FOOTBALL PORTRAITS - Nostalgia Chinaglia
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«Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia»
- coro tifosi Lazio, anni '70
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Come glielo spieghi, ai ragazzini hi-tech di oggi, sempre connessi, uno come Long John? Ti senti rispondere un po' come in quella famosa canzone: «Ma chi erano mai questi Beatles».
- coro tifosi Lazio, anni '70
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Come glielo spieghi, ai ragazzini hi-tech di oggi, sempre connessi, uno come Long John? Ti senti rispondere un po' come in quella famosa canzone: «Ma chi erano mai questi Beatles».
Giorgio Chinaglia, beatle, non era. Anzi, tutt’altro.
Figlio del secondo dopoguerra, era nato nel 1947 e aveva subito imparato che la vita sa essere dura come e quanto i marmi della sua Carrara, ma non altrettanto liscia.
Con le cave apuane in crisi, la famiglia si era trasferita in Galles, altra terra di miniere, ma per aprire un ristorante. Giorgio, a sei anni, l'aveva raggiunta in treno da solo, con un cartello al collo e su scritta la destinazione: «Swansea».
A scuola, ribelle e poco portato per studiare. Fuori, fa lo sguattero in cucina dai suoi e si sfoga nelle giovanili dello Swansea City, che oggidì fa su e giù fra Premier League e Championship ma allora era una squadretta di dilettanti.
Big George in Italia ci torna 19-enne per il militare. Va alla Massese ed esplode all’Internapoli, che oggi neanche esiste più.
Tre anni dopo, nel 1969, eccolo alla squadra della sua (seconda) vita: la Lazio. Per 100 milioni di lire. Scandalo. Un po' come i 90 miliardi per Christian “Bobo” Vieri, che trent’anni dopo la lascerà per l’Inter.
Ecco, Chinaglia è stato un Vieri senza le veline. Un capopopolo, ma anche un bullo à la Ibra che però, col suo allenatore “filosofo”, Tommaso Maestrelli, vinse da capocannoniere lo storico scudetto del 1974.
Di quella Lazio, tanto bella quanto sfortunata, era più che il capitano, il simbolo che girava con la 44 magnum sotto la giacca. À la ispettore Callaghan. In quella Lazio dei clan, partitelle e ritiri finivano così: sparando ai lampioni.
In Italia-Haiti, al mondiale di Germania Ovest ’74, sdoganò il «vaffa» moviolato in mondovisione al Ct Ferruccio Valcareggi per la sostituzione. Fu la “chinagliata” più famosa, certo non la prima. Oggi, robetta da educande. Allora, un drammone... nazionale.
Anche perché, nel novembre ’73, lo storico tap-in con cui espugnammo Wembley davanti ai nostri «trentamila camerieri» fu sì di Fabio Capello, ma il merito era stato tutto dell'azzurro gallese. E della sua straripante sgroppata.
Nella sua Lazio, prese a pedate Vincenzino D’Amico per un tunnel di Sandro Mazzola. E inseguì con un ombrello l’arbitro Gino Menicucci perché l’Udinese aveva pareggiato al 5’ di recupero.
Nel ’76, cullò il Sogno Americano: 25 anni di contratto, per giocare con i New York Cosmos e pure lanciare, con Franz Beckenbauer e Pelé, il soccer negli States.
«Adesso dovrò trovarmi un lavoro», disse nel 2000.
In tre anni da presidente biancoceleste scese in B e perse 3,5 milioni di dollari. Da politico, alle Comunali di Roma, non gli bastarono 22 mila voti DC.
Buono solo a far gol, Long John. Come John Charles, gallese forse meno di lui. Ma vallo a spiegare, ai ragazzini hi-tech sempre connessi, chi erano mai Gentle Giant e Big George.
E perché Giorgio Chinaglia è - e per sempre resterà - il grido di battaglia.
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