L’Uomo di Gavia



Spettri di van Der Velde. Dalla vita alla morte, e ritorno.
“Quel metro di neve sulle Lepontine Retiche
Affrontato con una bicicletta al posto della slitta
Vale quanto l’alpinismo estremo senza bombole d’ossigeno
Tra le inviolate vette del Pamir”

Offlaga Disco Pax – Tulipani.

Anni Novanta. Johan lavora in cantiere assieme a operai e manovali. Nessuno sa chi sia davvero e lui non vuole dire niente. A capo basso fatica come un mulo, ma sempre in silenzio. Non sanno il suo indirizzo, né che vita faccia. E anche lui vuole scordarsi di tutto per ricominciare. Ma è quando chiude gli occhi alla sera e si accuccia sul letto scarno della sua casa popolare, solo allora tornano alcune immagini della vita, quella vissuta davvero senza sconti e che niente ti ha perdonato.

Lui bambino e il padre che tornava a casa con qualche pezzo trafugato a lavoro: fu quello che lo condizionerà poi, quell’esempio. Lo sguardo del babbo, quello dei poliziotti che lo presero proprio a rubacchiare negli uffici postali col fratello. E le altre piccole truffe. I volti impassibili dei secondini e il carcere. Le cambiali firmate per tentare di non vendere la villa dove vivevano lui e la moglie Josée.

Poi gli appartamenti anonimi, le cure ospedaliere, il rifugio nella fede come ultimo appiglio dopo esser finito fra le braccia delle anfetamine. E le altre braccia, quelle delle grandi gru del cantiere che d’inverno, appena vi cade qualche fiocco di neve, somigliano ad altro.

Si interrompe il lavoro, mentre cade quella neve. La neve…La neve assolve ogni peccato, dai tradimenti e dalle amicizie sbagliate, la neve assolve più di un credo e catapulta Johan a quel giorno lontano, all’Italia, quando il suo nome non era taciuto come adesso, ma urlato da sconosciuti a bordo strada, gracchiato alle radioline che raccontano un qualcosa di terribile.

Van Der Velde. Adesso Johan si ricorda il suo nome completo, rammenta chi è stato. I fiori violetti affiorati ai campi vicino al cantiere, gli stessi coperti dal nevischio che cade. Come i fiocchi sul viola della sua maglia ormai ghiacciata sulla schiena.
Johan è un corridore, un ciclista al Giro d’Italia del 1988. 5 Giugno, si corre la Valmalenco-Bormio. Ci sono da scalare Gavia ed Aprica e si parte con l’equipaggiamento di stagione.

C’è solo Mike Neel, direttore sportivo della 7-Eleven, che fiuta la possibile tregenda e compie alcune scelte semplici ma decisive per portare il suo pupillo, Andy Hampsten, all’attacco del Giro. Bistecca a colazione, utile per l’ultima parte di gara. Uomini seminati lungo tutto il percorso con abiti asciutti presi in un negozio di sci. Inoltre fa spalmare sul corpo dei corridori grasso di lanolina e consegna guanti e passamontagna. La previsione di Neel appare perfino esagerata, perché quando i corridori iniziano ad attaccare il Gavia il tempo è inclemente ma piove soltanto, come in centinaia di altre occasioni.

Johan intanto sente la gamba girare completa, lui che ha indosso solo la sua maglia ciclamino. Ma è quella, adesso, l’unica cosa importante al mondo. La maglia della classifica a punti che vuole portare ostinatamente alla cronometro conclusiva di Vittorio Veneto.

Metà salita, Lagonero, van Der Velde attacca incurante di tutto e tutti. Il Passo Gavia è un mito quasi scordato. Si scala al Giro per la prima volta dopo quasi trent’anni dal leggendario duello tra Charly Gaul e Massignan. Johan è davanti mentre Hampsten e Breukink inseguono lungo il serpente di strada delle Alpi Retiche. Eppure qualcosa sta cambiando, metro dopo metro: la pioggia diventa neve, tanto che la sua testa pian piano diviene bianca. È solo e nudo con la sua maglia ciclamino a proteggerlo.

Sbuffa, fatica, pencola, ma avanza senza curarsi della bufera in cui stanno precipitando i corridori. Gli spettri del Gavia salgono al contrario i gironi danteschi della rupe. Hampsten dietro è protetto dagli abiti di quel previdente Neel che scopre di aver avuto ragione. Chioccioli in maglia rosa è staccato. Breukink si fa sotto allo statunitense, van Der Velde è vicino alla vetta ormai, ancora in testa. Tutti a quel punto credono che la tappa venga annullata, o quantomeno fermata in cima alla salita. Ma patron Torriani non vuole: «Lo spettacolo deve continuare e i corridori devono soffrire per lo spettacolo».

E che spettacolo, o dramma, sia. Saronni piange a bordo dello sterrato intirizzito, Savini non vuole continuare e come lui qualche decina di corridori che si stanno già ritirando. Madiot sverrà dopo l’arrivo; Bernard, la prima maglia rosa dell’edizione, si attaccherà invece a una bottiglia di whiskey.

Cima del Passo Gavia: Johan passa solo, con la sua maglia ciclamino divenuta candida. Lo vogliono fermare, lui si succhia le mani e blatera qualcosa di incomprensdibile in evidente stato confusionale; non connette quando si fa spazio prendendo a manate chi cerca di fermarlo. Lui e la sua giornata leggendaria imboccano in modo folle la discesa verso Bormio. Hampsten passa a un minuto e in discesa riprende Johan.

I freni sono ghiacciati, di tanto in tanto compare la scritta “tornante” e allora si staccano i piedi dal pedale per fare attrito e rallentare. Tifosi e meccanici sono in mezzo alla pista poiché si crede che i corridori siano stati fermati. Invece di tanto in tanto qualcuno compare, mentre si spala la neve. Ecco i primi! Ora Hampsten è da solo.

«Per un po’ ho fatto la discesa con van Der Velde», dirà l’americano. «Poi è scomparso». Johan è congelato, prossimo all’assideramento. Si infila in un camper a bordo strada. Gli gettano addosso due o tre coperte. Non parla, gli occhi nel vuoto e la paura di morire. «La natura fu più forte di me».

Ripartirà con calma, riprese le funzioni vitali arrivando al traguardo con quarantasette minuti di ritardo sull’altro olandese, Breukink, che andrà a precedere Hampsten di sette secondi. «I magri come Chioccioli hanno perso anche l’anima», dirà Algeri, direttore sportivo della Del Tongo.
«Ho vinto, ma nessuno se lo ricorda», ha detto spesso scherzando Breukink. «Tutti parlano sempre di van Der Velde, e credo sia giusto così». Leggenda e tragedia della montagna che lo ha accolto, elevato e stritolato, che lo ha reso “l’uomo di Gavia”. Così lo chiamano in Olanda oggi.

La riabilitazione è completata, ormai. Dopo il ritiro, la droga, i furti e le rapine, dopo il gioco d’azzardo e i ricoveri. Dopo tutto il male delle anfetamine e la miseria per aver perso case e trofei. Dopo il lavoro al cantiere quando voleva essere anonimo, dove inizia questa storia incredibile e immortale, di quelle che solo il ciclismo è in grado di offrirci.

Anni bui, «un volo tetro», così definisce la sua scesa agli inferi. Ma essendone riemerso non teme più di parlarne. Già nei primi duemila lo si vedeva accompagnare il figlio alle corse juniores, fino alla collaborazione con la Quick Step e con la Rompoot nel 2015, quando ha iniziato ad accompagnare i giovani corridori nelle trasferte col pullman della squadra.
Vinse una Liegi, una Freccia del Brabante, tappe al Tour; gran corridore, ma scapestrato e scostante. Eppure, avesse anche vinto un Giro, c’è da scommetterci che sarebbe ricordato solo per quello. Per essere divenuto “l’uomo di Gavia”, con questa piccola preposizione a connotarlo re di un ciclismo nemmeno secolare, addirittura preistorico. Come se nascesse, vivesse e morisse lì.

Johan ne va fiero, noncurante di esser passato per pazzo, per uno che mette a rischio la vita pur di conservare il sogno di una maglia, pur di giungere solo sulla vetta che crea storie e leggende. «Mi dispiace non aver vinto quel giorno, ma rimane l’eroismo. Ovunque mi trovi sono sempre ricordato per il Gavia. Qualsiasi conferenza, qualsiasi intervista finisce per riportarmi lì. Sono legato per sempre a quella montagna. Alla maglia ciclamino, alla mia fuga in mezzo alla neve. Non ho vinto, è vero, ma quello che feci può bastare». Parola dell'”uomo di Gavia“.

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