Nasce il Giro 2019
Il via da Bologna
Arena di Verona teatro magico della crono finale
Presente re Froome, si svela l’edizione 2019 della corsa Gazzetta. Dopo9anni, l’arrivo nello scenario che esaltò Battaglin, Moser e Basso
di CLAUDIO GHISALBERTI
La Gazzetta dello Sport, 31 ottobre 2018
La lirica e il Festivalbar, Giochi senza frontiere e il circo. Poi, se si fa qualche passo più indietro e si arriva all’Ottocento: la tombola, l’albero della cuccagna, la caccia ai tori, lo ascensioni degli aerostati, le gare di ginnastica. E le corse: dei cavalli e con i velocipedi. L’Arena di Verona è anche questo. E dentro questo straordinario anfiteatro romano domenica 2 giugno verrà assegnata la maglia rosa al vincitore del Giro d’Italia 102 che scopriremo oggi a Milano con un ospite d’eccezione, Chris Froome, in trionfo nell’ultima edizione.
FIL ROUGE
Si parte sabato 11 maggio con una cronoscalata a Bologna che si conclude sul San Luca, e si arriva nella città scaligera con un’altra cronometro. Ma il ticchettio delle lancette nelle sfide contro il tempo è anche il fil rouge che unisce Verona al Giro. La prima volta che la corsa rosa si conclude qui è nel 1981. Via da Soave e traguardo dopo 42 chilometri. Vince il norvegese Knudsen, ma il successo finale è di Giovanni Battaglin, che quel giorno chiude al 3° posto. «C’era tantissima gente lungo la strada e l’ammiraglia non si poteva avvicinare più di tanto, così non sentivo il megafono e non capivo come stavo andando. Non sapevo se stavo vincendo o no. L’ho capito solo quando ho sentito l’urlo della gente dentro l’Arena. Memorabile».
L’ULTIMA VOLTA
L’ultima volta che il Giro è entrato qui è stato nel 2010. La tappa va a Gustav Larsson, ma la maglia rosa finisce sulle spalle di Ivan Basso. Alla sua sinistra, sul terzo gradino del podio, c’è un giovane destinato a scrivere la storia: si chiama Vincenzo Nibali. Seduto di schiena, sulla scaletta che porta sul podio, c’è Cadel Evans in maglia iridata e assorto nei suoi pensieri in attesa della consegna della maglia a punti. «Il mio primo ricordo del Giro visto dal vivo è il successo di Moser 1984 — dice Basso —. La seconda volta che sono entrato all’Arena è stato nel 2010. Già per questo, quel posto per me è magico. Poi quella è stata una vittoria speciale perché per me, dopo la bufera in cui ero passato, rappresentava la chiusura del cerchio. Anche come autostima quel giorno è stato fondamentale».
LA CRONO PERFETTA
Verona e l’Arena sono però soprattutto legati a Francesco Moser. Giro d’Italia 1984, 67a edizione. Si arriva alla sfida decisiva con il francese Laurent Fignon in maglia rosa e "Moserone" che lo insegue a 1’21”. Il trentino, che dopo pochi giorni avrebbe compiuto 33 anni, a gennaio in Messico era diventato il padrone del Record dell’Ora e quel Giro rappresentava per lui una specie di ultima chance. «Avevo vinto la Sanremo, ma poi avevo saltato le altre classiche racconta oggi Moser ed ero andato alla Vuelta proprio per prepararmi a dovere». Il momento della verità è il 10 giugno. «Non sapevo se usare o no le lenticolari, ma visto che faceva caldissimo e non c’era vento decisi di rischiare». Niente, se quel giorno Moser non fosse perfetto. Disteso sulla bici, busto e spalle fermissime, si muovono solo le gambe e sono un potente vortice. Stilisticamente impeccabile ma anche tremendamente efficace. Moser vola in un’impresa che sfida i limiti umani. Sulle strade ci sono mezzo milione di persone che impazziscono. Venticinque secondi di vantaggio su Fignon dopo 10 km, 56 a metà gara. L’Arena è straripante, Moser entra in un boato. L’apoteosi. Candido Cannavò, direttore della Gazzetta, paragona quell’emozione a quella della vittoria olimpica di Berruti nel 200 metri. «Mi ricordo lo speaker che faceva il conto alla rovescia. Che soddisfazione». Fignon taglia il traguardo con un ritardo di 2’24”. Il tempo di prendere fiato e s’infuria. Accusa gli elicotteri di avere favorito l’italiano. «Stupidate dai francesi», commenta Moser, che poi va ancora all’attacco: «Ho sentito che la crono stavolta sarà di soli 15 chilometri. Perché? Così corta era meglio non farla neanche».
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