GUIDA POCO PRATICA AL MONDIALE DI CICLISMO DI LOVANIO



Nulla è più definitivo, nel variegato mondo dello sport (pro'), di un’iride del ciclismo assegnata in Belgio, nelle Fiandre. La terra dove la bici e i suoi riti rappresentano un culto totalizzante, teosofico.
Cento anni di Mondiali UCI nel centro di gravità permanente del ciclismo: alla faccia del Tour e del Giro.
Questa è una guida poco pratica all’evento, wikipedismo e luoghi comuni nisba, ma un bel flusso di coscienza sulla corsa in linea più scema e importante dell’anno.

1.
Lovanio mon amour, a uno sputo da Bruxelles, nel bel mezzo del Brabante fiammingo, minaccia (...) uno scenario stile-Woodstock o ingorgo anni Ottanta sulla A1 a Roncobilaccio.
Tifosi ovunque, marciapiedi, tribune, ponti, alberi, finestre: roba che poi uno pensa a Doha 2016 (che fu pure una bella gara) e tocca un amuleto.
Fare un Mondiale nelle Fiandre, un po’ più spesso, dovrebbe essere un obbligo e un onore. Invece, è solo la settima volta.

2.
La Federazione Internazionale si inventò la competizione nella scia del leggendario Grand Prix Wolber; che si disputava in Francia e invitava i primi tre delle classiche in auge allora, negli anni Venti.
Il Mondiale creato dall’UCI inseriva le squadre nazionali – come si faceva nella pista – con una formula itinerante per raccogliere più dindi possibile.
Partì alla chetichella nel 1921, a Copenhagen, coi dilettanti, e si allargò ai professionisti sei anni dopo.
Al Nürburgring 1927, la vernice fu tutta azzurra: Alfredo Binda dominò la contesa, al maestro venerabile Costante Girardengo la seconda piazza, Domenico Piemontesi e Tano Belloni completarono il poker.


3.
Malgrado alcuni nomi, di livello assoluto, la kermesse rimase kermesse. Perché, con quei circuiti cittadini banali, contraddiceva lo spirito di uno sport che viveva (e vive) di monumenti storici.
Le grandi salite, il pavé, i muri.
Il Mondiale liofilizzava quell’approccio, addirittura lo banalizzava.
L’idea della prova fu salvata nel 1953 a Lugano, sulla Crespera, con Germain Derycke vittima e complice, dal più grande corridore di tutti i tempi: Fausto Coppi.
Nelle foto della premiazione, col Campionissimo che indossa finalmente una maglia che gli apparteneva (da sempre), sullo sfondo Giulia Occhini e a fianco Achille Joinard (a destra) e Adriano Rodoni.
I due padroni della ferriera; che tiravano un sospiro di sollievo: l’anno prima, in Lussemburgo, su un tracciato-barzelletta, avevano sporto l’iride a Heinz Müller...

4.
Il fascino perverso del Mondiale è – da eoni – inalterato.
Sarà quell’arcobaleno, un simbolo che appartiene solo al ciclismo, o la domenica del villaggio coi pro' "costretti" a correre sotto le bandiere nazionali.
Tra connazionali che sovente non si amano (sic), 364 giorni l’anno, e con retroazioni carsiche, in quelle cinque-sei ore, coi compagni di club.
Ci vogliono i garun, una faccia di bronzo e il portafoglio a fisarmonica.

5.
Leuven ha un tracciato misto, nello standard moderno dell’UCI, che prevede un tratto in linea (con partenza da Anversa) e poi l’alternarsi di due anelli.
I 268,3 chilometri premiano i classicomani da Sanremo, velocisti resistenti o finisseur: dei 42 muri affrontati nel Brabante, non si va mai oltre i 975 metri di percorrenza del Decouxlaan e la pendenza media all’8,84 per cento dello Smeysberg.
Il rettilineo sul traguardo tira un po' su...
Una specie di Amstel Gold Race o – considerando i luoghi – una maxi-Freccia del Brabante.

6.
Più logico sottolineare le condizioni climatiche che, il 26 settembre, in una terra battuta sovente dalle perturbazioni atlantiche, incideranno.
Con la pioggia, facile pensare a uno scenario Harrogate 2019 (oppure Oslo 1993).
Selezione da dietro e poi uno a uno, tra scatti, buchi e cadute.
Una strage.
Col sole, alcuni giochi tattici potrebbero favorire uno sprint con una ventina di atleti.

7.
Inutile girarci intorno.
Il Belgio, anzi le Fiandre, un profilo da classica del Nord: tutti aspettano, aspettiamo, Wout Van Aert.
Sarebbe giusto vedere quell’iride fasciare il busto, per un anno intero, del corridore più straordinario di questo evo (d’oro).
L’unico capace di vincere le tappe del Tour in una volata di gruppo(ne) o in fuga scalando (due volte) il Mont Ventoux.
Bello come il sole, elegante, il ciclocrossista, da marzo a settembre (ottobre).
Costituirebbe un atto di giustizia: più per la maglia, poveretta, che è stata portata in giro da Heinz Müller, Harm Ottenbros, Laurent Brochard, Igor Astarloa, che per noi.


8.
Il problema è appunto il Mondiale, una classicissima sbilenca, e la sua tradizione in Belgio.
Per i padroni di casa, potremmo definirla una maledizione.
A Renaix, Ronse per i fiamminghi, di sicuro.
Nel 1963, tavola apparecchiata per il tris iridato di Rik Van Looy: nello sprint, convulso, Benoni Beheyt non si sfilò. L’imperatore di Herentals, da vero sceriffo, si sarebbe vendicato distruggendogli la carriera.
Nell’88 il Belgio era nel suo Medioevo, ma Claude Criquielion – uno dei pochi campioni del periodo – fece una gara (quasi) perfetta. Filò via col rapportone, lui, un imberbe Maurizio Fondriest e qualche moto (derny) compiacente (si usava così...).
Nell’epilogo, si finiva in cima a una salitella, arrivò uno strapotente Steve Bauer. Come scritto ne In Fuga Dagli Sceriffi, un fuoriclasse, ahilui sempre al posto sbagliato nella corsa giusta. 
Il canadese portò Cri Cri alle transenne, il vallone tentò di infilarsi e si schiantò. Fondriest vinse il Mondiale, Criquielion arrivò a piedi sul traguardo, spingendo la bici, Bauer (squalificato) – in mezzo a una folla inferocita – dovette essere scortato dalla polizia.

9.
A Yvoir 1975, i belgi erano invece un dream team della bici: come definire altrimenti, una combo con Eddy Merckx, Roger De Vlaeminck, Freddy Maertens, Frans Veerbeck, Lucien Van Impe?
Nel clou, quella volpe di Hennie Kuiper partì in contropiede.
Nel plotone dei ras si guardarono, De Vlaeminck – in quella stagione, un’iradiddio – fu aiutato ma non troppo (tranne che da Van Impe).
Trionfò l’olandese, il gitano di Eeklo sprintò furente (a 17 secondi da Kuiper) per la seconda piazza.
Non avrebbe mai indossato l’arcobaleno della strada, ne vanta uno nel ciclocross, a dispetto di un palmarès straordinario.
Uno del club dei semidei senza Mondiale: una lista capeggiata da Gino Bartali, Jacques Anquetil e Miguel Indurain.

10.
Perché Van Aert realizzi la mandrakata, a domicilio, oltre la fortuna c’è bisogno di uno squadrone; che ci sarebbe: Remco Evenepoel, una moto agli Europei di Trento, Jasper Stuyven, Tiesj Benoot, Yves Lampaert.
Questi quattro farebbero i capitani nella Spagna e nell’Italia: metterli insieme, tutti per Wout, sarà un lavoro sporchissimo.
Van Aert a Tokyo, dove andava il doppio rispetto agli avversari, dovrebbe aver imparato la lezione.
Uno contro il mondo non si va da nessuna parte, al massimo si colleziona l’ennesimo argento.

11.
Julian Alaphilippe, campione uscente, correrà di pedina: le gambe non sembrano le stesse di Imola, la testa è (sempre) quella giusta.
Idem con patate per la maglia gialla Tadej Pogačar e la roja Primož Roglič, che col percorso ci azzeccano poco ma faranno da palo (!) a un Matej Mohorič da agguato.
Sotto sotto, sperano in una magata stile-Stephen Roche ’87.
Spagnoli e italiani sono stati, in altre ere, il faro della domenica iridata.
Nel bene e nel male, anche inseguendosi (come fecero Paolo Lanfranchi con Gibo Simoni a Lisbona 2001 e Miro Panizza con Gibì Baronchelli a Praga 1981) o correndosi contro, per impedire la vittoria del connazionale (Alejandro Valverde a Firenze 2013 con Purito Rodríguez).
Adesso iberici e tricolori sono solo outsider di seconda (e terza) fascia: Sonny Colbrelli, nella stagione della carriera, Alex Aranburu, Matteo Trentin.

12.
La nazionale pericolo pubblico numero uno per i belgi è la Danimarca. Una corazzata con un problema di abbondanza: addirittura quattro punte.
Kasper Asgreen è parso, questa estate, quello meno in forma della banda (dei quattro).
Avrebbe lo chassis perfetto – a Pasqua si è imposto nella Ronde – per far saltare il banco.
Al contrario, Michael Valgren ha dominato il recente dittico toscano tra Giro della Toscana e Coppa Sabatini.
Ancora più impressionante Magnus Cort Nielsen alla Vuelta: tre tappe vinte, irresistibile in molti frangenti delle frazioni miste.
Mancherebbe – nel lotto – Mads Pedersen, uno che in un Mondiale simile a Lovanio (Harrogate ’19) si è già imposto.
Nel Brabante, biancorossi ovunque.
Anche qualcuno con la maglia della Svizzera (Stefan Küng, Marc Hirschi).

13.
Segnalata la linea verde Brit, Tom Pidcock e Ethan Hayter (notevole al Tour of Britain opposto a Van Aert e a Alaphilippe), resterebbero gli uomini mascherati (...).
Gli australiani correranno per Michael Matthews, Godot delle volate nel 2021, ma nascondono Caleb Ewan: quello di marzo (a un nonnulla dallo scalpo della Sanremo) diventerebbe la mina vagante, quello del Giro del Lussemburgo prenderà molto presto la strada verso l’albergo.
Peter Sagan, tre o quattro anni fa – su un circuito come Lovanio – sarebbe stato il favorito.
Maestro venerabile delle garone oltre i 200 chilometri, oggi parrebbe agli ultimi colpi della sua odissea (gloriosa). Chissà.

14.
Dall’altra parte del sole, laddove è appena sorto, Mathieu van der Poel è il mistero, l’incognita tattica, delle sei ore di polka.
Una stagione cucita con la precedente, il giochino di passare da una disciplina all’altra come un bimbo superdotato, i dolori alla schiena, sta pagando una super attività figlia dell’assenza di programmazione.
Eppure a Leuven, col numero sulla schiena, qualche coniglio dal cilindro lo tirerà fuori: troppa voglia, troppa classe. Per sé e i suoi: Mike Theunissen, allo sprint, e Bauke Mollema, da lontano, su tutti.

15.
Con il piccolo aiuto del prefetto dell’Hauts-de-France, Michele Lalande, che l’aveva cancellata due volte, la Parigi-Roubaix si correrà sette giorni dopo l’iride.
All’inferno del nord del 3 ottobre, seguirà sabato 9 il Giro di Lombardia: la sequenza (magica) rende Lovanio un appuntamento ancora più speciale.
Una primula rossa, queste due settimane, nella storia di questo sport.


16.
Questa che segue non è una classifica, e chi se ne frega delle classifiche, ma una lista della spesa.
Dieci edizioni-dieci del Mondiale, a volte epiche, magari un po’ scandalose, di sicuro memorabili.
In ordine cronologico.

1948 Valkenburg
Mentre l’aquila Brik Schotte (assieme ad Apo Lazaridès) stacca il plotoncino e va all’oro, dietro – troppo dietro – si consuma la faida tra Gino Bartali e Fausto Coppi; che si annullarono, a vicenda, siglando il pomeriggio più nero della loro rivalità e assicurandosi – nel post – tre mesi di squalifica dalla FCI.

1953 Lugano
All’ultima occasione o quasi, su un tracciato duro (finalmente!), Fausto Coppi (nell’anno dei 34) sfrutta la salita della Crespera per selezionare il gruppo. L’ultimo con lui a due giri dalla fine, Germain Derycke, classicomane di alto livello, si arrende stremato dal caldo e dalle progressioni del Campionissimo, forse più ricco (...). È il momento più importante e pop di tutto lo sport italiano moderno, ci spiace pallonari: primato (imbattuto) di vendite dei settimanali e delle bici Bianchi.

1966 Nürburgring
La versione ciclistica e bleus del Macbeth. Nel clou, Lucien Aimar riportò sotto un Rudi Altig mezzo morto. Finalone: in un drappello di sei, tre sono galletti. Jacques Anquetil, a un passo da un arcobaleno mai acchiappato, Raymond Poulidor e Jean Stablinski. Quando Altig andò via, convinto ma non troppo, Pou Pou si rifiutò di aiutare l’arcirivale: che l’aveva appena fregato al Tour, orchestrando una fuga-bidone sulle Alpi. Jacquot offrì una marea di franchi a Raymond (per convincerlo). Primo Altig, secondo Anquetil, terzo Poulidor.

1974 Montreal
Col senno di poi, qui finisce ufficiosamente il Merckxismo nella versione più tirannica. L’assolo di Bernard Thévenet, a otto giri dalla fine, parve una specie di scacco matto. Eddy Merckx, sul tracciato attorno all’Università, sfruttò Mount Royal per il suo forcing. A sette chilometri dall’arrivo, il Cannibale sorpassò il fuggitivo. L’ultimo a resistere, il trentottenne Poulidor, perse per distacco (!) uno sprint senza storia. Terzo mondiale (più uno dei dilettanti) per Eddy, nella stagione della (terza) doppietta Giro-Tour. Mostruoso. Di culto, nelle pieghe della partita, il giovane rampollo Freddy Maertens messo fuori gioco da una borraccia d’acqua con guttalax passata dal massaggiatore di Eddy.

1980 Sallanches
Reduce dal clamoroso ritiro, in maglia gialla, alla Grande Boucle, Bernard Hinault si presentò inferocito al Mondiale di casa. Che altimetricamente – con la salita di Domancy – era un massacro. I francesi favorirono il ritmo, subito: Jan Raas, campione in carica, comprese l’antifona e si ritirò al secondo giro. Il Tasso distrusse la concorrenza, con l’eccezione di Gibì Baronchelli, che mollò la ruota del bretone alla penultima ascesa di Domancy. La prova iridata più dominata di sempre? PS: 107 partenti, 15 arrivati...


1989 Chambéry
Altro circuito alpino tosto. Poco agonismo per ore, sotto la pioggia, un epilogo con i botti e i fuochi artificiali. Quando Laurent Fignon scattò, potentissimo, per riprendere Steven Rooks, rivide l’ombra di Greg LeMond tornargli sotto: l’incubo del Tour era ancora lì. C’era anche Steve Bauer che, a fine discesa, si rese conto d’aver forato. Rientrarono anche Dimitri Konychev e Sean Kelly: pareva la volta buona, per il fuoriclasse irlandese. LeMond spense l’ultima stoccata, da finisseur, di Fignon. In volata, l’americano batté clamorosamente Konychev e King Kelly.

1995 Duitama
Altitudine estrema, al di sopra dei 2500 metri, per una giornata con poco ossigeno e pochissima pietà. Marco Pantani attaccò dopo la caduta di Claudio Chiappucci (in discesa). Il Pirata, scatenato, rimase nella morsa degli spagnoli. Ci si aspettava che Miguel Indurain vincesse la maglia, che inseguiva da Stoccarda ’91, quando il delfino (...) Abraham Olano attaccò sul falsopiano. Il solo Pantani, con Miguelon che mordeva il freno, non riuscì a recuperare il basco (volante); che divenne il primo iberico della storia a indossare l’iride. Fu la vernice delle rassegne iridate corse in autunno.

2004 Verona
La città di Romeo e Giulietta apre (nel 1999) e chiude il ciclo vincente di Oscarito Freire. Il tris del fuoriclasse cantabrico giunse al termine di una gara perfetta orchestrata dagli spagnoli. E malgrado i tentativi, sulle Torricelle, degli italiani e Aleksandr Vinoukorov: fu Freire stesso, in stato di grazia, a ricucire su Ivan Basso. In volata, Oscar si impose sul grande Erik Zabel e Luca Paolini.

2009 Mendrisio
Percorso ondulatissimo, un toboga, la sfida venne caratterizzata da uno strapotente Fabian Cancellara; che, sgasando sull’Acquafresca, costrinse Damiano Cunego e Filo Gilbert a un fuorigiri esagerato per rimanergli in scia. Rimasti Spartacus più sette, sulla Torrazza di Novazzano si isolarono Cadel Evans, Joaquim Rodríguez e Aleksandr Kolobnev. Evans scattò nel momento giusto, quasi in cima alla Turascia, e conservò un margine di sicurezza fino al traguardo. Primo oceanico a fregiarsi del titolo.


2015 Richmond
In Virginia, una kermesse cittadina (molto televisiva) in quel di Richmond. Un’attesa lunga 14 giri e poi lo sparo dell’attesissimo Peter Sagan, che rispondeva a Greg Van Avermaet, sulla striscia di acciottolato di 23rd Street. Lo slovacco allungava in discesa, con lo stile di un motociclista, e beffava il ritorno del gruppo. Sagan avrebbe rivinto pure a Doha (2016) e Bergen (2017) raggiungendo con tre successi i primatisti Alfredo Binda, Rik Van Steenbergen, Eddy Merckx e Oscar Freire.

Simone Basso

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