PERCHÉ JOHAN CRUYFF È STATO IL "PADRE" DEL CALCIO MODERNO


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AGGIORNATO 24/03/2020 ALLE 11:13 GMT+1

Mi rivolgo ai lettori più giovani, a quelli che l’hanno visto su youtube o immaginato nel racconto di un padre, di un parente, di un amico più anziano. Fidatevi. Non c’è trucco: è tutto vero, è tutto Cruyff

Per dirvi chi era: prendeva la palla come se fosse un confetto e, con un colpo di acceleratore, la trasformava in una pallottola. Come Picasso ha cambiato la pittura, così Johan Cruijff ha cambiato il calcio. Lo sradicò dall’ovvio, lo portò nell’insolito. Mi rivolgo ai lettori più giovani, a quelli che l’hanno visto su youtube o immaginato nel racconto di un padre, di un parente, di un amico più anziano. Fidatevi. Non c’è trucco: è tutto vero, è tutto Cruyff.
Ajax e Barcellona, giocatore e allenatore. Non che, ad Amsterdam, avesse compagni scarsi o tutori mediocri (tutt’altro: Rinus Michels, Stefan Kovacs). Cruyff crebbe con il calcio in testa, e non solo nel sangue, attratto da una visione quasi eretica che gli permetteva di anticipare, lui veloce ma non velocissimo, la mossa dell’avversario e, dunque, di scegliere cosa fare, e dove, e con chi o per chi.


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LA TOP 11 DEL "CALCIO TOTALE": I PADRI E I FIGLI DI JOHAN CRUYFF


Il calcio prima di lui non era necessariamente brutto o mediocre. Era, semplicemente, diverso. C’era il Real di Alfredo Di Stefano, lo squadrone delle cinque Coppe dei Campioni; c’era il Benfica di Eusebio, c’erano Milan e Inter, e proprio il Milan di Gianni Rivera, nella finale del 1969, gliene rifilò quattro. C’erano gli eccessi piccanti di George Best, il quinto Beatle, e poi, d’improvviso, saltò fuori lui, «il profeta del gol», secondo la definizione di Sandro Ciotti. Portava il quattordici, dribblava verticale, in agilità, tirava di destro e di sinistro, s’imboscava e s’impennava. Dava ordini, metteva ordine. Stava nascendo, attorno al suo genio paradossalmente elettrico, il calcio totale. Quel calcio che, all’alba dei Settanta, avrebbe spaccato le convinzioni e demolito le convenzioni. Tutti per uno e uno per tutti. Sparì lo specialista. S’impose il versatile: (con il rischio che, senza stoffa, scadesse a generico.

Paesi Bassi ma idee alte. Cruyff, mingherlino di talento, fu il vento al quale tutti, chi più chi meno, andarono dietro. Senza Cruijff e il suo Ajax e la sua Olanda non ci sarebbe stato il Milan di Arrigo Sacchi, e neppure quel Barcellona che proprio Johan, dopo aver riportato allo scudetto dal campo, consegnò, dalla panchina, alla prima Champions e a una nuova saga. L’epopea del «dream team».

«Falso nueve» di posizione, Cruyff segnava, faceva segnare e sognare, soprattutto. Se Pelé e Diego Maradona hanno aggiornato la storia del calcio, e Di Stefano l’ha cambiata sul piano individuale, moltiplicandosi, Johan l’ha sabotata a livello filosofico. Gioco corto, dal quale Pep Guardiola, allievo devoto, avrebbe ricavato il tiki taka dell’ultima svolta; zona, pressing, libero attacco in libera squadra. Essendo stato tutto, tutto pretendeva. Ogni tanto l’arroganza lo portava fuori strada, come ad Atene contro il Milan di Fabio Capello, quando perse 0-4 e salutò la Champions. Gianni Brera lo considerava un «atipico», tali e tante erano le funzioni che svolgeva; e a che ritmo, poi.

E’ stato uno dei pochi a entrare nella storia (anche) attraverso un secondo posto. Capitò al Mondiale del 1974, nella finale con i tedeschi. Non si accorse, Cruyff, di essere andato troppo in là, come spirito e come idee. Se ne accorsero gli avversari. Che vinsero, sì, ma non accesero fuochi. «I risultati finiscono sugli almanacchi, lo spettacolo resta nella memoria» (Fabrizio Tanzilli, «Lo spazio della libertà»).

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