FOOTBALL PORTRAITS - Cantona, Kung Fu Panda


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di CHRISTIAN GIORDANO © - Rainbow Sports Books ©
Guerin Sportivo © - n. 3, marzo 2010

«Oh-ah, Cantona!». 
A un certo punto ti aspetti che la sala s’alzi in piedi e, dopo essersi tirata su il colletto, intoni, sull’aria della Marsigliese, la strofetta a “The King”. Come se fosse tornato, il Re, e quell’ala del cinema fosse una stand dell’Old Trafford. Il Teatro dei Sogni dove, con lui, tutto era possibile.

Invece, l’appena inciccito Le Dieu, il dio, secondo i suoi vecchi tifosi, buca il grande schermo per vestire non la maglia del Manchester United, bensì i panni dell’amico immaginario. Quello di Eric Bishop, 55-enne postino della periferia di Manchester la cui esistenza va a ramengo, è Éric Cantona, idolo cartonato a grandezza naturale in camera che gli si materializza per dargli consigli su come ricominciare a vivere. Cioè ad amare.

- Che faresti, campione, se i sogni e le cose belle della tua vita ti si stessero afflosciando davanti agli occhi come sacchi di spazzatura?

«Ci sono sempre più scelte di quelle che ci appaiono, mon ami». La risposta da locandina del più amato nella storia dello United (plebiscito del 2001) che, ne Il mio amico Eric, interpreta se stesso. Ken Loach, regista impegnato e coraggioso, ne sfrutta l’icona per la sua penultima denuncia sociale. L'ultima (per ora), Irish Route, ambientata in Iraq, è già in lavorazione. 

Qui, il film-maker nemico di ogni governo inglese – ultraconservatore alla Thatcher o finto laburista alla Blair e Brown – racconta con la consueta levità ma non la solita maestria nella sceneggiatura del sodale Paul Laverty, e un farsesco quanto improbabile lieto fine (forse esiziale per la Palma d’oro a Cannes 2009), i disagi socioeconomici dei poco ruggenti anni Duemila

Prossimo al punto di rottura, Eric Bishop (il misconosciuto Steve Evets, palindromo nome d’arte del protagonista), bidivorziato e pieno di guai economici e familiari, ha smesso di seguire dal vivo lo United perché costa troppo. Prima critica all’Inghilterra che dai suoi stadi, insieme con l’acqua sporca della violenza, ha buttato via il bambino: la working class, sostituita con la ben più facoltosa clientela degli skyboxes, i palchi-suite per vip e autorità.

Preso dal panico di giovane sposo-padre, trent’anni prima aveva lasciato l’amore della sua vita, Lily (Stephanie Bishop), per poi ritrovarsi estraneo in casa propria con i due figliastri che la seconda moglie gli ha lasciato in affidamento. Col più grande, Ryan (Gerard Kearns) diventato lo scagnozzo di un gangsterello locale. Altro classico di Loach.

Bishop (purtroppo doppiato da Vittorio Stagni, più secondo violino che protagonista) è messo così male che comincia a confidarsi con un “dio” di cartone, la gigantografia a grandezza naturale di Eric Cantona, tappezzeria fisica di un’esistenza da rottamare e sottosopra come il disordine anche morale che in casa regna sovrano.

- Che cosa faresti tu, campione, se vivessi con un misero stipendio e due figliastri sfaccendati e ricettatori? 
Se avessi una moglie sposata e lasciata troppo presto, e da lei una figlia già grande che per laurearsi ti desse da accudire la tua nipotina, costringendoti a rivedere il grande amore che mai hai smesso di amare? 
Se uno dei tuoi figli si cacciasse nei guai nascondendo in casa tua una pistola, facendoti riperdere Lily proprio quando stavi per riconquistarla? 
E come hai fatto a non andare via di testa, in quegli otto mesi senza calcio dopo il colpo di kung fu a Matthew Simmons, quando Alan Wilkie ti aveva appena espulso in quella folle notte del 25 gennaio 1995 al Selhurst Park col Crystal Palace?

È a quel punto che il francese più amato d’Inghilterra si trasforma in consigliere spirituale: «La tromba. Ho imparato a suonare la tromba». E lì, la sala esplode come l’Old Trafford dei bei dì per uno degli indimenticabili gol del numero 7 col colletto alzato. Gesti tecnici così estemporanei da «sorprendere te stesso: a volte l’unico modo per battere l’avversario». È con gol così – montati come cameo – che è diventato il primo straniero ad alzare da capitano la FA Cup. E a farlo nella prima squadra vincitrice per due volte (1994 e 1996) del Double campionato-coppa nazionali.

Ma non è solo per le vittorie, tante e importanti, che Cantona è diventato Cantona. Che Guevara in tacchetti e calzoncini che le guerre però le vinceva. E spesso da solo. Per il popolo dello United, molto più che un mito transitorio fra i grandi numeri sette del club, idolo generazionale dopo George Best e Bryan Robson e prima di David Beckham e Cristiano Ronaldo. «Non l’ho scelto io quel numero. È successo per caso. Quando sono arrivato, era libero perché Robson era infortunato». 

Ma se Cantona è entrato nei cuori della gente è soprattutto per il carisma, per il genio calcistico che nelle Cantonate nascondeva insospettabili doti di professionalità e competitività. Eric voleva vincere. E alla sua maniera. Un Cassano con dimensione internazionale e implacabile sottorete, specie quando contava.

Ribelli nel sangue, i Cantona, famiglia di emigranti: il nonno paterno, Joseph, lasciò la Sardegna per Marsiglia, i genitori della madre erano separatisti catalani. Pedro Raurich, il nonno materno, aveva combattuto contro l’esercito del Generalisímo Francisco Franco nel 1938, quando, ferito al fegato, con la moglie Paquita per curarsi riparò in Francia, prima a Saint-Prest poi a Marsiglia.

Lì il secondogenito di Albert (infermiere in un ospedale psichiatrico) e Eleonore nasce il 24 maggio 1966, quattro anni dopo Jean-Marie e 17 mesi prima di Jöel, che imiterà il mezzano in tutto: calciatore professionista, anche in Inghilterra e nel beach soccer, e attore. 

Il calcio Éric lo conosce a 7 anni nei Les Caillols, squadretta dell’omonimo quartiere tra l’11esimo e il 12 arrondissement sulle colline dove i Cantona possiedono una cava (nonno Joseph faceva lo scalpellino). Quel vivaio ha sfornato un talento come Jouve e aveva futuri campioni come Tigana e Galtier. Cantona inizia seguendo le orme del padre, portiere. Poi estro e istinto spostano in attacco uno che «a nove anni, giocava già come uno di quindici». 

Dopo oltre 200 partite, il provino fallito al Nizza, nell’81 entra nelle giovanili dell’Auxerre. Il 5 novembre 1983 (4-0 in campionato al Nancy) il debutto in prima squadra grazie al ruvido Guy Roux, il Carletto Mazzone d’oltralpe. Il 1984 è sacrificato al servizio militare, poi il prestito al Martigues, in seconda divisione. Nel 1986, il ritorno alla base per il primo contratto da professionista. 

CANTONATE
L’anno dopo, l’esordio in nazionale e la prima Cantonata: un pugno in faccia a un compagno, il portiere Martini. Nel 1987 l’entrataccia su Der Zakarian del Nantes gli costa tre giornate di squalifica, poi ridotte a due, e la minaccia del club di non mandarlo in nazionale. Coi Bleus vince l’Europeo Under 21 e poi, per 22 milioni di franchi – record di Francia – approda al Marsiglia, la squadra per cui tifava da ragazzo

All’OM, nel gennaio ’89, in amichevole contro la Torpedo Mosca, sostituito, scalcia il pallone verso il pubblico e getta via la maglia. Il club lo sospende per quattro settimane. Pochi mesi prima, sostituito anche nella Francia, nel dopopartita aveva dato del «sac de merde» al Ct Henri Michel in diretta tv. In prestito per un anno al Montpellier, tira in faccia gli scarpini al compagno Lemoult. Incidente che porta sei senatori a chiederne la cessione, sventata dai buoni uffici di Blanc e Valderrama che inducono la dirigenza alla mano morbida: 10 giorni di stop. Come ricompensa, la Coppa di Francia e per lui il rientro all’Olympique.

Tapie frulla allenatori (Gili, Beckenbauer) prima di innamorarsi di Raymond Goethals, che però, come il patron, con Éric non lega. In premio per la vittoria in campionato, il passaggio al Nîmes. Lì, nel dicembre ’91, palla contro l’arbitro e squalifica per un mese. Diventati tre dopo l’«idioti» alla commissione federale.

MICA COSì PERFIDA, ALBIONE

Cantona pensa al ritiro, Michel Platini e Gérard Houllier lo convincono, col suo psicanalista, che la risposta si chiama Inghilterra. Il 6 novembre ’91, dopo il 3-0 del Liverpool ad Anfield sull’Auxerre in Coppa UEFA, Platini lo consiglia ai Reds. Graeme Souness declina per non turbare lo spogliatoio (sic). A gennaio ’92, allo Sheffield Wednesday dell’ex doriano Trevor Francis, la settimana di prova raddoppia: il Nostro prende cappello e resta nello Yorkshire, ma al rivale Leeds United. Portato al titolo con 3 gol in 15 presenze e assist sfornati in serie. 

Primo a centrare il back-to-back con due club diversi, dà il “la” alla propria leggenda. Come Ibra ad altre latitudini, vince sempre il campionato: cinque dal ’92 al ’97, gli ultimi quattro con il Manchester United cui Howard Wilkinson lo svende per 1,2 milioni di sterline. Un furto senza scasso per Alex Ferguson, che aveva fuori forma sia Brian McClair sia Mark Hughes e il colpo estivo Dion Dublin fermo sei mesi per una frattura. 

Il titolo vinto dal Blackburn arriva nei 248 giorni, 18 ore e 22 minuti di Cantona senza calcio per il colpo di karate più famoso della storia. Ancora oggi celebrato, nei pub attorno all’Old Trafford, dagli adesivi sui fusti di birra: «Il 1974 è stato un anno terribile per il calcio inglese: è nato Simmons». 

Annus horribilis mai quanto il 1997, quando “The King” – sogno proibito di patron Massimo Moratti per l'Inter – abdica. A 31 anni, come “le Roi” Platini. Tra re, colletto alzato o maglietta fuori, ci si intende. «Oh-ah, Cantona!».

CHRISTIAN GIORDANO
Guerin Sportivo n. 3, marzo 2010



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