SESSANT’ANNI DI PALLA CON ESTRO E DEVOZIONE



di Simone Basso, 3 ottobre 2019

Oggi celebriamo la devozione, facendo le distinzioni del caso: vorremmo spiegare l’Eurolega ai bambini, ma il solo pensiero di occuparci dei federali (...), di politica sportiva, ci manda ai pazzi. Allora, la risolviamo con un giochino: la pretesa di scegliere uno starting five per decennio è tale, avendo ambizioni solo di stimolare il ricordo (e il confronto) storico, recidendo – per il senso del ridicolo – qualsiasi comparazione col basket pre-Ignis Varese. 

Non come nel foot, dove i fessi si sono convinti che l’attuale Champions League sia la Coppa dei Campioni che fu, come se gli altri tornei continentali non fossero (mai) esistiti, ma la tendenza – wikipedistica, ovvero priva di ermeneutica sull’argomento – si è diffusa pure tra gli appassionati della palla con estro.


Drazen Petrovic sale al tiro contro Georgi Glouchkov (e Vincenzo Esposito) 
nella leggendaria finale di Coppa delle Coppe 1989

L’Eurolega è l’approdo logico, recente, di una storia complessa. 

Quella ateniese dell’89, tra Real Madrid e Snaidero Caserta: quarantacinque minuti straordinari, di premonizioni, che spiegano (e anticipano) tanto.

Al di là dei 62 punti di Drazen Petrovic, della cazzimma di quella Juventus e delle controversie (non solo arbitrali).

L’eurobasket di club è cresciuto a tentoni, senza un’identità riconoscibile, coi finitimi aldogiordaniani a mo’ di realtà parallela (ed evidente), gli americani di scarto ma non troppo e i professionisti orientali di Stato: le stagioni del primo strappo, tra sigle e potentati (il 2001 diviso tra ULEB e Suproleague), gli anni Zero, rappresentarono anche l’apice evolutivo – almeno fino a oggi – della pallacanestro continentale rispetto alla concorrenza (egemonica e sleale...) dell’universo a stelle e strisce.


Arvydas Sabonis, il più grande giocatore europeo di sempre, marcato da Dino Meneghin, il più vincente di tutti nei vent’anni d’oro della Spaghetti League

Che, un modus operandi molto americano, avrebbe introiettato nel suo bordone quelle idee tattiche e tecniche, con l’arrivo di una nuova generazione di atleti.

Citeremmo più il Tau Ceramica di coach Dusko Ivanovic, coi vari Oberto, Bennett, Stombergas, Alexander, Scola, che la Virtus Bologna grandi firme (Manu Ginobili, Antoine Rigaudeau, Rashard Griffith...) di Ettore Messina. Lo Zalgiris Kaunas del biennio d’oro e la Benetton Treviso di certe stagioni con Mike D’Antoni (e Nicola, Edney, Garbajosa eccetera), prima del Pana dinastico di Zeljko Obradovic, che collega Bodiroga a Papaloukas e Diamantidis, e soprattutto del Maccabi della banda dei quattro (Jasikievicius, Parker, Vujcic e Baston) che spiegò la Princeton Offense e le spaziature post-moderne coi pick and roll.


Oggi e ieri, si sta come d’autunno le foglie ed è subito NBA

E’ il motivo del nostro imbarazzo nell’assortire il quintetto dell’ultimo decennio. Poiché i Luka Doncic di oggi, o i Pau Gasol di ieri (immaginatevi quanti titoli avrebbe il Barça coi fratelloni...), passano velocemente al piano superiore.

Ma il fattore più destabilizzante è (stato) un altro: il vuoto cosmico, non colmato dall’ACB (da anni, la migliore lega nazionale europea), di ciò che fu la Serie A1 italiana. 

La Spaghetti League, per vent’anni, funse da elemento ponte tra le due rive dell’Atlantico.
 

Hidayet Turkoglu e Dejan Bodiroga, uno contro uno

La morte apparente (...) del campionato continentale più importante ha sbilanciato l’asse verso Est.

In uno scenario, che ha saputo sostituire solo parzialmente quelle istanze (progressive, porelliane), anzi arenatosi nel contesto delle polisportive, una dimensione finanziaria (creativa) rischiosa. 

Come la Futbalina, il flipper divino per stare con Mister Pressing, ma senza lo strapotere mediatico e di ricatto (sociale e politico) di quella roba. 

Come se la Mens Sana di patron Ferdinando Minucci – carnefice e vittima di un sistema sfatto – fosse il modello, non l’eccezione (drogata). 

Eppur si muove, l’Eurolega, proponendo ancora un basket biodiverso, meno cyber del gioco dei mutanti NBA.

Ribadiamo l’abiura agli anni Sessanta perché nessuno, tranne i testimoni oculari dell’epoca, e forse nemmeno loro (!), riuscì a vedere sul serio la pallacanestro.


Il Maccabi Tel Aviv di Pini Gershon e David Blatt: 
la squadra più forte del nuovo secolo?

Primula rossa televisiva, in netto contrasto col boom catodico degli anni Ottanta: quando da noi, il Paese di Bengodi della Varese dominante, di Cantucky, dell’Olimpia Milano da bere (e delle telecronache di Aldo Giordani, Dan Peterson e Koper Tv), si vedevano – sulle reti generaliste – più palloni a spicchi, colore arancio, che calcio e ciclismo...

Non che ce ne fotta dell’amarcord e dei pantaloncini corti (che portavamo): preferiremmo che, per immaginarsi il futuro, Jordi Bertomeu si inventasse qualcosa di completamente diverso (...). La morte delle Final Four e una bella serie – tre su cinque – al suo posto, per esempio. 

1970: KRESIMIR COSIC (Dino Meneghin), Bob Morse, Walter Szczerbiak, Mirza Delibasic, Dragan Kićanović

1980: ARVYDAS SABONIS, Bob McAdoo, Anatoly Mishkin, Drazen Petrović, Mike D’Antoni

1990: ARVYDAS SABONIS, Dino Radja (Roy Tarpley), Toni Kukoć, Anthony Bowie, Sasha Djordjevic (David Rivers)

2000: Thiago Splitter, Luis Scola, DEJAN BODIROGA, Anthony Parker (Manu Ginobili), Sarunas Jasikevicius (Theodoros Papaloukas)

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