CALCIO, CARNE E FINANZA. LARA, LADY SUPER G. LA CALCISTIZZAZIONE DEL TENNIS. MARZIANI A OSTENDA
di SIMONE BASSO
Sport e cultura, 11 febbraio 2021
El Mundo pubblica le cifre del quadriennale di Lionel Messi, le spiattella senza escludere i dettagli (che fanno il quadro complessivo dell’affaire): 555.237.619 euro, lordi, il contratto – firmato nel novembre 2017 – «...che ha rovinato il Barcellona». Tra fisso e variabile, 139 milioni a stagione: 115 per l’inchiostro (...), 80 per la fedeltà.
Il Barça, anno di grazia 2021, ha 1137 milioni di debiti, 730 dei quali da estinguere entro la fine della stagione. I creditori non sono solo l’Ajax, il Gremio, il Liverpool eccetera, ma Prudential, Goldman Sachs, Allianz. La battuta, tragicomica, è che i blaugrana siano stati prima confiscati dalla Pulce che dalle rate (esose) del calciomercato.
Le reazioni alla notizia, in Italia, sono state esemplari: come se il calcio, sistema e immaginario, fosse impermeabile alla realtà (carne e finanza) del resto del mondo. Un universo parallelo che coincide con i sogni, pornografici e tribali, mai con le regole dell’universo. Messi, per i media generalisti, essendo Messi non può essere collocato allo stesso livello degli altri, i comuni mortali.
Il bordone è sempre lo stesso, fotografato all’ultimo stadio dall’addio (annunciatissimo) a Diego Armando Maradona. Il cattivo gusto esibito in quei giorni, la beatificazione di un genialoide del foot morto da barbone (solo e disperato: un suicidio pubblico a rate), ci indica quanto il calcio possa veicolare il (nostro) peggio.
Allora, per giustificare quella montagna di denaro e il più grande calciatore della sua generazione (vedovo Xavi e Iniesta), ci si arrampica sugli specchi. L’ingaggio “accarezza” i 50 milioni netti, si scrive: «Quale persona sana di mente può davvero sostenere che Lionel Messi abbia rovinato il Barca?».
Altrove, pagine rosa, l’inviato sottolinea: «Con Messi il Barcellona ha vinto l’80% delle sue Champions League e il 40 % delle sue Liga».
L’ipnosi del ritornello-Champions, a ribadire la sterilizzazione della storia del calcio: qualcuno che spieghi che la Coppa dei Campioni non era l’attuale Champions League ci sarà? O che vincere la Coppa UEFA, o la Coppa delle Coppe, valeva – più o meno – come alzare la coppa dalle grandi orecchie.
Erano altri i parametri – meno banali: i campionati li vincevano pure l’Athletic Bilbao e la Real Sociedad... – e ridurre il Barça, una delle polisportive più importanti d’Europa, al torneo-ammucchiata post-1997 è intellettualmente miserabile. Come se lo squadrone dei László Kubala, Luis Suárez, Sándor Kocsis non fosse mai esistito. O l’arrivo – decisivo – del profeta Johan Cruijff non ci fosse mai stato.
Due anni fa, non eoni orsono, un informatico portoghese (Rui Pinto: incarcerato a Budapest e consegnato a Lisbona, minacciatissimo) ci aveva svelato – nome dopo nome – il castello di carta sul quale si regge il foot moderno di altissimo livello. Triangolazioni, riciclaggio, acrobazie fiscali, sponsorizzazioni false, i rapporti incestuosi tra FIFA, agenti e autorità penali.
L’offshore della famiglia Messi era una specie di romanzo nero, comprendente pure il boss (babbo Jorge).
Sostenere che questa roba debba o possa finire, subito, poiché non è necessaria e anzi dannosa – cancerogena – per la società stessa, che si riflette (troppo) in questo specchio distorto, non ci sembra blasfemo.
Nelle settimane nelle quali nessuno capisce di chi siano, sul serio, il Milan e l’Inter (non la Cavese e la Pro Sesto).
Se il calcio adegua i suoi clienti, adepti, a standard sempre più atroci, la correità dell’informazione non può più essere taciuta.
Tempi iridati nello sci alpino, le prove generali verso Cortina 2026.
La montagna che è stata inventata (...) nel 1956 da Toni Sailer, meriterebbe un altro scenario – il pubblico... – e un’organizzazione (di tutti: dalla FIS in giù) meno improvvisata.
Cominciare le gare il sabato e la domenica avrebbe aiutato: ma sono gli stessi che, in Coppa, danno 100 punti a chi vince la Streif e a chi vince un parallelo su una collinetta.
Per ribadire il fascino perverso delle prove da medaglia, la parabola di una campionessa come Lara Gut ce la illustra benissimo: a quasi trent’anni, una fuoriclasse, la più forte supergigantista di sempre, al cancelletto dell’Olympia delle Tofane, è ancora a zero titoli.
Ci ha fatto piacere il suo ritorno, alla stragrande, quest’anno; anche se, in fondo, la signora Behrami non ci aveva mai lasciati.
Una carriera con Sankt Moritz nel destino: lassù, appena sedicenne, la ticinese si rivelò arrivando terza, in discesa, dietro Tina Maze e Maria Holaus, il 2 febbraio 2008.
Dieci mesi più tardi, il 20 dicembre, sulla stessa pista, sarebbe diventata – a 17 anni e otto mesi – la più giovane a vincere un SuperG.
Nello stesso luogo, l’Engadina, la massima gioia e il massimo dolore: nel 2016, le finali della Coppa del Mondo generale vinta, l’anno successivo – ai Mondiali di casa, durante la ricognizione dello slalom della combinata – i legamenti del ginocchio sinistro kappaò.
È tornata, a dispetto di un infortunio (grave) quando era sulla cima dello sci alpino rosa.
Personaggio tosto, allergica al luogo comune, nel post incidente dichiarò che in quel ginocchio – ferito – si era realizzato tutto lo stress psicofisico della sua (prima parte di) carriera.
Lara è risorta come l’araba fenice, riuscendoci laddove la concorrenza generazionale ha mollato: Anna Fenninger (l’amica del cuore), Viktoria Rebensburg, Tina Weirather (compagna di mille allenamenti).
Gut epitome assoluta, con Fenninger (Veith), della sciatrice evoluta moderna.
Una velocista con gli istinti tecnici della gigantista: capace di linee millimetriche, rischiose quanto premianti, dotata di “piedi intelligenti” per lo scorrimento (miglioratissimo) malgrado la taglia (e il peso) bonsai.
Magistrale nell’interpretazione dei dossi, le traversate peculiari, una lettura tattica lucida del tracciato.
Lei, Mikaela Shiffrin e Marta Bassino ci spiegano il mistero stupendo del talento, al livello più alto, nello sci alpino femminile.
Happy Slam tra la transizione eterna, Nole Djokovic a 18 major più che Rafa Nadal a 21, o una novità relativa, un Daniil Medvedev (Sascha Zverev).
Sull’asse Melbourne-Adelaide si è realizzata – al cento per cento – la calcistizzazione del tennis.
Il (gran) finale del Federerismo, dell’epoca dei tre mostri, ci consegna un gioco che, persino nelle parole di Craig Tiley (il mammasantissima di Tennis Australia), non finge nemmeno più di considerare i giocatori (di lignaggio) uguali, ma addirittura favorisce un’imbarazzante disparità di trattamento.
I VIP (e le VIP) nell’albergo di lusso, con la posse, gli altri – dopo la scoperta (dell’acqua calda) di alcuni positivi sui voli transoceanici – rinchiusi in una stanza di hotel, quattordici giorni in isolamento senza allenarsi.
Gli organizzatori, considerando gli insulti ricevuti nelle chat private, hanno consigliato a quelli della bolla VIP di non condividere immagini social del loro status (privilegiato) ad Adelaide.
Per non frustrare ulteriormente i reclusi (...) di Melbourne.
Una foto (ingenua) di Naomi Osaka, sorridente col suo staff, aveva fatto arrabbiare molti colleghi.
Lei, Djokovic, Nadal, Dominic Thiem, Simona Halep e Serena Williams (più qualche ospite come Jannik Sinner) con una palestra all’interno dell’albergo, suite con spa, ristorante gourmet e cinquanta accompagnatori al seguito.
Il boicottaggio (sacrosanto) della classe medio-alta, in altre ere inevitabile, è stato scongiurato per ragioni di pecunia. Mesi di tornei saltati, il covid-19 a sconvolgere i programmi: sono bastati 100.000 dollari australiani, il montepremi del primo turno, per comperare i viandanti bulgari con racchetta. Le maschere a teatro venivano via con meno.
Il Mondiale ciclocross di Ostenda, l’ultimo giorno della Merla, pareva uno scenario ballardiano.
L’isola di cemento, il percorso (a ostacoli) con lo scheletro di tubi, il mare d’inverno che era solo un film in bianco e nero visto alla tivù.
Il ponte, i passaggi da circo, il vento da Nord che sferzava (la temperatura sottozero) e quella spiaggia hanno reso impossibile la competizione contro i due Van. Che, pronti e via, la prendevano di petto, subito.
Al secondo giro, marea alta, Wout Van Aert dragava la spiaggia: Mathieu van der Poel, già in affanno, cadeva.
Al terzo, il nipotino di Pou Pou rientrava, con una guida principesca della bici, quando l’avversario – ahilui – forava. Il momento che decideva la sfida e ribaltava l’inerzia: primo l’olandese, secondo il belga, gli altri dispersi.
Avremo tutta la primavera, dalle Strade Bianche a Roubaix, forse anche a Liegi, per rinnovare il duello generazionale. Con un po’ di buona sorte, il ciclismo dei due marziani ci accompagnerà per tutti gli anni Venti.
Simone Basso
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