Frank Vandenbroucke, la leggenda del ragazzo prodigio



Frank Vandenbroucke è stato il ragazzo prodigio degli anni Novanta, un talento spaccato a metà tra la luce e il buio. Si è fatto amare e odiare come nessun altro, è diventato leggenda.

Negli anni Novanta usava così, colorarsi i capelli di biondo platino come i divi teen dei giornali per le ragazzine, le tute improbabili e colorate e super trash. Frank Vandenbroucke lo chiamavano il James Dean del ciclismo anche se a Dean non somigliava per niente. Ma forse l'aspetto non c'entrava, era dissennato anche lui come un divo di Hollywood, ha recitato la sua parte nel mondo diviso in due di allora, di quando le imprese sovrumane facevano incollare alla tv milioni di persone, di quando l'altra faccia della medaglia era nera come la pece, come lo stordimento delle amfetamine, come tutte quelle combinazioni di farmaci e droghe per sopportare tutto, non solo il dolore fisico ma anche il resto. Essere ciclista così giovane, essere la rincarnazione di Eddy Merckx quasi, un macigno così grande da non poter fare a meno di sbarellare, in una maniera o nell'altra.

Era un maledetto predestinato, Frank. Uno nato nelle Fiandre, al confine con la Francia, così vicino alla piccola, adorata e cattiva Roubaix, con il padre che faceva il meccanico in un team e lo zio ex corridore. Uno che a quattro anni venne operato quattro volte al ginocchio per essere stato investito da una macchina, mentre era fuori in bici. Il ginocchio. Se lo sarebbe portato dietro tutta la vita. La sua croce prima di tutte le altre, la prima cosa contro la quale combattere. La prima volta a toccare il dolore da vicino, così presto, subito. Come le sue prime vittorie, alla fine. Vinse otto corse nel 1990 e poi quindici nel 1991, divenne campione belga nella categoria allievi e poi juniores poi subito nei pro' a soli diciannove anni, catapultato in un mondo dove non disattese le promesse. Una Parigi-Bruxelles, la Gand-Wevelgem, la Parigi-Nizza solo nelle sue prime tre stagioni con la Mapei e poi il cambio di squadra "una follia per tutti", un Fiandre funambolico dove una caduta non gli rubò la gloria di arrivare secondo allo sprint con Museeuw; e ancora la vittoria alla Liegi con uno sprint sulla Redoute a 30 chilometri dal traguardo che passerà alla storia, affrontato con il 39x17. "C'era vento a favore", commentò lui poi.

Un talento puro, senza troppi giri di parole; un divo sulla cresta dell'onda fino a quel 1999, l'ultimo anno d'oro. Dopo la vittoria in una tappa della Vuelta il suo compagno di squadra Philippe Gaumon lo esorta a prendere un forte sonnifero insieme a dell'alcool, lui stesso dirà che quello è stato l'inizio della fine. La caduta di un dio, il buio all'improvviso per lui che forse aveva sentito più di tutto il dualismo che il ciclismo ti impone: invincibile in bicicletta, fragile nella vita.

Si sapeva ogni cosa, allora. Tutto quello che nel ciclismo girava, l'EPO, l'insulina, gli abusi che a un certo punto divennero troppi, che dopo gli scandali i ragazzi tirarono il freno. Avevano paura di aver esagerato. Ma lui no, lui non aveva paura di niente. O forse solo di una cosa, il terrore di tutti quelli che hanno passato l'intera esistenza in sella: non poter più correre. E così avviene. Nessuno lo vuole in squadra, diventa dipendente dalla cocaina, dall'amfetamina e una sera prende la sua bottiglia di vino più costosa, la beve tutta e si inietta dell'insulina. Lo salva la madre che lo trova riverso nella sua stanza con addosso la maglia di campione del mondo. Un sogno tra gli incubi, il suo sogno.

Frank è la rockstar di quegli anni, è indomabile, ossessionato dal ciclismo così tanto da incarnare in sé stesso la meraviglia e la tragedia di uno sport.

I belgi lo amano ancora follemente e ogni ottobre ripensano a quella notte che si è portato via il loro ragazzo-prodigio, in una stanza d'albergo, così lontano da casa. Loro lo sanno che avrebbe potuto vincere tutto quello che avrebbe voluto. E che quando il talento è immenso è anche oscuramente difficile da gestire per gli animi poco comuni. Sul braccio si era tatuato un lupo, un animale dalle forze feconde e distruttrici, guerriero come era stato lui, negli scatti in cui correva via e nessuno lo rivedeva più fino al traguardo. Una delle costellazioni che dalla Terra si vede così poco ma in realtà ha stelle tra le più luminose della Via Lattea.

Commenti

Post popolari in questo blog

PATRIZIA, OTTO ANNI, SEQUESTRATA

Allen "Skip" Wise - The greatest who never made it

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?