Merckx più universale che Cannibale

Gli 80 anni del più grande ciclista di sempre che forse ha finalmente trovato l’erede: Pogacar

Il soprannome con cui è conosciuto da sempre non gli è mai piaciuto: “Non mangio le persone”
Tante feste lo attendono in tutta Europa. Verrà celebrato anche al Museo del Ghisallo

14 Jun 2025 - Il Foglio Quotidiano
DI GIOVANNI BATTISTUZZI

Eddy Merckx lo chiamavano “Il Cannibale”. Quel soprannome però a lui non è mai piaciuto perché “un cannibale che fa? Mangia carne, bambini, persone? Io mi limitavo a correre e a vincere ogni volta che potevo”, ha detto a Cosimo Cito di Repubblica qualche tempo fa.

E per lui, Eddy Merckx, vincere “ogni volta che potevo” voleva dire vincere molto spesso, perché aveva il talento sopraffino dei migliori, oltre a una determinazione fuori dall’ordinario. Ha vinto tanto, tantissimo, Eddy Merckx, ogni volta che poteva, perché per quello correva: per essere il primo, il migliore, per godersi l’effetto che fa oltrepassare lo striscione d’arrivo prima di tutti gli altri. Vinse cinque volte il Tour de France, cinque volte il Giro d'Italia, una volta la Vuelta a España (l’unica che corse), tutte le Classiche monumento (sette Milano-Sanremo, cinque Liegi-Bastogne-Liegi, tre Parigi-Roubaix, per due volte il Giro delle Fiandre e il Giro di Lombardia), tre Mondiali (più uno nei Dilettanti). In totale 445 vittorie nelle circa 1.800 corse disputate. E cercava di esaudire questo suo desiderio sia quando la strada saliva, sia quando scendeva, in pianura e in montagna, sull’asfalto allo stesso modo che sulle pietre, in corse lunghe tre settimane e in quelle di un giorno soltanto. Pure in volata se non riusciva a rimanere solo.

L’avrebbero potuto chiamare “L’universale”, sarebbe stato perfetto, a sua immagine e somiglianza. Fu e restò “Il Cannibale”, perché, in fondo, era evocativo e d’impatto. Per di più era ancora fresco nella memoria degli italiani l’eccidio di Kindu con tutto quell’intrigante mescolarsi di esotico ed esoterico che gli si era messo in scia dai resoconti giornalistici. Solo pochi anni prima, nel 1961, tredici militari italiani che erano in Congo in una missione ONU, furono rapiti, torturati e uccisi da miliziani congolesi (e cannibalizzati, ma sul tema non si è mai capito dove finisse la realtà e iniziasse la leggenda), forse perché scambiati per mercenari belgi.

Per decenni Eddy Merckx è stato inarrivabile. Esisteva nei ricordi di chi l’ha visto correre e di chi non l’ha visto correre. Il suo nome e cognome era un sigillo di garanzia: il migliore di sempre. Il corridore al cui cospetto anche il più forte del momento impallidiva. Era termine di paragone e ogni paragone era perdente, finiva per sembrare una barzelletta. E sì che di "nuovo Merckx" hanno provato a crearne parecchi. Pure Bernard Hinault l’avevano etichettato così. Il campione francese scattò da quell’accostamento, si mise in proprio, divenne lui stesso modello a cui paragonare qualcuno. Disse con risolutezza che certe cose lui nemmeno le voleva sentire, che a lui andava bene essere Bernard Hinault e basta, che il ciclismo è senz’altro un presente legato al passato, ma che a lui del passato gliene fregava poco. Frega sempre il giusto, cioè poco, ai corridori di quel che è stato. Loro pedalano nel presente, al massimo pensano al futuro. La bicicletta è un ottimo mezzo, il migliore, per infuturarsi in qualche pensiero a lungo raggio, per immaginare ciò che sarà, magari ripensare a ciò che stato, ma solo per un attimo. Le endorfine possono aiutare la memoria, certo, ma stimolano soprattutto il piacere, regolano l’umore, aumentano la capacità di immaginare. E l’immaginazione spinge sempre verso il futuro. A ottant’anni (li compie il 17 giugno) Eddy Merckx pedala ancora, per la prima volta ha detto di aver visto un corridore della sua stirpe: Tadej Pogacar. Uno capace di essere “Universale” alla sua stessa maniera. Non gli era mai accaduto. Ha detto di aver provato una soddisfazione a vederlo pedalare, di aver scorto in lui molto di quello che sentiva quando correva.

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