Voigt, uno pterodattilo al Tour
Con la sua 17ª presenza alla Grande Boucle ha eguagliato il record di
partecipazioni. Lui che, con il suo naso a punta, ha attraversato in
sella alla bici trent’anni di racconto del ciclismo
di SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo
Il primo giorno di Tour, al Grand Départ, un paio di milioni di spettatori sulle strade dello Yorkshire assistevano (entusiasti) al solito tentativo di fuga da lontano. Un terzetto di coraggiosi: con Edet e Jarrier, Jens Voigt. La figura più ieratica del plotone ha lasciato sfogare, sul primo GPM, i pollastri; poi – in vista di un traguardo volante – li ha salutati con uno scatto. Jensie, al termine del logico ricongiungimento e dell’altrettanto logica conclusione allo sprint, è salito sul podio per indossare la maglia a pois. Sedici anni dopo la prima volta...
Herr Voigt (classe 1971) farà quarantatre primavere il prossimo 17 settembre: nacque nella DDR in quel di Grevesmühlen, il Mar Baltico a pochi passi, e idealizza – con la sola presenza – una storia incredibile. Nemmeno fosse uno pterodattilo, con quel naso a punta, in sella alla bici ha attraversato trent’anni di racconto del ciclismo e della Germania. Ultima testimonianza di un mondo scomparso, primattore di uno stile di corsa esaltante, à bloc, che ne ha decretato lo status di personaggio. Esuberante, non lo sentirete mai sparlare della Germania Est, lui che a quattordici anni lasciò casa per frequentare la (prestigiosa) Scuola dello Sport di Berlino. Specialità: ciclismo e atletica leggera. In quel sistema, coi mezzi scientifici di allora, della sua nidiata Jens era il secondo più dotato e promettente. Il migliore (un mostro) si chiamava Jan Ullrich, anch’egli proveniente dal medesimo Land: il diavolo e l’acqua santa o giù di lì. Così, mentre Ulle diventava una stella, Jensie fece il ciclista e il soldato. Nel 1994, cioè fuori tempo massimo, trionfò nella leggendaria Corsa della Pace: la gara simbolo del Patto di Varsavia. Eppure passò tardi al professionismo, nel 1997, in una realtà lontana dal ciclismo che contava davvero, in Australia alla ZVVZ-Giant, e fu solamente Heiko Salzwedel, geniale DS di quella piccola squadra, a consigliarlo alla francese Gan.
Il biondo, negli anni, si è rifatto. Passista di altissimo livello, poco stile e molta sostanza, con un’azione di forza che pare prendere a calci il mezzo... La fuga e la fatica, gesti essenziali del mestiere: abbiamo perso il conto delle sue imprese, compiute fino al successo o senza fortuna. Lo ricordiamo a una Vuelta al Pais Vasco (2005), una semitappa mattutina con un freddo invernale, sotto una pioggia battente. Il nostro si bevve da solo 83 chilometri, manco un metro di pianura, e vinse. Due anni fa invece, in Colorado, staccò i compagni d’avventura sull’Independence Pass: 130 chilometri di assolo e, a Beaver Creek, quasi tre minuti di vantaggio sul secondo arrivato. Nel 2013 si è ripresentato lassù, per correre la USA Pro Challenge, con una Trek Madone personalizzata. Sul telaio le icone della carriera e della vita: all’interno dei foderi orizzontali la bandiera della Repubblica Democratica, sul tubo dello sterzo la Colomba della Pace di Picasso (l’emblema della Course de la Paix), su quello obliquo una scritta. “31 countries, 850000 kilometres, 1600 races...”. Un’altra decalcomania sopra il portaborraccia: un lupo e “Shut up legs” (il suo motto). E poi, abbassando lo sguardo in pieno agone, sul piantone che porta al manubrio, i suoi amori: i nomi di Stephanie, la moglie, Marc, Julian, Adriana, Kim, Maya, Helen, i (sei) figli.
Uno così lo immagini ritratto da qualche parte ne “La torre”, il romanzo capolavoro di Uwe Tellkamp. Un libro che narra, attraverso l’odissea di una famiglia, un’epoca: il tramonto della DDR e l’esistenza difficile, epica, degli abitanti di un quartiere di Dresda. Quelli come Voigt, che di sicuro non avrebbero avuto un appartamento a “Bisanzio”, il sobborgo della nomenclatura, sembrano incarnare l’anima ossie. Qualcosa di unico, una cicatrice spavalda, esibita a mò di trofeo. Non sono in molti che, a capo di una fuga di 160 chilometri sulle Dolomiti, regalano la vittoria a uno più meritevole (Garate). Quella volta, al Giro d’Italia 2006, non tirò un metro: gregario della maglia rosa Ivan Basso, si inserì nel tentativo solo per controllarne lo sviluppo. Ha comunque vinto tanto, malgrado caratteristiche tecniche e tattiche penalizzanti. Specialista in grandi competizioni estinte (un destino...): la Friedensfahrt appunto, il glorioso Grand Prix des Nations a cronometro, il Deutschland Tour. I due Giri di Germania (2006, 2007) se li aggiudicò volando in salita; d’altronde, nel 2001, in Polonia, seminò la concorrenza salendo verso Karpacz, traguardo storico del ciclismo orientale che fu.
Il suo rapporto col Tour, speciale, va oltre le due tappe vinte e le maglie gialle indossate: la Grande Boucle, il caos agonistico che la caratterizza, ne ha sempre esaltato il talento e la follia. Scendendo il Piccolo San Bernardo (2009) rischiò di lasciarci le penne: se la cavò (...) con una commozione cerebrale e lo zigomo sinistro fratturato. Nel 2006, protagonista vincente della fuga bidone che caratterizzò quell’edizione, consegnò la Festa di Luglio (postuma) a Pereiro Sio. Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Come quando, nelle retrovie, assaggiò l’asfalto amaro dell’Aubisque. Era il 2010, la bici spezzata e le ammiraglie lontane: chiese aiuto alla vettura scopa che gli passò un trabiccolo per juniores (sic). Si fece venti chilometri rincorrendo l’ultima auto della Saxo Bank, tra gli improperi (i suoi) e le risate (di chi lo vide su un “triciclo”). L’anno prossimo cercheremo con lo sguardo, invano, l’uomo che pedalando ha fermato il tempo per correre con Bugno e Sagan. E che in Francia, nella Trek, è stato compagno di Danny Van Poppel, ventidue anni più giovane del marito di Stephanie.
di SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo
Il primo giorno di Tour, al Grand Départ, un paio di milioni di spettatori sulle strade dello Yorkshire assistevano (entusiasti) al solito tentativo di fuga da lontano. Un terzetto di coraggiosi: con Edet e Jarrier, Jens Voigt. La figura più ieratica del plotone ha lasciato sfogare, sul primo GPM, i pollastri; poi – in vista di un traguardo volante – li ha salutati con uno scatto. Jensie, al termine del logico ricongiungimento e dell’altrettanto logica conclusione allo sprint, è salito sul podio per indossare la maglia a pois. Sedici anni dopo la prima volta...
Herr Voigt (classe 1971) farà quarantatre primavere il prossimo 17 settembre: nacque nella DDR in quel di Grevesmühlen, il Mar Baltico a pochi passi, e idealizza – con la sola presenza – una storia incredibile. Nemmeno fosse uno pterodattilo, con quel naso a punta, in sella alla bici ha attraversato trent’anni di racconto del ciclismo e della Germania. Ultima testimonianza di un mondo scomparso, primattore di uno stile di corsa esaltante, à bloc, che ne ha decretato lo status di personaggio. Esuberante, non lo sentirete mai sparlare della Germania Est, lui che a quattordici anni lasciò casa per frequentare la (prestigiosa) Scuola dello Sport di Berlino. Specialità: ciclismo e atletica leggera. In quel sistema, coi mezzi scientifici di allora, della sua nidiata Jens era il secondo più dotato e promettente. Il migliore (un mostro) si chiamava Jan Ullrich, anch’egli proveniente dal medesimo Land: il diavolo e l’acqua santa o giù di lì. Così, mentre Ulle diventava una stella, Jensie fece il ciclista e il soldato. Nel 1994, cioè fuori tempo massimo, trionfò nella leggendaria Corsa della Pace: la gara simbolo del Patto di Varsavia. Eppure passò tardi al professionismo, nel 1997, in una realtà lontana dal ciclismo che contava davvero, in Australia alla ZVVZ-Giant, e fu solamente Heiko Salzwedel, geniale DS di quella piccola squadra, a consigliarlo alla francese Gan.
Il biondo, negli anni, si è rifatto. Passista di altissimo livello, poco stile e molta sostanza, con un’azione di forza che pare prendere a calci il mezzo... La fuga e la fatica, gesti essenziali del mestiere: abbiamo perso il conto delle sue imprese, compiute fino al successo o senza fortuna. Lo ricordiamo a una Vuelta al Pais Vasco (2005), una semitappa mattutina con un freddo invernale, sotto una pioggia battente. Il nostro si bevve da solo 83 chilometri, manco un metro di pianura, e vinse. Due anni fa invece, in Colorado, staccò i compagni d’avventura sull’Independence Pass: 130 chilometri di assolo e, a Beaver Creek, quasi tre minuti di vantaggio sul secondo arrivato. Nel 2013 si è ripresentato lassù, per correre la USA Pro Challenge, con una Trek Madone personalizzata. Sul telaio le icone della carriera e della vita: all’interno dei foderi orizzontali la bandiera della Repubblica Democratica, sul tubo dello sterzo la Colomba della Pace di Picasso (l’emblema della Course de la Paix), su quello obliquo una scritta. “31 countries, 850000 kilometres, 1600 races...”. Un’altra decalcomania sopra il portaborraccia: un lupo e “Shut up legs” (il suo motto). E poi, abbassando lo sguardo in pieno agone, sul piantone che porta al manubrio, i suoi amori: i nomi di Stephanie, la moglie, Marc, Julian, Adriana, Kim, Maya, Helen, i (sei) figli.
Uno così lo immagini ritratto da qualche parte ne “La torre”, il romanzo capolavoro di Uwe Tellkamp. Un libro che narra, attraverso l’odissea di una famiglia, un’epoca: il tramonto della DDR e l’esistenza difficile, epica, degli abitanti di un quartiere di Dresda. Quelli come Voigt, che di sicuro non avrebbero avuto un appartamento a “Bisanzio”, il sobborgo della nomenclatura, sembrano incarnare l’anima ossie. Qualcosa di unico, una cicatrice spavalda, esibita a mò di trofeo. Non sono in molti che, a capo di una fuga di 160 chilometri sulle Dolomiti, regalano la vittoria a uno più meritevole (Garate). Quella volta, al Giro d’Italia 2006, non tirò un metro: gregario della maglia rosa Ivan Basso, si inserì nel tentativo solo per controllarne lo sviluppo. Ha comunque vinto tanto, malgrado caratteristiche tecniche e tattiche penalizzanti. Specialista in grandi competizioni estinte (un destino...): la Friedensfahrt appunto, il glorioso Grand Prix des Nations a cronometro, il Deutschland Tour. I due Giri di Germania (2006, 2007) se li aggiudicò volando in salita; d’altronde, nel 2001, in Polonia, seminò la concorrenza salendo verso Karpacz, traguardo storico del ciclismo orientale che fu.
Il suo rapporto col Tour, speciale, va oltre le due tappe vinte e le maglie gialle indossate: la Grande Boucle, il caos agonistico che la caratterizza, ne ha sempre esaltato il talento e la follia. Scendendo il Piccolo San Bernardo (2009) rischiò di lasciarci le penne: se la cavò (...) con una commozione cerebrale e lo zigomo sinistro fratturato. Nel 2006, protagonista vincente della fuga bidone che caratterizzò quell’edizione, consegnò la Festa di Luglio (postuma) a Pereiro Sio. Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Come quando, nelle retrovie, assaggiò l’asfalto amaro dell’Aubisque. Era il 2010, la bici spezzata e le ammiraglie lontane: chiese aiuto alla vettura scopa che gli passò un trabiccolo per juniores (sic). Si fece venti chilometri rincorrendo l’ultima auto della Saxo Bank, tra gli improperi (i suoi) e le risate (di chi lo vide su un “triciclo”). L’anno prossimo cercheremo con lo sguardo, invano, l’uomo che pedalando ha fermato il tempo per correre con Bugno e Sagan. E che in Francia, nella Trek, è stato compagno di Danny Van Poppel, ventidue anni più giovane del marito di Stephanie.
A Mulhouse, il 14 luglio, il dì della definitiva presa del potere di Nibali, la carovana tutta gli ha reso omaggio. Prudhomme, Hinault, Gouvenou, Thevenet, Duclos-Lassalle hanno regalato a Jens – che, al diciassettesimo Tour, raggiungendo Hincapie e O’Grady, eguaglia il primato assoluto di partecipazioni – sei piccole maglie gialle. Una per ognuno dei suoi figli. «Nella gerarchia della mia famiglia, io sono poco sopra il cane. Ma mi piace così...».
SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo
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