Frank Vandenbroucke



Frank Vandenbroucke era Dio: il numero di fedeli attuali ne è testimonianza.

di DAVIDE BERNARDINI
Suiveur.it - 5 dicembre 2018

Due diapositive. La prima: Giro di Vallonia, anno mai specificato, episodio ammantato da una folta coltre di leggenda. Si attraversa un paesino a cavallo, appunto, tra Vallonia e Fiandre. Frank Vandenbroucke, vallone, pedala dalla sua parte; solo, irrimediabilmente solo, dato che il gruppo è interamente disposto nell’altra carreggiata. La seconda: Het Volk, oggi Omloop Het Nieuwsblad. 2003. Alla partenza, un gruppetto di tifosi fiamminghi intravede Vandenbroucke e si lascia andare: è tornato, Dio è tornato. In quel momento, Dio era il numero cinquecentosettantuno al mondo. Più che uno dei tanti, uno degli ultimi. La sua autobiografia sarebbe uscita cinque anni più tardi, nel 2008. Il titolo è emblematico: “Io non sono Dio”.

Nipote di Jean-Luc Vandenbroucke, Frank era considerato fin da giovane il nuovo Merckx. Patrick Lefevere, attuale guida della Quick-Step, lo elogiò fin dalle sue prime apparizioni nel mondo dei professionisti: “È più maturo di qualsiasi ragazzo della sua età. Sa perfettamente ciò che vuole. Un vero talento”. A diciannove anni, Frank è già tra i grandi del pedale: il dilettantismo non fa per lui e salterà a piè pari la categoria. Nei primi anni di carriera, la sua stella brilla con intensità: Parigi-Bruxelles, Laigueglia, Matteotti, Giro del Mediterraneo, Scheldeprijs, Gand-Wevelgem, due tappe e la classifica generale alla Parigi-Nizza. Il 1999 è un anno d’oro: secondo al Fiandre, settimo alla Roubaix, primo alla Het Volk e alla Liegi, ancora una tappa alla Parigi-Nizza; nel finale di stagione, Vandenbroucke va alla Vuelta e lascia tutti di stucco, conquistando due frazioni e chiudendo dodicesimo nella generale. Il ciclismo si prepara a celebrare un nuovo fenomeno.

Nella Cofidis, squadra di Vandenbroucke nel 1999 e 2000, corre anche Philippe Gaumont, un altro cavallo pazzo. Vinse la Gand-Wevelgem nel 1997 salvo poi confessare, negli anni successivi, di aver assunto di tutto: svelò addirittura molti trucchetti del mestiere. È lui ad iniziare il belga a quel nuovo stile di vita che nel giro di poco tempo lo avrebbe portato alla dipendenza. Parte tutto da un mix letale fatto di Stilnoct, un sonnifero, e di alcool. Da quel momento, Vandenbroucke non avrebbe mai più potuto fare a meno di certe sostanze. Un tunnel devastante e ingannevole, fatto di tappe ben più difficili da sopportare di quelle della Via Crucis: la conoscenza di Bernard Sainz, “Docteur Mabuse”, condannato più avanti a diciotto mesi di galera, e i suoi bizzarri consigli, come dormire nudi ma con un foulard al collo, consigli che un Vandenbroucke ormai assuefatto segue alla lettera; e ancora, fermato, sospeso, segnalato, allontanato, perquisito, condannato. Nel 2005 tenta addirittura il suicidio: si scola una bottiglia di Château Petrus, si inietta dell’insulina e indossa una maglia iridata, quella di campione del mondo. Poi si sdraia sul letto, andando in contro alla morte, in attesa che essa faccia il suo corso. In seguito, avrebbe raccontato che in quell’istante si sentiva finalmente felice e tranquillo, senza preoccupazioni. Si sarebbe salvato, rimandando l’appuntamento col destino soltanto di qualche anno.

Nel 2000, intanto, Vandenbroucke era convolato a nozze con Sarah Pinacci, modella italiana. Ed è proprio l’ex moglie, diversi anni più tardi, a raccontare la sua verità in una intervista a La Gazzetta dello Sport. Confessa che le ha fatto vivere un inferno, che in tutto questo le vere vittime sono lei e la loro figlia Margaux. Frank era diventato insopportabile e pericoloso: assumeva droga per dimenticare tutto il contorno, inconsapevole che così facendo alimentava il mostro che lo stava divorando dall’interno. Si assentava per giorni, a volte anche venti consecutivi: partiva senza telefono e senza avvertire nessuno, tornava dopo settimane dicendo di esser stato a pescare. Le perquisizioni lo segnarono nel profondo. “Com’è possibile che tu non veda gli sbirri davanti alla porta di casa?”, urlava stupito e consumato nei confronti di Sarah. Alla porta non c’era nessuno, farglielo capire era però impossibile e rischioso. La donna fu costretta a tornare dai genitori, al sostentamento di figlia e nipote ci avrebbero pensato loro. Frank, ogni tanto, si presentava da loro, sotto casa, tentando il tutto per tutto: ormai Sarah lo conosceva fin troppo bene, sapeva che un eventuale cambiamento sarebbe durato soltanto un paio di mesi.

“Voi avete conosciuto il Vandenbroucke dal talento immenso, che vinceva le grandi corse. Io, purtroppo, ho vissuto solo la parte più triste della sua carriera e della sua vita. Non riesco a provare pena per lui”.

Lo sport occupa ormai una fetta marginale del suo tempo. C’è un ritorno di fiamma nella primavera del 2003, quando chiude secondo al Fiandre e undicesimo alla Liegi. Per il resto, buio profondo. Nell’ottobre del 2009, senza squadra per la stagione successiva, decide di passare qualche settimana di vacanza in Senegal. La città è Saly, l’hotel è La Maison bleue. Vandenbroucke è con Fabio Polazzi, ventiquattro anni, amico e collega del belga. La notte, però, non la passa con lui ma con una donna. Le ore successive sono ormai materiale da archivio, indagini risolte. Lui che torna in albergo con la ragazza, lei che alle quattro scende alla reception per farsi dare un asciugamano perché Frank ha vomitato, la morte che lo viene a trovare definitivamente dopo un lungo corteggiamento. È il 12 ottobre 2009. Vengono fermate diverse persone, la donna addirittura accusata prima di omicidio e furto, poi soltanto del secondo, dato che le vengono trovati addosso un bel po’ di soldi e due cellulari. Salobe Ngingie, il procuratore della regione di Thies che coordina l’inchiesta, ad autopsia fatta non ha più dubbi: doppia embolia polmonare insieme con un problema cardiaco già presente, il braccio sinistro più che un arto sembra un muretto crivellato da proiettili. Vandenbroucke, in men che non si dica, assurge a mito maledetto, la leggenda che adesso riguarda tutti, l’immortale diventato tale proprio perché scomparso in giovane età, senza più la pena (o il privilegio, chi lo sa) di dover (o poter) invecchiare. Il James Dean del ciclismo, come venne fulmineamente ribattezzato, non c’è più.

Secondo Jean-Luc, lo zio, “un tale epilogo era triste da immaginare ma facile da prevedere”.

Il padre, Jean-Jeacques, mette in risalto con lucidità ammirevole un aspetto del quale si parla sempre troppo poco: “L’unica cosa di cui si può discutere è aver promosso Frank professionista a soli diciannove anni, forse era un po’ troppo fragile, ma nessuno può discutere le sue vittorie e la sua classe. A quell’età sono in mano a direttori sportivi, manager, team. Sarebbe stato meglio che fosse passato professionista a ventidue o ventitré anni, come tanti, con un po’ più di maturità”. Sembra di risentire le parole di Robbie Fowler, controversa leggenda del Liverpool. Soprannominato God non ancora ventenne, nel giro di poche stagioni passò da ridicolizzare le difese avversarie a rendere ridicolo se stesso, spesso anche in pubblico. Nel corso di un’intervista rilasciata al Daily Mail nel 2013, Fowler consegnò ai posteri una grande verità che riguarda direttamente il mondo dello sport:

“Io volevo solamente scendere in campo e giocare a calcio, non ero preparato per essere un modello da seguire”.

Qualche settimana prima di morire, Frank Vandenbroucke venne intervistato da Cyclingnews. Lo scenario era quello svizzero di Mendrisio, dove proprio in quei giorni si stavano disputando le varie prove del campionato del mondo. Il belga, come detto ancora senza squadra per la stagione successiva, era fermo dal 24 giugno, dalla Halle-Ingooigem, sedicesimo: sarebbe stato l’ultimo giro di giostra. Si dichiarava un uomo nuovo: ripulito, rinfrescato, rifiorito, rinvigorito. Avrebbe seguito il mondiale per la televisione belga, ruolo che aveva già ricoperto per tutta la durata del Tour de France. Anche l’Het Nieuwsblad gli riservava spesso una colonna. Insomma, come raccontò lui stesso, “sento appetito e voglia di vivere”.

Condannò il Vandenbroucke del passato, definendo disgustosa la condotta di vita che ha portato avanti per diversi anni. “Sto riscoprendo una bellissima persona”, affermò soddisfatto come non gli capitava di essere da anni. Non fece del tutto in tempo, purtroppo. L’ultima domanda, a rileggerla oggi, fa venire il sangue amaro: Frank, credi nel destino? “Chi, io? No, non credo nel destino”. Perché esso si manifesti, non è importante crederci o no. E ormai era troppo tardi, per tutto: se anche c’avesse creduto, non sarebbe cambiato nulla.

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