paese erano già esasperate e nell’aria già spiravano i venti di guerra. La lite fra i due amici fu furibonda, insanabile: non si parleranno mai più, nemmeno quando in campo – entrambi militavano ormai negli USA – capitava loro di pestarsi i piedi. La bacheca di Dražen si arricchirà di un ulteriore argento olimpico conquistato a Barcellona nel 1992, quando dopo lo smembramento del Paese seguito alla sanguinosa Guerra dei Balcani, "Mozart" poté finalmente vestire la casacca croata, con la quale si arrese nella finale a cinque cerchi soltanto davanti allo strapotere degli Usa, che per la prima volta presentavano ai Giochi una squadra formata dai più forti giocatori professionisti: parliamo del primo Dream Team, quello originale e irripetibile che schierava – tutti insieme – califfi come Jordan, Bird, Magic, Stockton, Karl Malone e Charles Barkley. Dovettero passare una ventina d’anni – segnata dalla morte di Petrović – prima che Divac si decidesse a fare un salto a casa di Dražen, per portare un mazzo di fiori a una madre inconsolabile e per far pace almeno col fratello del suo ex migliore amico.
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