Domenico De Lillo, il ciclismo fatto persona
Atleta. Allenatore. Direttore Sportivo.
Domenico “Nico” De Lillo, un vincente. Nello sport e nella vita.
Dopo tre ore di chiacchierata per farsi raccontare la sua vita sportiva, capisci di aver avuto il privilegio di conoscere una di quelle rare persone a cui s’illuminano gli occhi nel trasmetterti i ricordi di una carriera passata sulla bici e per la bici.
Oggi, a 78 anni, Nico ti racconta la sua vita con la stessa passione che lo ha portato a primeggiare in tutte le vesti che lo hanno visto protagonista nel ciclismo su pista e su strada. Quando lo senti raccontare dei suoi risultati, la storia del suo sport, come questo sia cambiato negli anni, quando la sua storia sportiva si fonde nella storia dello sport e del Paese, non smetteresti mai di ascoltarlo. È una di quelle di volte in cui maledici il tempo e gli impegni che incombono perché, come una calamita, t’incolla alla sedia per quanto i suoi aneddoti siano pieni di fascino.
Classe ’37, Nico vince il suo primo titolo italiano nel mezzofondo come dilettante nel 1959. Titolo che bissa l’anno successivo e che si cuce sul petto anche nel 1961, suo ultimo anno tra i dilettanti.
Dal 1962 passa tra i professionisti. E non perde la confidenza con il podio. Secondo ai Campionati Italiani nei suoi primi tre anni nella nuova categoria.
Il 1967 è l’anno della sua prima medaglia internazionale. Il terzo posto ai Mondiali di Amsterdam, davanti a 50.000 persone che riempivano l'Olympisch Stadion, guidato dal fedele allenatore, il belga Meulemann, lo ripaga dei grandi sacrifici che una disciplina come il mezzofondo porta ad affrontare quotidianamente.
Il mezzofondo su pista è la gara conclusiva del programma nelle manifestazioni nazionali e internazionali. Può considerarsi alla stessa stregua della maratona per l’atletica leggera: la gara più lunga, massacrante ma più ricca di fascino. Girare lungo l’anello del velodromo per cento chilometri vuol dire mantenere altissima la concentrazione dove il livello di preparazione fisica deve andare di pari passo con quella mentale. In più si deve, gioco forza, avere un’elevata sintonia con il proprio allenatore che guida la moto e capire con lui quando si deve accelerare e quando invece risparmiarsi lungo tutta la durata della gara. Sempre stando attenti a mantenere la corretta distanza di sicurezza agevolata dall’obbligo, dopo che troppi incidenti avevano in passato troncato la carriera di molti sprovveduti atleti, di un rullo, attaccato dietro alla ruota posteriore.
«Ho avuto la fortuna di avere come allenatore il grande Meulemann fin dal 1965 e con lui sono riuscito ad arrivare terzo in altri due campionati del mondo. Nel 1969 ad Anversa e nel 1971 nel Mondiale di casa a Varese», racconta Nico con grande commozione.
«Meulemann era un grande allenatore. Nel 1972 ero a un bivio. Sapevo di essere ormai a fine carriera e l’idea di smettere l’avevo già in testa. Fu L’UCI, l’unione ciclistica internazionale, che mi aiutò nella scelta. Cambiò le regole. Decisero che dal 1973 atleta e allenatore dovevano essere della stessa nazionalità e per di più cambiarono le distanze da percorrere rendendo il mezzofondo meno faticoso. Fino al 1972 la batteria consisteva nel percorrere le curve del velodromo per un’ora consecutiva e chi faceva più chilometri passava il turno. In finale invece, bisognava fare cento chilometri nel minor tempo possibile partendo tutti insieme. Dal 1973 si passò a dovere percorrere 50 chilometri in batteria per poi girare per un’ora in finale».
Continua Nico: «Non mi sentivo più nel mio ambiente. Avrei dovuto cambiare allenatore e complice la mia non più giovane età decisi di appendere la bicicletta al chiodo».
Una scelta dolorosa ma presa con la consapevolezza di aver ottenuto dei grandissimi risultati, battendosi con i più grandi specialisti dell’epoca. Timoner, Kock, De Paepe, Proost, Marsell, Ouderk, Vershuren, tutti nomi che hanno fatto la storia di questa specialità dagli anni ’50 ai ’70 e che ricorderanno a lungo le battaglie in pista con De Lillo.
Da atleta ad allenatore
Come tutti quelli che amano il proprio sport, Anche Nico non riesce a starne lontano. Nel 1976 inizia la sua nuova avventura sia alla guida dei dilettanti che dei professionisti.
I successi arrivano subito.
«Tutti gli anni passati insieme a Meulemann mi hanno insegnato anche come essere un buon allenatore. Da lui ho imparato i trucchetti del mestiere, come fare un risvolto del maglione mettendolo sopra la giacca, in modo da creare un’ ala sotto l’ala. Il vento addosso per il ciclista è un grande problema, più gliene arriva meno è veloce. Fa quindi più fatica a stare in sella. Guidare a gambe larghe crea allo stesso modo più superficie che permette all’atleta di sentire meno vento e quindi avere meno problemi».
Nel 1977 arriva terzo ai Mondiali guidando il professionista Pietro Algeri al gradino più basso del podio.
Vince nel 1983, sempre tra i professionisti, con Bruno Vicino, con cui arriva ultimo l’anno successivo a Barcellona, ma che riporta in cima al mondo sia nel 1985, dove vince anche tra i dilettanti allenando Roberto Dotti, sia nel 1986. È talmente forte, rispettato e temuto, che nel 1985 gli arriva la più classica delle proposte indecenti.
Uno dei più grandi sponsor della Nazionale svizzera gli bussa alla porta di casa e, complice il fatto che Nico è sposato dal 1965 con la bellissima moglie Rosalba, cittadina svizzera, gli chiede di correre con la casacca elvetica.
«Potevo accettare, ai tempi sarei potuto diventare svizzero sin dal 1970 grazie al mio matrimonio, ma rifiutai. Anche se vivo in Svizzera sono italiano al 100%. Ricordo che arrivarono con una Rolls Royce bianco mi aprirono sotto il naso una valigia con dentro centomila franchi. Fui tentato ma declinai l’offerta. Non potevo tradire le mie origini. Forse avrei accettato se la legge Andreotti del 1994, che permette di mantenere la cittadinanza italiana ai residenti all’estero che richiedono anche i passaporto di dove risiedono, fosse stata in vigore nel 1985».
Da allenatore a direttore sportivo
«In realtà seguivo delle squadre dilettantistiche già mentre facevo l’allenatore nel mezzofondo. Incominciai con la Comense, ma la mia carriera da direttore sportivo cambiò radicalmente quando nel 1979 passai alla Nuova Baggio San Siro dove stava incominciando a fare vedere le sua straordinarie doti di corridore un certo Moreno Argentin, con cui instaurai un grande rapporto a livello sportivo, ma ancor più forte a livello umano».
Dopo anni di corteggiamento da parte di Moreno, si fa convincere a seguirlo tra i professionisti. Dal 1986 al 1989 fu direttore sportivo della Gewiss-Bianchi.
«Eravamo uno squadrone. A partire da Felice Gimondiche ne era l’amministratore delegato, fino ai corridori. Con Moreno c’erano, tra gli altri, Paolo Rosola, Emanuele Bombini e Davide Cassani, l’attuale commissario tecnico della Nazionale. Per non parlare del meccanico, il grande Masi, tutt’oggi una leggenda nel nostro mondo. Chiunque abbia un problema chiama Alberto».
L’anno dopo la vittoria del campionato del mondo su strada di Argentin nel 1986, disputa una delle più esaltanti stagioni che si possano ricordare. Vincono come squadra ben ventisette corse, tra le quali sei tappe del Giro d’Italia e tre tappe della Vuelta.
Anche da direttore sportivo, il nostro Nico si toglie grandi soddisfazioni, fatte di vittorie, ricordi, amicizie e rapporti con tutte le persone con le quali ha negli anni collaborato.
«La cosa veramente che più mi sta a cuore, alla soglia degli ottant’anni, è l’amicizia che mi lega con la maggior parte delle persone che il ciclismo su pista e su strada mi ha fatto conoscere».
L’Ambrogino d’oro
Milanese del quartiere Isola, Domenico De Lillo cresce in Via Garigliano 3, nello stesso palazzo che diede i natali a Luciano Beretta, compianto paroliere tra gli altri di Celentano, Ornella Vanoni, Nilla Pizzi e Mina. La stessa Mina che il 7 dicembre 2015 ritira l’Ambrogino d’oro insieme a Nico.
«Io abitavo al quarto piano e Luciano al primo. Eravamo grandi amici e sicuramente avrò l’occasione di ricordarlo con Mina», ricorda De Lillo. «Il quartiere all’epoca era una zona di banditi, quando cercavano un ladro venivano nel nostro rione. Ma insieme a Luciano abbiamo passati dei gran bei momenti, lui fin da piccolo faceva dei teatrini, aveva già la vena artistica».
Ora se andate in Via Garigliano 3 potete vedere la targa affissa in memoria di Luciano Beretta.
«Spero che quando sarà il mio turno possano pensare di farne una anche per me», aggiunge l’atleta.
«Anche se sono andato via presto, ho un grande feeling con Milano. Ricordo che mio padre mi portava fin da piccolissimo a vedere le gare di ciclismo al Vigorelli e io ho sempre sognato di poter, un giorno, emulare le gesta degli atleti che vedevo percorrere con tanta agilità chilometri e chilometri lungo il velodromo di Milano. L’Ambrogino d’oro è un premio che mi ripaga del lavoro fatto per il ciclismo. Da atleta mi ha dato tanto. Allo stesso modo credo di avergli restituito come allenatore, direttore sportivo e dirigente, tramite l’insegnamento e la passione trasmessa ai miei allievi e ragazzi, quello che avevo ricevuto da corridore».
Non si può non pensare alla carriera di Domenico De Lillo come una lunga avventura che ha cambiato, arricchito e migliorato il mondo del ciclismo e dello sport.
La passione con cui Nico si è dedicato al ciclismo è più unica che rara. Come la sua straordinaria lucidità nel dire che forse, a quasi ottant’anni, è il caso di lasciare il posto ai più giovani.
Perché in tutto questo, Nico, fa ancora parte della commissione tecnica professionisti della Federazione Italiana Ciclistica. Instancabile.
Edoardo Verzotti
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