LO SCHEMA DI ORBÁN
Proprio come Erdogan e Putin, anche il Premier ungherese ha fatto del calcio un formidabile strumento di potere e propaganda, che spiega l'incredibile exploit del piccolo villaggio di Felcsút
Mattia Zàccaro Garau
Il Manifesto - Giovedì 19 giugno 2025
Pagina 24
Case sparse dai tetti spioventi, bassi muretti di pietra scalfiti dal tempo, qualche calmo trattore che sale, arrancando, sulle morbide colline magiare. Nulla di originale, tutto molto caratteristico, solo un piccolo villaggio dell’Ungheria profonda che fin dal blasone municipale racconta la sua condizione rurale: una fascina di grano con a sinistra un rastrello e a destra una falce.
FELCSÚT, mezz’ora a est di Budapest, lambita dalla M1, la principale autostrada ungherese, ha 1879 abitanti. Nella sua storia quasi millenaria non ci sarebbe nulla di anomalo se solo in un unico anno, il 2009, la microscopica città non fosse passata dal 336mo posto al primo per ricchezza pro-capite del Paese.
O se non avesse uno storico maniero, Hatvanpuszta, costruit dall’Arciduca Giuseppe d’Austria e oggi di proprietà del padre del primo ministro, Gyozo Orbán, lussuosamente ristrutturato per un totale di 30 milioni di euro; un palazzo del piacere, una dacia in stile putiniano con una serra per le palme degna del Royal Botanic Garden di Londra, animali selvatici al pascolo, due piscine, un garage sotterraneo e una cisterna da 20mila litri di combustibile. O, ancora, se la cittadina non fosse stata dotata di un’inutile ferrovia a scartamento ridotto, meno di sei chilometri, pagata con 2 milioni di fondi europei, sempre deserta (25 passeggeri al giorno) e che collega assurdamente lo stadio cittadino con l’arboreto di Alcsút, riserva naturale del XIX secolo, altra opera dell’Arciduca e altra grande passione di papà Gyozo (ex agronomo e oggi padrone della Dolomit Kft., società dai rapporti opachi con lo stato, cui fornisce materiali da costruzione su larga scala).
O, infine, se la squadra di calcio del piccolo villaggio non si fosse qualificata per una competizione europea in 5 degli ultimi 6 anni, e, soprattutto, non avesse uno stadio di ultima generazione da 3865 posti, più del doppio dei cittadini di Felcsút.
Di mezzo, ovviamente, c’è Viktor Orbán, premier ungherese a più riprese e ora da quindici anni consecutivi. Il capo di Fidesz, il partito nazional-conservatore, che detiene la maggioranza assoluta in parlamento dal 2010 e ha cambiato dieci volte la costituzione - a Felcsút è cresciuto e ha frequentato le elementari, dice, in grande povertà. E proprio questo paesino, che per i sostenitori del primo ministro è il simbolo delle sue capacità imprenditoriali, sociali e politiche, per l’opposizione è il suggello della corruzione ungherese. Qui, in mezzo all’increspata campagna magiara, Orbán ha stabilito la sua roccaforte e la sua corte, famiglia e amici oligarchi, hanno trovato fortuna, tra ville e campi da golf.
LORINC MÉSZÁROS, un esempio su tutti, compagno di classe e amico d’infanzia di Orbán, ex factotum di famiglia, un po’ idraulico e un po’ elettricista in rovina, che oggi oltre a possedere media e università è proprietario di un’impresa edile (la Mészáros&Mészáros Kft.) che realizza opere vincendo i più importanti appalti pubblici e usando fondi di coesione europei - è stato sindaco di Felcsút tra il 2011 e il 2018. Con 3.7 miliardi di dollari è l’uomo più ricco dell'Ungheria e sa a chi deve il suo successo: «Se sono arrivato fino a questo punto, lo devo a Dio, alla fortuna e a Viktor Orbán».
Ma Mészáros è solo il caso più rappresentativo della gestione feudale dell’economia ungherese. Nonostante i tagli a sanità e istruzione, lo sport ha ricevuto ingenti fondi e sgravi fiscali che hanno permesso una crescita esponenziale. Con lo stesso identico schema utilizzato da Erdogan e da Putin, la federazione e le squadre sono state affidate all’oligarchia amica di Orbán, in larga parte direttamente legata al suo partito (tra gli altri Sándor Csányi, banchiere, primo miliardario del paese e presidente della federcalcio magiara; Tamás Deutsch, europarlamentare e presidente del MTK Budapest; Gábor Kubatov, parlamentare e presidente del Ferencváros, campione d’Ungheria in carica).
COME IN TURCHIA E IN RUSSIA l’investimento sulla nazionale di calcio è partito con l’ingaggio di un allenatore italiano, Marco Rossi, che sostiene pubblicamente la politica del governo, anche quella anti-immigrazione, e ha portato la squadra agli Europei nel 2020 e nel 2024, puntando ai Mondiali 2026 (dove mancano da quarant’anni).
E, soprattutto, proprio come il Sultano e lo Zar, il Palatino d’Ungheria ha fatto costruire molti nuovi stadi, creando così nuovi posti di lavoro, nuove infrastrutture riconoscibili di cui vantarsi e in cui ospitare eventi sportivi di livello mondiale - la finale di Europa League nel 2023, per esempio, giocata nella Puskás Aréna di Budapest, stadio da quasi 70mila posti per 600 milioni di investimento. In questa prospettiva, l’uso del calcio come strumento di propaganda, anche qui è causa ed effetto dell’immenso consenso detenuto dal primo ministro.
Ed è proprio lo stadio del villaggio di Felcsút il simbolo della democratura in salsa calcistica orbaniana. La Pancho Aréna (dal soprannome di Ferenc Puskás, il giocatore più forte della storia ungherese e vera ossessione di Orbán) è la casa della squadra locale fondata nel 2005 dallo stesso leader dei Patrioti per l’Europa, oggi di proprietà dall’amico Lorinc Mészáros con il nome di Puskás Akadémia.
IL PRIMO MINISTRO è tutt’ora convinto che solo un destino avverso non gli abbia permesso di sfondare nel calcio giocato - altra cosa che lo accomuna a Erdogan; eppure, da giovane non era che un mediocre giocatore del Felcsút, la prima squadra della cittadina, che poi ha anche acquistato, per non farsi mancare nulla. Così, evidentemente traviato da questo senso di rivalsa, ha preteso questa paradossale cattedrale nel deserto, tra l’altro affacciata su un’altra delle sue ville. La struttura, comunque, non è affatto brutta. Anzi è riconosciuta come una delle più belle al mondo ed è certamente unica nel suo genere: gli interni curvi in legno (ne sono state utilizzate più di 1.000 tonnellate), innestati nel calcestruzzo grezzo, citano in maniera diretta le linee asciutte delle chiese calviniste ungheresi. Facile allora capire a che cosa strizzi l’occhio Orbán, calvinista convinto, e fare il collegamento tra religione e calcio.
I due aspetti, sempre più connessi nell’amministrazione del potere nelle società contemporanee e nelle democrature dell’est Europa, costringono ormai a parafrasare Marx: la religione (calcistica) è l’oppio dei popoli.
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