Il marchese Del Bosque, fuoriclasse nato


di Enrico Maida, Corriere Adriatico, 3 luglio 2012

Se lo incontrassi in una di quelle vecchie drogherie di paese che profumano di spezie e di tentazioni, ti verrebbe voglia di chiedergli due etti di prosciutto, quattro salsicce di quelle buone e un po’ di coppa. Alla parola «coppa», probabilmente, il faccione rassicurante e generoso si illuminerebbe mentre i baffi leggermente spioventi incornicerebbero un sorriso. Il sorriso di Vicente Gonzales del Bosque, marchese di Salamanca dal 4 febbraio dell’anno scorso, da quando cioè il re Juan Carlos gli ha conferito il titolo nobiliare abbinandolo al premio Nobel, Vargas Llosa, in una cerimonia di quelle che non si dimenticano. Con una motivazione particolarmente significativa: la dedizione allo sport spagnolo e il contributo allo sviluppo dei valori sportivi. Non sono semplici parole su una pergamena, sono cose che ti restano dentro.

Il marchese aveva da poco guidato la nazionale spagnola verso il primo titolo mondiale conquistato in Sudafrica dopo decenni di delusioni e rimpianti per un Paese che pur vivendo di pallone non aveva mai superato i primi turni. Dissero allora che del Bosque non aveva fatto altro che sfruttare, completandolo, il lavoro del vecchio maestro Luis Aragonés, campione d’Europa due anni prima, uscito di scena con gli onori del trionfo. Il marchese non se l’era presa più di tanto, non aveva sottolineato il peso dell’assenza virtuale di Fernando Torres, mattatore degli Europei, frenato da una lunga convalescenza. E senza rivendicare meriti, aveva elogiato la squadra, i ragazzi, insomma, tutte quelle cose che si devono dire in certe circostanze perché competono al buon padre di famiglia. In quei momenti gli stava a cuore soprattutto il rispetto di una promessa fatta a uno dei suoi tre figli, Alvaro, colpito dalla sindrome di down: se vinciamo la coppa del mondo, gli aveva detto, ti prometto che la alzerai anche tu insieme ai giocatori.

Alvaro aveva 15 anni e mai aveva visto da vicino Iker Casillas, Sergio Ramos, Xavi. E così il mondo aveva conosciuto il dramma, ma anche il grande impegno civile di un uomo mai sopra le righe, capace di sopraffare un comprensibile pudore per inviare un messaggio di speranza a tutte le persone, a tutte le famiglie costrette a convivere con un male crudele che però non toglie spazio al sentimento e nemmeno alla gioia di vivere.

Vicente del Bosque, figlio di un ferroviere antifranchista che aveva passato qualche brutto momento durante il lunghissimo regime del Generalissimo, aveva comunque legato il suo nome alla storia del calcio spagnolo. E se è vero che l’allenatore della nazionale deve essere soprattutto un selezionatore, il marchese ci aveva messo del suo. Difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina, se del Bosque abbia ispirato Guardiola o viceversa; di certo la Spagna del marchese di Salamanca punta tutto sul possesso di palla come il Barcellona ma possiede anche, per così dire, un’anima madridista. Poi c’è l’idea piuttosto trasgressiva del vecchio saggio che sfocia nella teoria del «falso nueve», espediente che non manca di irritare la stampa spagnola sempre molto critica contro tutto quello che odora di difensivismo.

Quando Del Bosque ha inventato Fabregas centravanti, molti hanno storto la bocca invocando l’impiego di Fernando Torres, che il Chelsea di Roberto Di Matteo aveva restituito agli antichi fasti. O magari Negredo. Insomma un attaccante di ruolo perché la Spagna non può e non deve farsi guardare dietro. Il marchese è andato avanti dritto per la sua strada facendo quadrare i conti alla perfezione. E Torres, giocando solo scampoli di partite, è riuscito egualmente a vincere la classifica dei cannonieri, sia pure in condominio con altri. Per non dire del biscotto che ha tenuto banco per qualche giorno fino alla partita con la Croazia. Con il marchese indeciso tra l’indignazione e l’ironia. Oggi, a carte viste, sarebbe molto facile scegliere la seconda e immaginare che la Spagna sia stata onesta non solo per il rispetto dell’etica sportiva, ma anche per non perdere l’occasione di ritrovare la povera Italia in finale.

Ne ha fatta di strada il figlio del ferroviere. Nessuno nella storia del calcio ha vinto come lui: campione del mondo e d’Europa con la Nazionale, campione del mondo e d’Europa con il Real Madrid che pure nel 2003 gli diede il benservito. A lui che abita da una vita in un attico della Ciudad Deportiva a pochi passi dallo stadio intitolato a Santiago Bernabéu. Florentino Pérez non sopportava la normalità del marchese di fronte agli sfarzi dei galacticos, Zidane, Figo, Raul: con gente così, pensava a voce alta il presidente del Real Madrid, non basta vincere, bisogna dominare e dare spettacolo. Il giorno del licenziamento è forse quello che Del Bosque ricorda come una delle più grandi amarezze. Perez, in piena trance emotiva arrivò addirittura a contestargli una cravatta che secondo lui portava male. Peccato che uno stile di vita tradizionalmente moderato abbia impedito al marchese di Salamanca, anche se per solo una volta, di reagire con vigore sbattendogli la coppa sul naso. Magari quella di maiale.

Martedì 3 luglio 2012, 11:00 - Ultimo aggiornamento: 24-07-2012 11:02

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