FOOTBALL PORTRAITS - Mandžukić, la bestia col cuore (2015)
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di Christian Giordano ©
Guerin Sportivo © (settembre 2015)
Djilkos, il killer. Il soprannome (pronuncia: “gil-kosh”) gliel’ha affibbiato Miroslav “Ćiro” Blažević, leggendario Ct della Croazia terza da matricola al mondiale di Francia 98. L’espressione originale ungherese non lascia spazio a fraintendimenti, ma nello slang croato sta per sfrontato, presuntuoso e, più in generale, poco raffinato.
Blazevic lo intendeva nel senso di sfacciato, intrigante: era più un complimento. A Mario Mandžukić non è mai importato granché. A un certo punto però s’è stufato, e in un’intervista rilasciata nel 2011 al quotidiano nazionale Sportske Novosti, dichiarò che l’espressione era irrispettosa e chiese ai media di non essere più etichettato così. Meglio “Mandžo”, allora. Non ingannino l’atteggiamento e il tattoo-look da guerriero: poker d’assi, stelle, una coppia di dadi, un fiore, una grossa croce sulla spalla sinistra, un pallone, e un ideogramma cinese per “Forza, fortuna, famiglia e fede”; sul polpaccio il segno dei Gemelli e in croato una preghiera all’Angelo Custode; ad altezza reni, scritto al contrario (da sinistra a destra) e grammaticalmente scorretto un poco nietzscheiano «il che non mi uccide, mi fortifica». In un fisico bestiale, batte infatti un cuore tenero. Un leone in campo (vedi derby di Champions con Ramos e un Carvajal mordi e fuggi à la Chiellini) che fuori si squaglia per la sorella Ivana e il nipotino Marino Maslov, la fidanzata Ivana Mikulic. Il tempo libero è con loro, e per il tennis, il cane Lenni, il ristorante Taverna Riva, i viaggi (Grand Canyon il top).
IL VERO SUPER MARIO
Il vecchio santone Ćiro però sapeva cosa diceva. Sarà pure offensivo, ma l’appellativo descrive appieno stile e personalità, in campo e fuori, che Blažević osservò lavorandoci insieme nell’NK Zagabria nel 2006. E di sicuro il “poco sofisticato”, riferito a tecnica e tattica, ci sta: Super Mario (nick che al Bayern è di casa: da Basler fino a Gomez e Götze) ha piedi e letture grezze, ma la mette: 48 volte in 88 uscite col Bayern. E in più ha doti che non s’imparano, casomai – come nel suo caso – si trasmettono: dà tutto per maglia e compagni, che lui fa rendere al massimo. Non tocca molto la palla, raramente salta l’avversario e a volte scompare per interi spezzoni di partita. Poi, all’improvviso, magari te la risolve.
Il punto è come. Mandžukić non è Tévez. Come non poteva essere, e non è stato, il clone di Diego Costa. Ad ammetterlo, durante Al Primer Toque di radio Onda Cero, è lo stesso Simeone, che nelle ultime due stagioni li ha allenati uno dopo l’altro: «Mario dev’essere rifornito in continuazione, Diego a volte è autosufficiente – le parole del Cholo – Però i suoi 20 gol nell’Atlético valgono più dei 28 che aveva segnato l’anno prima nel Bayern».
ANIMALE D’AREA
Allora perché, di là degli ostacoli di mercato, la Juve ha preferito lui ad altri big più agili, giovani, tecnici e/o prolifici? Per l’impatto in area e in aria. Stando ai dati Opta, dei 65 gol in 138 gare fra Bundesliga (53 in 110) e Liga (12 in 28), ben 28 (24+4) li ha realizzati di testa; e l’unico da oltre i sedici metri risale ai tempi del Wolfsburg, 4 anni fa. Tesi rafforzata se nel computo si considera la Champions: 11/11 in area, di cui 7 su inzuccata.
NON È TÉVEZ
Si spiegano anche così le strategie di Marotta-Paratici-Allegri: Tévez era insostituibile, per versatilità e capacità di sdoppiarsi se non triplicarsi come prima e seconda punta, se non addirittura falso diez; risolto con la cessione il falso storico che vorrebbe Fernando Llorente più forte nel gioco aereo che palla a terra, restano da costruire le larghe intese con i neoacquisti Álvaro Morata e Paulo Dybala.
“El Moro”, novello Fernando Morientes, da un anno a Torino ha dimostrato di saper svariare anche da attaccante esterno. L’argentino, in un Palermo che giocava per lui, agiva da unica punta davanti al fantasista Franco Vázquez; e ora deve confermarsi in una grande. Ergo: Mandžukić risolve svariati problemi. Ma certo non è uno da tener fuori, zitto e buono, alla Llorente.
Perché Juve lo aveva nel mirino già da due stagioni (Ivan Cvjetkovic, agente del giocatore ed ex nazionale croato, era allo Stadium il 5 novembre 2013 per Juve-Real Madrid di Champions). Poi perché 18 milioni per un panchinaro (a 3,5 netti l’anno fino al 2019) sono tantini. Un anno fa, l’Atlético ne aveva spesi 22 per affiancarlo ad Antoine Griezmann e vincolarlo fino al 2018. Dodici mesi dopo, capito che non faceva per loro, i Rojiblancos hanno invertito un trend di plusvalenze durato quasi due lustri con le cessioni di Fernando Torres, Diego Forlán, Sergio Agüero, Radamel Falcao e Diego Costa.
FISICO BESTIALE
C’è infine un altro aspetto, spesso sottovalutato. La forza di Mandžukić non si misura solo coi numeri. Tanti attaccanti sono più goleador, ma pochi lo eguagliano per resistenza e spirito di sacrificio. Non ha l’intelligenza posizionale di Robert Lewandowski (per cui Guardiola lo ha scaricato) e, nonostante la debordante fisicità, non sa crearsi occasioni da solo come Diego Costa; ha però ferocia agonistica, lavora tanto per la squadra, sa tenere palla, allargare le difese e chiamare fuori il centrale avversario andando a pressare altissimo e con continuità. «Potrebbe correre per due partite di seguito senza fermarsi un minuto – ha detto di lui Felix Magath, fanatico della preparazione fisica che al Wolfsburg lo ha allenato tre mesi – ma nessun tecnico può domarlo».
Guardiola ci ha provato, perlomeno a plasmarlo tatticamente. Contro il Chelsea nella Supercoppa Europea 2013, primo rendez-vous da bavarese di fronte al “nemico” storico José Mourinho, Pep lo mise largo a sinistra. Ahia. Il rapporto, mai nato, morì lì. «Siamo onesti – dichiarerà l’anno dopo al solito Sportske Novosti – non ho grandi affinità con il gioco che Guardiola ha impostato al Bayern. Già dalla prima partita, contro il Real Madrid, avevo capito che il suo modo di giocare non era adatto a me. E quindi, se non ti senti a tuo agio, è meglio per tutti separarsi. Ringrazio la società per avermi offerto un prolungamento di contratto, e Guardiola resta un grande allenatore. Auguro loro il meglio, ma è tempo di nuove sfide».
NUOVE SFIDE
Le ha cercate per tutta la carriera, iniziata a 6 anni al Ditzingen, nel sud-ovest della Germania. Per la guerra la famiglia aveva lasciato Odzak, in Bosnia, e lì, vicino a Stoccarda, tira i primi calci nella squadretta dilettantistica in cui gioca papà Mato, che si allena con Fredi Bobic e Sean Dundee, entrambi futuri professionisti.
Quattro anni dopo, a guerra finita, Mato e la moglie Jelica riportano i figli a casa. Il maschietto entra nel Marsonia di Slavonski Brod, la cittadina della Slavonia, Croazia orientale, dove è nato il 21 maggio 1986. Ci resta fino al 2003, poi, dopo un anno in un’altra squadretta locale, lo Željezničar (omonimo del più famoso club bosniaco di Sarajevo), viene aggregato alla prima squadra. I 14 gol in 23 gare al debutto in Seconda divisione gli valgono la chiamata in prima da parte dell’NK Zagabria (Nogometni Klub sta per associazione calcio, ndr) con cui ne segnerà altrettanti in 50 presenze spalmate in due stagioni sotto il magistero di Blažević. Il guru che gli regala il futuro volendo stabilmente là davanti quei 186 cm per 76 kg con gomiti larghi in perenne estensione.
Il secondo anno in massima serie fatica, ma le 11 reti e 1,3 milioni di euro ai Pjesnici (poeti) gli portano la chiamata della Dinamo Zagabria per rimpiazzare il partente Eduardo da Silva. All’inizio lui nicchia salvo poi, nel luglio 2007, andarci in coppia con Ivica Vrdoljak, difensore classe ’83 dal 2010 al Legia Varsavia.
Tre mesi dopo, il 17 novembre, debutta con la Croazia, battuta 2-0 in Macedonia nelle qualificazioni europee. Il primo dei suoi 19 gol arriva alla seconda delle sue 60 caps a scacchi biancorossi, 1-4 per l’Inghilterra al Maksimir di Zagabria il 10 settembre 2008 nelle eliminatorie mondiali. Poi, 15 gare di digiuno.
CROATIAN SENSATION
Prima ancora che la nazionale, a metterlo sulla mappa europea, il 4 ottobre 2007 ad Amsterdam, è la doppietta, dopo il rigore procurato e lasciato a Luka Modrić, segnata in 2’ (94’ e 96’) ai supplementari nel 3-2 sull’Ajax, ritorno del primo turno di Coppa UEFA. Prestazione-monstre premiata dai «10» in pagella dei quotidiani croati.
In campionato, i capitani lo votano Miglior giocatore. Nel 2008-09 è capocannoniere (16 gol) e il premio di MVP glielo assegna Sportske Novosti. L’anno successivo, dopo 65 gol in 141 gare, tre titoli e 2 coppe nazionali in tre stagioni, per 7 milioni lascia la Dinamo per tornare in Germania. Destinazione: Wolfsburg. Il club per la prima volta campione nel 2012, con ancora il big money della Volkswagen ma senza più Magath, killer della Juve ad Amburgo ’83, andato allo Schalke04 appena alzato il Meisterschale coi Lupi.
ATTENTI AI LUPI
In panca in Bassa Sassonia trova quindi Steve McClaren, l’ex Ct dell’Inghilterra diventato per il Daily Mail «A Wally with a brolly» (Uno scemo con l’ombrello) per lo storico 2-3 con la Croazia a Wembley, sotto il diluvio, costato all’Inghilterra il pass per Euro2008. Mandžukić sotto di lui parte spesso dalla panchina, o largo a sinistra perché unica punta gioca Edin Džeko. Errore in cui cadrà anche Guardiola al Bayern. Il bosniaco però a gennaio 2011 va al Manchester City, e le cose cambiano. A febbraio a McClaren subentra ad interim Pierre Littbarski. A marzo, alla 26ª, nella vittoria 1-2 a Norimberga) Mandžukić segna la sua prima rete in Bundes e la settimana dopo torna il dittatore Magath che, con gli 8 gol del croato (6 nelle ultime 5, una la salta per squalifica), il Wolfsburg lo salva.
DAS TRIPLE
In Baviera lo aspetta Jupp Heynckes, l’unico capace, se non di domarlo, di incanalarne al meglio l’intrinseca aggressività. Forse perché egli stesso un ex leone d’area, “Osram” – per le guance incandescenti – è il primo a sfruttarne appieno lo strapotere fisico-atletico. Non a caso, con lui unica punta nel 4-2-3-1 arriva subito das Triple: campionato, coppa di Germania e Champions League, decisa anche dal suo gol iniziale nel derby tedesco col Borussia Dortmund di Robert Lewandowski, suo successore che in Baviera arriverà a parametro zero nell’estate 2014. Mandžukić c’era arrivato per 13 milioni due anni prima, da co-capocannoniere di Euro2012: 3 gol come CR7, Alan Dzagoev, Fernando Torres e gli altri due Super Mario: Gomez, suo prossimo compagno, e Balotelli. Avversario che adora, Buffon: gli segna sempre. Suoi gli 1-1 di Poznań 2012 e di Spalato lo scorso 12 giugno, ritorno delle qualificazioni continentali, quando Gigi gli impedì la doppietta parandogli il rigore.
In quel Bayern, davanti ai mediani Javi Martínez e Bastian Schweinsteiger gioca una trequarti con Arjen Robben, Thomas Müller e Franck Ribéry. Difficile migliorare uno squadrone che nel 2012-13 vince tutto. A Säbener Straße ci provano con Guardiola. Con Mario, sarà antipatia a prima vista. Pep gli rimprovera l’indisciplina nei movimenti e l’anarchia tattica; e certo il pallino del filosofo ex blaugrana per il falso nueve non aiuta un centravanti che non sia lo spazio ma uno alto e grosso, e pure carismatico: Ibra docet. «Con Heynckes la vita era due volte meglio – s’è sfogato Mario su Sportske Novosti – Guardiola mi ha deluso, non mi ha trattato con rispetto. Non voglio persone così nella mia vita: un caffè con lui non lo prendo; se attorno a qualcuno avverto energia negativa, lo evito. Per il Bayern ho dato tutto e quando Guardiola è arrivato ho cercato di adattarmi, ma per far sì che le cose funzionino bisogna essere in due».
Occhio, Allegri: il djilkos ha buona mira. E ottima memoria.
Christian Giordano ©
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