HOOPS PORTRAITS - Dottrina Monroe


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di CHRISTIAN GIORDANO ©
© Black Jesus Magazine - © Rainbow Sports Books

Chi ha avuto la fortuna di vederlo in azione difficilmente potrà dimenticarne il fiuto cestistico, il bagaglio di movimenti (su tutti il suo iconico spin move, l'avvitamento su stesso),  la capacità di scovare, per quanto marcato e raddoppiato se non addirittura triplicato, un tiro, o un passaggio illuminante, e sempre preciso al millimetro. 

Ma a differenza di un Dr. J o di un Michael Jordan, abituati a volare, Earl "the Pearl" Monroe era immarcabile nonostante le ginocchia scricchiolanti, che quasi gli impedivano di staccare da terra. E spesso con i suoi trucchi da "Black Magic" ingannava così bene l'avversario diretto da riuscire a tirare senza nemmeno lasciare del tutto il parquet.  

Strano a dirsi, da ragazzino Earl, cresciuto in un sobborgo di Philadelphia, non aveva giocato molto a basket. Gli piaceva di più il calcio. La palla a spicchi aveva cominciato a prenderla in mano alla junior high (equiparabile alle nostre medie inferiori, nda) e migliorò tanto e così in fretta da far parte, nel suo quarto e ultimo anno di high school, del primo quintetto cittadino. 

Monroe però era stanco della scuola. E nonostante le borse di studio offertegli da Winston-Salem e da altri sette college, una volta diplomato trovò un posto come commesso in una ditta di spedizioni.

Un giorno però Earl «decise» di sentirsi pronto per il college e lasciato il lavoro per la consueta pausa pranzo, non vi fece più ritorno. Quello stesso pomeriggio, si mise in macchina e guidò verso sud in direzione North Carolina.

Sotto coach Clarence Gaines, ai Wolves di Winston Salem, Monroe divenne una straordinaria arma offensiva. Da senior (quarto anno), nel 1967, segnò una media di 41.5 punti per gara, infilando oltre il 60% dei suoi tiri dal campo.

Quell’anno la prima scelta del Draft NBA era dei Detroit Pistons che la spesero su Jimmy Walker di Providence. Con la seconda chiamata, i Baltimore Bullets (oggi Washington Wizards, nda) presero Monroe. E fecero tombola. 

Nella NBA "la Perla" assurse subito a superstar, fu a mani basse Rookie of the Year (1968) e chiuse a 24 punti di media, quarto marcatore di regular season.

L’anno seguente, a 25,8 punti a sera, si piazzò secondo e fu Primo quintetto della lega. 

Nel 1971 i Bullets vinsero il titolo della Eastern Conference e persero poi la Finale. Ma i piedi e soprattutto le doloranti ginocchia di Earl erano ormai un problema e così, a novembre, Baltimore lo spedì a New York in cambio di Dave Stallworth, Mike Riordan e contanti. Quello scambio fu l’ultimo tassello del roster campione NBA due anni più tardi.

Sottoposto a intervento chirurgico per rimuovere un callo osseo a un piede, Earl giocò poco nella sua prima stagione nella City. Ma una volta rientrato, nel 1972-73, diventò un elemento chiave per il secondo titolo NBA dei Knicks. 

In maglia bianco-blu-arancio, la sua media realizzativa sarebbe scesa a 15,5 punti per gara ma Monroe in coppia con Walt "Clyde" Frazier componeva un backcourt da sogno. 

All’inizio, di loro si diceva dovessero giocare con due palloni tanto ne erano innamorati, ma poi Earl riuscì ad adattarsi perfettamente al superbo gioco di squadra predicato da coach Red Holzman.

Le ginocchia martoriate dall’artrite non gli davano tregua, ma questo non impedì a "the original Black Jesus, un altro dei suoi leggendari soprannomi, di dispensare meraviglie fino ai trentacinque anni suonati.

Le sue giocate, affinate sulle strade dei playground philadelphiani, erano figlie dell’istinto ma erano esattamente la cosa giusta al momento giusto. Il bello è che, prima ancora che per vincere, Monroe in campo giocava soprattutto per la gente. E là Earl the Pearl era veramente spettacolo puro.


Christian Giordano
HOOPS PORTRAITS 
Ritratti di basket americano
Rainbow Sports Books, kindle - 9,90 euro

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