Il figlio del popolo che realizzava i sogni di tutta la Germania
di Paolo Valentino
9 Jan 2024 - Corriere della Sera
Una volta, incontrandolo in una saletta dell’aeroporto di Salisburgo, chiesi a Franz Beckenbauer quale fosse la vera ragione per cui i tedeschi lo adorassero: «Forse perché abbiamo gli stessi sogni», mi rispose nel suo accento bavarese. Aveva ragione da vendere.
Per oltre mezzo secolo, nessuno più di Beckenbauer ha incarnato tutto quello che la Germania vorrebbe si dicesse e si pensasse di essa nel mondo. Sono passati i Cancellieri, le stagioni della politica, le mode e i generi musicali. La storia tedesca ha compiuto una di quelle «harte Wendungen», le svolte brusche dipinte da Paul Klee, per una volta pacificamente, e la placida Repubblica di Bonn si è trasfigurata nella Berliner Republik.
Ma lui, Kaiser Franz, è sempre rimasto l’autentico talismano della nazione, «der gefühlte President», il Presidente del cuore come lo definì il Süddeutsche Zeitung.
Beckenbauer è stato la metafora più calzante del Dopoguerra tedesco: il figlio dell’impiegato delle poste, nato in un quartiere popolare di Monaco nella desolazione dell’«ora zero» nel 1945, diplomato alla Berufschule, la scuola professionale che in Germania marchia chi non appartiene all’establishment, e che invece arriva sul tetto del mondo nel calcio come nella vita.
Quando vinse quasi da solo la gara per aggiudicarsi i Mondiali del 2006, il Bild Zeitung, sensore infallibile del Paese profondo, gli dedicò l’intera prima pagina, raffigurandolo come monumento con sotto la dedica: «A Franz Beckenbauer, imperatore del calcio tedesco, la Germania a perenne ringraziamento».
Beckenbauer era l’icona tedesca vincente per definizione. Capitano del Bayern a 20 anni, cinque titoli in Bundesliga, tre Coppe Campioni, due volte miglior giocatore d’Europa, trascinatore della Mannschaft che vinse i Mondiali del 1974 contro l’Olanda del calcio totale, commissario tecnico della Germania campione del mondo nel luglio 1990.
Quella sera, dopo la premiazione, Beckenbauer si mise a passeggiare da solo sul prato dell’Olimpico: «Non so perché lo feci, ma era come se mi stessi svegliando da un sogno», mi disse nell’intervista in aeroporto.
Il suo modo di giocare al calcio non era solo elegante, era quasi arrogante, in quel modo di danzare con la palla a testa alta che intimidiva gli avversari: durante una finale di Coppa tra Bayern Monaco e Schalke 04, per zittire i tifosi renani che lo fischiavano, raccolse la rimessa del suo portiere andò sotto la loro tribuna e palleggiò da fermo per 40 secondi, prima di fare un passaggio. Nessun giocatore dello Schalke 04 osò avvicinarsi.
In realtà, a fare la differenza non era solo il suo straordinario talento, ma il suo carisma, l’incredibile capacità di organizzare il mondo intorno a se stesso.
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