River, la Máquina perfetta
http://www.rivistaundici.com/2015/12/14/la-maquina-perfetta/
C'è un filo rosso che congiunge il miglior River Plate di sempre, quello degli anni Quaranta, con quello protagonista nel Mondiale per club. È la mentalità, il gioco, il cervello.
di Federico Buffa e Carlo Pizzigoni
Rivista Undici n. 6, 14 dicembre 2015
«Noooo, hay que ofrecer mucho mas ¡Bernabé es re-bueno!»
La trattativa era scomoda. Non è che avesse segnato tantissimo questo Bernabé Ferreyra, però aveva segnato tanto in relazione alle gare che aveva disputato: 13 presenze, 19 gol.
Il presidentissimo della storia del Club Atletico River Plate, Antonio Vespucio Liberti, che è oggi il vero nome dello stadio Monumental, perché l’appezzamento di terreno se lo comprò lui per poi costruirci sopra l’impianto, a un certo punto aprì una borsa e mise sul tavolo un lingotto d’oro. Troppo grossa per tenerla per sé, il rappresentante del Tigre, la squadra dove aveva esordito Ferreyra, chiusa definitivamente la trattativa, andò in giro a raccontare a tutti quello che gli era successo. «Un lingotto d’oro, vero!». Da quel momento, per tutti, in Argentina e poi nel resto del mondo, quelli con la maglia della banda trasversale rossa sarebbero stati i Millonarios.
Caro, sì, ma mai ci fu spesa migliore, perché Bernabé Ferreyra diventerà il numero uno di ogni epoca per media gol nel River: 185 gol in 187 partite. Se aggiungete quelli con la maglia del Tigre, sarebbero più gol che incontri. Il primo grande idolo di una generazione, quella del tango, che viveva la sua età dell’oro.
«Dicen los muchachos / del oeste Argentino/ que tengo más tiro / que el gran Bernabé», cantava e suonava l’orchestra di Osvaldo Pugliese.
Aníbal Pichuco Troilo, uno dei più grandi bandoneonisti di sempre, hincha malato del River, era entusiasta di Ferreyra, di cui poi fu anche grande amico: «C’è un solo Gardel, un solo Fangio e un solo Bernabé. Si palesò mentre il futbol non era molto considerato, lo levantó él solo», disse. Aveva un particolare soprannome. «Así que usted es la Fiera ( la belva, detto con ovvia accezione positiva)?», gli chiese un giorno il leggendario Carlos Gardel. «No, maestro. La vera Fiera è Lei quando canta», gli avrebbe risposto il timido Bernabé. Nella storia del calcio sudamericano, in termini di media gol, solo due giocatori han fatto meglio di lui, il brasiliano Arthur Friedenreich e il grande Valeriano López, il miglior centravanti di sempre della Nazionale peruviana e il miglior colpitore di testa della storia del Sudamerica.
Un lingotto d’oro per la Fiera. La storia dei Millonarios nasce così. E diventa mitologica poco tempo dopo, quando al River Plate si forma La Máquina, una squadra che cambierà la storia del calcio, non necessariamente sudamericano. Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna, Loustau sono i nomi dell’impressionante delantera, il simbolo de La Máquina, e se oggi andate al Museo del River, costruito di fianco al Monumental, sono le gigantografie di questi cinque fenomeni che vi accoglieranno all’entrata. Tra il 1941 e il 1946 vincono tutto, ma quello è il meno: i Millonarios rivoluzionano il modo di giocare a calcio. La base, certo, è nell’origine del gioco in Sudamerica: non il collegio né i prati verdi inglesi, ma il potrero, il cortile, spazi spesso angusti, dove il controllo di palla diventa un’arte, il dribbling una fioritura spesso necessaria, se vuoi portare a casa risultati e caviglie. Non a caso, il futbol poi denominato criollo, per differenziarlo da quello british, è stato anche chiamato “alma del potrero”.
Concetti che alla scuola del River Plate diventano filosofia pratica. In cattedra, insegna il professor Renato Cesarini. Nativo di Senigallia, da qui il soprannome Tano appiccicato in Argentina a ogni italiano d’origine, è sbarcato nel Nuovo Mondo ancora in fasce. Poi ha compiuto il viaggio al contrario per giocare nella Juventus e in Nazionale italiana (dove si guadagna l’ultima pagina del dizionario del calcio, segnando sempre nei finali di partita: è l’uomo della Zona), rientra al River, e lì si occupa di allenare giovanili e prima squadra, proprio negli anni de La Máquina.
Ai ragazzi che mettono la maglia con la banda viene da subito insegnata una filastrocca.
Di cosa è fatta la palla? «Cuoio!»
Da dove viene il cuoio? «Dalla mucca!»
Cosa mangia la mucca? «Erba»
Entonces, la pelota siempre al piso, sempre rasoterra.
Néstor Pipo Rossi, giocatore chiave de La Máquina, l’uomo di equilibrio in mezzo al campo, durante un allenamento a cui si era aggregato un giovane calciatore che aveva osato tirare una spingardata di punta che era volata da un’area all’altra, aveva detto: «Non ti vergogni di quello che hai fatto?». In un’altra occasione si rivolse così a Federico Vairo, difensore del River che aveva spazzato alto un pallone: «Muy buena Federico, ahora alcanzáme la escalera», adesso prendimi la scala. Lezione di vita poi, a fine gara, negli spogliatoi: «Chi tratta male la palla diventa una cattiva persona, nella vita».
L’altro prof di casa River risponde al nome di Carlos Peucelle, anche lui tecnico de La Máquina. Decisamente più filosofo di Cesarini, ha lasciato diversi scritti molto interessanti in materia di formazione e didattica, oltre che aforismi illuminanti. «La tecnica si può insegnare e apprendere, il gioco, no, non si insegna». Il processo formativo è basato su elementi da sottrarre alle conoscenze e alle pratiche apprese, appunto, nei potreros, un principio che Peucelle definisce di capacitación. Secondo Peucelle, La Máquina nacque per merito di una sola persona, Doña Rosa, la mamma del giocatore simbolo di quel River, Adolfo Pedernera. E proprio l’uomo che fu il modello di Alfredo Di Stefano sottoscrisse i dettami del Maestro Peucelle: «La squadra si formò quasi magicamente, era un pezzo che si univa a un altro pezzo perfettamente congruente. Nascevano quasi spontanei movimenti con e senza palla: occupare una zona, lasciarla libera per un inserimento a sorpresa… Eravamo un gruppo di grandi interpreti, degli illuminati del gioco, tutti con una comprensione totale di quello che avveniva in campo, sembravamo avere un copione in mano». Pedernera, il primo grande falso nueve della storia del fútbol, esprime concetti di movimento senza palla e occupazione degli spazi che saranno poi i fondamenti delle grandi rivoluzioni del calcio magiaro degli Anni Cinquanta e di quello olandese nei Settanta.
A chi chiedeva a Perdernera qual era il sistema di gioco adottato, rispondeva «1-10, tutti attaccano, tutti difendono». Già sentita, questa: negli anni del totaalvoetbal. Alfredo Di Stefano, che avrebbe poi preso il posto di Pedernera nella delantera del River, ricorda il momento in cui la sua carriera cambiò: «Mi resi conto lì dentro che il principio base del calcio è che si deve giocare l’uno per l’altro, semplicemente e naturalmente». Il River avrebbe naturalmente vinto anche con Don Alfredo. E poi ancora, e molto, tramandando sempre quei principi cardine proposti da Cesarini e Peucelle. Però solo una squadra, comandata da un giocatore ovviamente cresciuto nel River, Ramon Diaz, passato pure dall’Italia, sarebbe stata accostata alla grande Máquina. Tra il ’95 e il ’96 aveva vinto tutto, in patria e nel subcontinente latinoamericano.
La Maquinita, come avevano preso a nominarla i giornali, prevedeva al centro del progetto Enzo Francescoli, “nuovo Pedernera”, e attorno una fucina di giovanissimi talenti: Hernán Crespo (decisivo con due gol nella finale di Libertadores), Ariel Ortega, Juan Pablo Sorín, Marcelo Salas, Pablo Aimar. E Marcelo Gallardo, detto el Muñeco. Gallardo ha chiuso la carriera al Nacional Montevideo, e venti secondi dopo aver smesso gli scarpini è diventato tecnico e ha subito vinto, col Bolso. Poi si è fermato, ha studiato, e ha accettato la chiamata dell’Alma mater.
Sembra che, magicamente, si sia riannodato il filo rosso che partiva da La Máquina. I primi mesi del Muñeco sulla panchina del River sono da togliere il fiato per l’emozione: una squadra veloce, aggressiva, dinamica, con la perfetta gestione del ritmo e sapiente copertura degli spazi. Nella primissima versione, quella esteticamente più apprezzabile, rischiava parecchio, ma le combinazioni frequenti di grande qualità tecnica incenerivano ogni raddoppio, ogni tentativo di pressione. Situazioni di gioco che hanno portato il River a vincere ancora a livello continentale, prima la Copa Sudamericana, contro il Nacional di Medellin di Juan Carlos Osorio, altro tecnico di grande interesse, poi, finalmente, dopo 19 anni, dopo un’umiliante retrocessione in Serie B, dopo una rinascita iniziata con in panchina con Matias Almeyda, ecco la vittoria in Copa Libertadores, dove il River ha battuto i ricchissimi messicani del Tigres UANL, con l’intelligenza tattica, con la qualità tecnica, con l’insuperabile trasporto del Monumental, intitolato a Vespuci Liberti, l’uomo che diede origine alla Leggenda del “Más Grande”, come chiamano il River i suoi stessi tifosi.
Una serie di vittorie che celebra in Gallardo l’uomo di meravigliose e geniali letture di campo, il tecnico che emana personalità e trasmette certezze e convinzioni, come fosse il nuovo Peucelle. Niente più Maquinita, il suo River deve essere paragonato ai più grandi. Ed è ora pronto a sfidare i più grandi dell’altro lato dell’Oceano Atlantico, il Barcellona campione di tutto ed erede principale della rivoluzione olandese degli Anni Settanta. Mercoledì 16 la semifinale con il Sanfrecce, domenica 20 la finalissima.
In comune con la grande Máquina, la squadra di Gallardo ha certamente le radici, perché il River rimane un club che ha ancora il culto della formazione giovanile, quello del cuero e del pasto di Cesarini. In mezza a quella macchina perfetta disegnata dal Muñeco c’è il nuovo Pipo Russo, l’uomo di equilibrio in mezzo al campo, quello che riconosce i tempi della giocata offensiva ma è pronto ad accorciare lo spazio in quella difensiva. Non ha un fisico da gladiatore ma è il padrone della metacampo, Matias Kranevitter. Ha un cervello sopraffino che gli permette di essere sempre al posto dove la squadra ha bisogno che sia, con la palla o senza. Non è costato un lingotto d’oro, ma lo vale tutto. Perché ha la testa del gioco, il ritmo e il culto. È il fútbol, come è il fútbol Gallardo, o Pedernera, Rossi, Lostau, Labruna, Di Stefano, Peucelle, Cesarini. Perché al Club Atletico River Plate insegnano soprattutto quello.
Rivista Undici n. 6, 14 dicembre 2015
«Noooo, hay que ofrecer mucho mas ¡Bernabé es re-bueno!»
La trattativa era scomoda. Non è che avesse segnato tantissimo questo Bernabé Ferreyra, però aveva segnato tanto in relazione alle gare che aveva disputato: 13 presenze, 19 gol.
Il presidentissimo della storia del Club Atletico River Plate, Antonio Vespucio Liberti, che è oggi il vero nome dello stadio Monumental, perché l’appezzamento di terreno se lo comprò lui per poi costruirci sopra l’impianto, a un certo punto aprì una borsa e mise sul tavolo un lingotto d’oro. Troppo grossa per tenerla per sé, il rappresentante del Tigre, la squadra dove aveva esordito Ferreyra, chiusa definitivamente la trattativa, andò in giro a raccontare a tutti quello che gli era successo. «Un lingotto d’oro, vero!». Da quel momento, per tutti, in Argentina e poi nel resto del mondo, quelli con la maglia della banda trasversale rossa sarebbero stati i Millonarios.
Caro, sì, ma mai ci fu spesa migliore, perché Bernabé Ferreyra diventerà il numero uno di ogni epoca per media gol nel River: 185 gol in 187 partite. Se aggiungete quelli con la maglia del Tigre, sarebbero più gol che incontri. Il primo grande idolo di una generazione, quella del tango, che viveva la sua età dell’oro.
«Dicen los muchachos / del oeste Argentino/ que tengo más tiro / que el gran Bernabé», cantava e suonava l’orchestra di Osvaldo Pugliese.
Aníbal Pichuco Troilo, uno dei più grandi bandoneonisti di sempre, hincha malato del River, era entusiasta di Ferreyra, di cui poi fu anche grande amico: «C’è un solo Gardel, un solo Fangio e un solo Bernabé. Si palesò mentre il futbol non era molto considerato, lo levantó él solo», disse. Aveva un particolare soprannome. «Así que usted es la Fiera ( la belva, detto con ovvia accezione positiva)?», gli chiese un giorno il leggendario Carlos Gardel. «No, maestro. La vera Fiera è Lei quando canta», gli avrebbe risposto il timido Bernabé. Nella storia del calcio sudamericano, in termini di media gol, solo due giocatori han fatto meglio di lui, il brasiliano Arthur Friedenreich e il grande Valeriano López, il miglior centravanti di sempre della Nazionale peruviana e il miglior colpitore di testa della storia del Sudamerica.
Un lingotto d’oro per la Fiera. La storia dei Millonarios nasce così. E diventa mitologica poco tempo dopo, quando al River Plate si forma La Máquina, una squadra che cambierà la storia del calcio, non necessariamente sudamericano. Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna, Loustau sono i nomi dell’impressionante delantera, il simbolo de La Máquina, e se oggi andate al Museo del River, costruito di fianco al Monumental, sono le gigantografie di questi cinque fenomeni che vi accoglieranno all’entrata. Tra il 1941 e il 1946 vincono tutto, ma quello è il meno: i Millonarios rivoluzionano il modo di giocare a calcio. La base, certo, è nell’origine del gioco in Sudamerica: non il collegio né i prati verdi inglesi, ma il potrero, il cortile, spazi spesso angusti, dove il controllo di palla diventa un’arte, il dribbling una fioritura spesso necessaria, se vuoi portare a casa risultati e caviglie. Non a caso, il futbol poi denominato criollo, per differenziarlo da quello british, è stato anche chiamato “alma del potrero”.
Concetti che alla scuola del River Plate diventano filosofia pratica. In cattedra, insegna il professor Renato Cesarini. Nativo di Senigallia, da qui il soprannome Tano appiccicato in Argentina a ogni italiano d’origine, è sbarcato nel Nuovo Mondo ancora in fasce. Poi ha compiuto il viaggio al contrario per giocare nella Juventus e in Nazionale italiana (dove si guadagna l’ultima pagina del dizionario del calcio, segnando sempre nei finali di partita: è l’uomo della Zona), rientra al River, e lì si occupa di allenare giovanili e prima squadra, proprio negli anni de La Máquina.
Ai ragazzi che mettono la maglia con la banda viene da subito insegnata una filastrocca.
Di cosa è fatta la palla? «Cuoio!»
Da dove viene il cuoio? «Dalla mucca!»
Cosa mangia la mucca? «Erba»
Entonces, la pelota siempre al piso, sempre rasoterra.
Néstor Pipo Rossi, giocatore chiave de La Máquina, l’uomo di equilibrio in mezzo al campo, durante un allenamento a cui si era aggregato un giovane calciatore che aveva osato tirare una spingardata di punta che era volata da un’area all’altra, aveva detto: «Non ti vergogni di quello che hai fatto?». In un’altra occasione si rivolse così a Federico Vairo, difensore del River che aveva spazzato alto un pallone: «Muy buena Federico, ahora alcanzáme la escalera», adesso prendimi la scala. Lezione di vita poi, a fine gara, negli spogliatoi: «Chi tratta male la palla diventa una cattiva persona, nella vita».
L’altro prof di casa River risponde al nome di Carlos Peucelle, anche lui tecnico de La Máquina. Decisamente più filosofo di Cesarini, ha lasciato diversi scritti molto interessanti in materia di formazione e didattica, oltre che aforismi illuminanti. «La tecnica si può insegnare e apprendere, il gioco, no, non si insegna». Il processo formativo è basato su elementi da sottrarre alle conoscenze e alle pratiche apprese, appunto, nei potreros, un principio che Peucelle definisce di capacitación. Secondo Peucelle, La Máquina nacque per merito di una sola persona, Doña Rosa, la mamma del giocatore simbolo di quel River, Adolfo Pedernera. E proprio l’uomo che fu il modello di Alfredo Di Stefano sottoscrisse i dettami del Maestro Peucelle: «La squadra si formò quasi magicamente, era un pezzo che si univa a un altro pezzo perfettamente congruente. Nascevano quasi spontanei movimenti con e senza palla: occupare una zona, lasciarla libera per un inserimento a sorpresa… Eravamo un gruppo di grandi interpreti, degli illuminati del gioco, tutti con una comprensione totale di quello che avveniva in campo, sembravamo avere un copione in mano». Pedernera, il primo grande falso nueve della storia del fútbol, esprime concetti di movimento senza palla e occupazione degli spazi che saranno poi i fondamenti delle grandi rivoluzioni del calcio magiaro degli Anni Cinquanta e di quello olandese nei Settanta.
A chi chiedeva a Perdernera qual era il sistema di gioco adottato, rispondeva «1-10, tutti attaccano, tutti difendono». Già sentita, questa: negli anni del totaalvoetbal. Alfredo Di Stefano, che avrebbe poi preso il posto di Pedernera nella delantera del River, ricorda il momento in cui la sua carriera cambiò: «Mi resi conto lì dentro che il principio base del calcio è che si deve giocare l’uno per l’altro, semplicemente e naturalmente». Il River avrebbe naturalmente vinto anche con Don Alfredo. E poi ancora, e molto, tramandando sempre quei principi cardine proposti da Cesarini e Peucelle. Però solo una squadra, comandata da un giocatore ovviamente cresciuto nel River, Ramon Diaz, passato pure dall’Italia, sarebbe stata accostata alla grande Máquina. Tra il ’95 e il ’96 aveva vinto tutto, in patria e nel subcontinente latinoamericano.
La Maquinita, come avevano preso a nominarla i giornali, prevedeva al centro del progetto Enzo Francescoli, “nuovo Pedernera”, e attorno una fucina di giovanissimi talenti: Hernán Crespo (decisivo con due gol nella finale di Libertadores), Ariel Ortega, Juan Pablo Sorín, Marcelo Salas, Pablo Aimar. E Marcelo Gallardo, detto el Muñeco. Gallardo ha chiuso la carriera al Nacional Montevideo, e venti secondi dopo aver smesso gli scarpini è diventato tecnico e ha subito vinto, col Bolso. Poi si è fermato, ha studiato, e ha accettato la chiamata dell’Alma mater.
Sembra che, magicamente, si sia riannodato il filo rosso che partiva da La Máquina. I primi mesi del Muñeco sulla panchina del River sono da togliere il fiato per l’emozione: una squadra veloce, aggressiva, dinamica, con la perfetta gestione del ritmo e sapiente copertura degli spazi. Nella primissima versione, quella esteticamente più apprezzabile, rischiava parecchio, ma le combinazioni frequenti di grande qualità tecnica incenerivano ogni raddoppio, ogni tentativo di pressione. Situazioni di gioco che hanno portato il River a vincere ancora a livello continentale, prima la Copa Sudamericana, contro il Nacional di Medellin di Juan Carlos Osorio, altro tecnico di grande interesse, poi, finalmente, dopo 19 anni, dopo un’umiliante retrocessione in Serie B, dopo una rinascita iniziata con in panchina con Matias Almeyda, ecco la vittoria in Copa Libertadores, dove il River ha battuto i ricchissimi messicani del Tigres UANL, con l’intelligenza tattica, con la qualità tecnica, con l’insuperabile trasporto del Monumental, intitolato a Vespuci Liberti, l’uomo che diede origine alla Leggenda del “Más Grande”, come chiamano il River i suoi stessi tifosi.
Una serie di vittorie che celebra in Gallardo l’uomo di meravigliose e geniali letture di campo, il tecnico che emana personalità e trasmette certezze e convinzioni, come fosse il nuovo Peucelle. Niente più Maquinita, il suo River deve essere paragonato ai più grandi. Ed è ora pronto a sfidare i più grandi dell’altro lato dell’Oceano Atlantico, il Barcellona campione di tutto ed erede principale della rivoluzione olandese degli Anni Settanta. Mercoledì 16 la semifinale con il Sanfrecce, domenica 20 la finalissima.
In comune con la grande Máquina, la squadra di Gallardo ha certamente le radici, perché il River rimane un club che ha ancora il culto della formazione giovanile, quello del cuero e del pasto di Cesarini. In mezza a quella macchina perfetta disegnata dal Muñeco c’è il nuovo Pipo Russo, l’uomo di equilibrio in mezzo al campo, quello che riconosce i tempi della giocata offensiva ma è pronto ad accorciare lo spazio in quella difensiva. Non ha un fisico da gladiatore ma è il padrone della metacampo, Matias Kranevitter. Ha un cervello sopraffino che gli permette di essere sempre al posto dove la squadra ha bisogno che sia, con la palla o senza. Non è costato un lingotto d’oro, ma lo vale tutto. Perché ha la testa del gioco, il ritmo e il culto. È il fútbol, come è il fútbol Gallardo, o Pedernera, Rossi, Lostau, Labruna, Di Stefano, Peucelle, Cesarini. Perché al Club Atletico River Plate insegnano soprattutto quello.
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