DAVIDE MORETTI: NEL NOME DEL PADRE
L'America della palla a spicchi ha perso la testa per un giovane italiano.
di MATTEO FONTANA
Rivista Contrasti, 3 aprile 2019
Il talento è naturale o ci sono dei fattori ereditari a determinarlo? La domanda è un classico tormentone dei club del mercoledì sera per appassionati del genere. C’è chi sostiene che il Dono sia trascendente, ossia derivante da una congiuntura mistica che ha illuminato il Predestinato. L’altro “partito”, invece, afferma che certe qualità siano immanenti, qualcosa che viene trasmesso come i capelli biondi, gli occhi scuri, i piedi a pianta larga o la fronte spaziosa. Nel dibattito, le vicende del fine settimana hanno fatto segnare un punto a favore dei sostenitori della seconda teoria. Davide Moretti, con una prova-monstre, ha spinto la squadra di basket della sua università, Texas Tech, alle finali del campionato NCAA, il torneo più seguito dagli americani. Se la mela non cade lontana dall’albero, il suo caso risulta paradigmatico.
A proposito di predestinazione: era questa una delle parole che ricorrevano con maggior frequenza, nel 1988, quando un ragazzo poco più che maggiorenne venne ingaggiato per una valanga di quattrini da Verona, allora bagnata dai soldi della Glaxo, multinazionale del farmaco con la sede italiana in città, al tempo in A2 e colma di ambizioni. Paolo Moretti, questo il nome del golden boy, aretino che era comparso sulle scene, da esordiente, con la Mens Sana Siena, firmò un contratto che gli fece conquistare le copertine delle riviste specializzate dell’epoca. Moretti era un’ala piccola di adamantina bellezza nelle giocate, una miscela di fantasia italiana con un tocco di fine fisicità che lo rendeva, nell’impatto sul parquet, avvicinabile ai nuovi fenomeni che stavano emergendo dalla scuola jugoslava. Un Toni Kukoc, un Velimir Perasovic: questa era la dimensione tecnica del teenager Moretti.
Nella sua prima Verona fu svezzato dal duro comando di Dado Lombardi, pure lui toscano, ma di scoglio, essendo nato a Livorno, e non di terra ferma, come Paolo, cui fece da severo padre putativo. Dopo, per due anni, la sua classe venne disegnata e indirizzata da Alberto Bucci, che da Moretti seppe distillare un elisir inebriante. Verona vinse la Coppa Italia, fu promossa, poi Bucci se ne andò, sostituito da Mario Blasone, il Professore. L’alchimia non fu più la stessa e Paolo, per la prima volta in A1, non riuscì a salvare la squadra dalla retrocessione. La Glaxo tagliò gli investimenti e la riduzione del budget riservato al club condusse alla cessione di Moretti alla Virtus Bologna: lo attendevano la gloria, e presto avrebbe anche ritrovato Bucci, il mentore con cui conquistò due dei tre scudetti centrati con le V nere (al primo tentativo era arrivato quello firmato da Ettore Messina). Salì sempre più in alto, Paolo, ma ad aspettarlo c’era la vendetta degli dei: si ruppe il tendine d’Achille, è il 1995 e la sua carriera fu spezzata in due. Si rialzò, ma cinque anni dopo, quando gioca a Roseto, un altro nemico lo aggredisce con ferocia. Ha un nome terribile. Si chiama leucemia:
“Più di 40 giorni al Policlinico di Milano dal professor Lambertenghi, vedendo due miei compagni di camera che se ne andavano. Lì ho chiuso il mio primo libro di sportivo. Avrei potuto riprendere a giocare, ma ogni dolorino che sentivo pensavo al peggio. Paura? Sì. Per quello non ripresi. E se uno sportivo perde il coraggio…”.
- Paolo Moretti a Werther Pedrazzi, per il Corriere della Sera, 2016.
- Paolo Moretti a Werther Pedrazzi, per il Corriere della Sera, 2016.
A Bologna per tutto il popolo della Virtus era Paolo il Caldo. Con la forza di resistere e combattere aveva sconfitto il male. Moretti ha iniziato a fare il coach, ottenendo pregevolissimi risultati. L’energia per non mollare gliel’ha data la famiglia. La moglie, Mariolina, e il primo figlio che, nel 2000, aveva due anni: Davide. Sì, proprio il go-to-guy che oggi fa impazzire Texas Tech. Il basket è un affare privato per i Moretti. Anche il secondo bimbo nato dall’amore di Paolo e Mariolina gioca a pallacanestro: è Niccolò, nato nel 2004. Magari presto si parlerà di lui quanto di suo fratello: intanto ha già vinto lo scudetto Under 14 con San Lazzaro. Davide, invece, nel prossimo weekend rincorrerà il titolo NCAA nelle finali che si disputeranno a Minneapolis. Giusto per dire della dimensione dell’evento: le partite saranno giocate all’US Bank Stadium, di solito teatro di sfide di football americano, un’arena capace di contenere 70mila spettatori. L’epilogo della March Madness sarà qui, con Texas Tech che sfiderà Michigan State, gli Spartans che hanno a sorpresa eliminato i favoritissimi Blue Devils di Duke. Nell’altra semifinale, Virginia duellerà con Auburn.
Mai un italiano era arrivato a un traguardo di questo rilievo. E, soprattutto, mai l’aveva fatto alla maniera di Davide Moretti. Sabato, nella finale della West Conference, i suoi 12 punti hanno fatto pendere la bilancia della gara con Gonzaga dalla parte di Texas Tech, i Red Raiders. Ne ha piazzati otto negli ultimi minuti, con due triple che hanno spaccato un incontro in pieno equilibrio, aggiungendo alla lista delle prelibatezze i tiri liberi che hanno condotto la sua squadra a mettere in ghiaccio la vittoria: 75-69, e l’America ha perso la testa per l’italiano. Che, a dire la verità, non è per niente nuovo a certe imprese. Già ci aveva fatto l’abitudine, sia nelle giovanili, lui che si è formato a Pistoia, che tra i professionisti: sempre Pistoia, e dopo Treviso, e poi la scelta di andare a Raiderland, l’università pubblica di Lubbock. Texas Tech, appunto.
Il posto in cui Davide Moretti sta facendo la storia è lì, in una piccola città la cui squadra ha raggiunto la Final Four per la prima volta. Chris Beard, il coach, ha dato in mano le chiavi dei Red Raiders a lui, “Davidino”, playmaker che ha inanellato record in sequenza, pilotando Texas Tech a infilare una serie di nove vittorie di fila, a imporsi nella regular season della Big 12, la più ruvida delle Conference, e dopo a scalare il bracket fino ad arrivare a Minneapolis. Moretti che è stato il miglior tiratore di liberi dell’annata, con il 93.2% di positività, che ha tenuto una media di precisione dal campo superiore al 50%, che da tre ha viaggiato regolarmente sopra il 40%.
Lassù a Minneapolis cercano un principe. Può esserlo lui. Nel nome del padre.
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