Dražen Petrović secondo il fratello "Aco"
Il 22 ottobre di 57 anni fa nasceva Dražen Petrović, nostro idolo come possono esserlo soltanto i fuoriclasse che hanno l’età per essere non genitori e non figli, ma nostri fratelli maggiori. Un pretesto come un altro, visto che quasi ogni giorno può essere collegato ad una sua partita o ad un suo record, per pubblicare un capitolo del nostro Gli anni di Drazen Petrovic, libro di inaspettato successo e in cui abbiamo messo l’anima: non che le cose siano collegate, anzi, però ci ha fatto piacere. Come ci fa piacere ricordare un ragazzo che abbiamo anche intervistato, senza brillare per la qualità delle domande, e che abbiamo conosciuto meglio grazie alla disponibilità del fratello Aleksandar detto Aco (da noi Aza), che da poco ha dato le dimissioni da allenatore di Pesaro.
- Come è iniziato tutto? In quale modo la pallacanestro è entrata nella vostra famiglia?
Il merito è del mio professore di educazione fisica delle scuole medie, Ivica Slipcevic. Grandissimo appassionato, faceva anche l’arbitro. Mi ha trasmesso l’amore per questo sport e di lì a poco sono entrato nel settore giovanile del Šibenka.
- Quindi i vostri genitori, Biserka e Jole, non c’entrano…
Assolutamente no, non erano interessati né al basket né allo sport in generale. Come attività extrascolastica ci avevano anzi iscritto a una scuola di musica. Io avrei dovuto studiare clarinetto, Dražen chitarra e solfeggio. A un certo punto non mi presentai più, preferendo passare i pomeriggi a giocare a basket, ma lo scoprirono dopo quattro mesi. Dražen invece fu più diligente, ma abbandonò presto anche lui la strada della musica.
- Da bambini quali erano i vostri idoli cestistici?
Della NBA nessun aveva mai sentito nemmeno parlare, io mi appassionai alla squadra che nel 1970 vinse il campionati del mondo a Lubiana. Dražen iniziò a giocare seguendo me, spesso lo portavo ai miei allenamenti. Poi andando avanti diventai un grande fan di Kićanović, mentre Dražen non aveva idoli… a parte me!
- È vero che Dražen bambino aveva problemi di salute?
Sì, alla schiena e alle anche. Poi risolse tutto con il nuoto e con esercizi che eseguiva ogni giorno. Si può dire, non solo in questo senso, che si sia costruito da solo.
- Quindi quella di Dražen ragazzino senza particolare talento non è una leggenda…
Si capiva subito che aveva doti eccezionali, da adolescente gli mancava solo un po’ il tiro dalla lunga distanza, ma poi direi che è migliorato… Per il suo tipo di gioco, fatto di finte e penetrazioni, a livello giovanile il tiro non serviva. No, il talento c’era e tanto. Ma la differenza l’ha fatta la sua applicazione.
- Il soprannome di ‘Kamenko’, pietraio, davvero gli è stato dato?
Non è mai stato un suo soprannome, ma un modo scherzoso in cui lo chiamavano gli amici durante il gioco. Non è proprio mai esistito nemmeno ‘Diavolo di Sebenico’, per lo meno in Jugoslavia. Alla fine l’unico vero soprannome è ‘Mozart’, merito del giornalista della Gazzetta dello Sport Enrico Campana. Non so come, gli capitò in mano un articolo di Campana e Mozart gli piacque subito. Noi più vicini a lui lo abbiamo invece sempre chiamato Mali, cioè ‘Piccolo’.
- Quali scuole avete frequentato?
Entrambi Gimnasia Clasica, all’età in cui in America si frequenta la high school. Materie umanistiche, latino e greco, ma Dražen eccelleva soprattutto in matematica. Per i numeri ha sempre avuto una passione, così come per le statistiche. Sceglieva con moltissima cura quelli delle sue maglie, in base a ragionamenti tutti suoi.
- Era superstizioso?
Sì. Aveva una sua routine di allenamento prepartita, come tanti. Ed era legato ai numeri. Ad esempio ai Nets scelse il 3, in onore del nostro numero civico in via Preradović a Sebenico e anche come messaggio all’intera NBA: nessuno avrebbe tirato da tre come lui. A proposito della superstizione di Dražen, mi viene in mente spesso un episodio inquietante. Ai Giochi di Seul '88 nel villaggio olimpico c’era una maga che leggeva il futuro agli atleti: un po’ per scherzo e un po’ no, Dražen insieme a Vranković e a Goran Ivanisević, che aveva solo 17 anni, se lo fece leggere. Per Vranković e Ivanisević frasi generiche, ma quando fu il turno di Dražen la maga cambiò espressione e gli disse che avrebbe dovuto vivere ogni momento della sua vita come se fosse stato l’ultimo. Non dico che Dražen rimase spaventato, ma turbato sì. E pensò spesso a quella serata a Seul. Se possibile, il suo impegno nella pallacanestro diventò ancora più intenso e totale.
- Nel 1976 la vostra vita cambia per sempre, lei va al Cibona mentre il dodicenne Dražen entra nel Šibenka… I vostri genitori erano contenti?
Diciamo che non ci hanno ostacolato nell’inseguire i nostri sogni… A casa nostra erano venuti Pino Gjergja da Zara e Pero Skansi da Spalato, ma fin da subito fui convinto da Mirko Novosel: mi fece tanti complimenti, disse che ero il miglior giovane jugoslavo e che avrebbe lasciato la nazionale per creare un grande Cibona. Feci la scelta giusta, anche se subito mi ammalai: persi di fatto un anno per una febbre reumatica e un altro per la mononucleosi. Anche da guarito ebbi un calo fisico e Novosel mi cambiò di ruolo, da guardia a playmaker.
- Alla fine degli anni Settanta seguì quindi la crescita di Dražen da Zagabria: chi fu decisivo nel salto d qualità?
Con tutto il rispetto per gli allenatori, prima di tutto lui stesso. Dražen si è costruito da solo, con un’applicazione che non avrei più visto in alcun altro. Certo un grande ascendente su di lui ebbe Slavnić, per il suo modo di stare in campo e per il coraggio di farlo esordire in prima squadra a 15 anni.
- Il Baldekin era il campo più difficile della Jugoslavia? La storia di quel Šibenka si incrocia a quella di rimonte incredibili…
Era di sicuro un campo caldissimo, anche se a quell’epoca c’era in questo senso una bella concorrenza. A Zara, ad esempio, ma non solo. Al Baldekin avevi la sensazione che avessero venduto il doppio dei biglietti, rispetto alla capienza. E forse non era una sensazione…
- Era lì a Sebenico per la gara-3 della finale 1983?
In prima fila, insieme con due amici venuti con me da Zagabria. Partita incredibile, un clima di enorme tensione. Poi festeggiammo tutta la sera. Il mattino dopo, tornando a Zagabria, ascoltai alla radio la notizia della ripetizione della partita… non ci volevo credere, ma a quei tempi il Bosna era una squadra potente e soprattutto Sarajevo era una città a cui concedere tutto in vista delle Olimpiadi.
- Perché Dražen decise di fare il servizio militare a 19 anni al contrario di lei, ad esempio, che lo fece a 26?
Riteneva finita la sua ascesa con il Šibenka, dopo quel campionato vinto e poi tolto. Desiderava voltare pagina e sapeva che tutti i grandi club jugoslavi lo volevano, oltretutto c’era anche qualche offerta dalla NCAA. Per lui comunque quello del militare non fu un anno buttato via: imparò a vivere lontano da casa, perse quei cinque chili di troppo che la cucina della mamma gli aveva dato, diventò più atleta e lavorò moltissimo sul tiro. A Pola poi non era da solo, ma c’erano anche Perasović e una buona squadra almeno per allenarsi. Così quello che si presentò ai Giochi del 1984 era un Dražen nuovo, ancora più forte di quello dell’anno prima.
- Si sarebbe tornati a parlare del fisico di Dražen all’inizio della carriera NBA.
Purtroppo in quell’occasione fece un grave errore, massacrandosi di pesi per tutta l’estate 1989, dopo l’oro europeo vinto a Zagabria. Si era messo in testa che per reggere fisicamente la NBA avrebbe dovuto guadagnare almeno diversi chili di muscoli, un’idea che poi si sarebbe rivelata sbagliata. Ma va detto che anche se le partite NBA ormai si riuscivano a vedere anche in Europa, circolavano nella nostra pallacanestro convinzioni basate sui tempi in cui la NBA non si vedeva. Una di questa riguardava proprio la muscolatura. Non si può giocare nella NBA quando si è magri come Dražen, dicevano alcuni presunti esperti. Forse per altri tipi di giocatore avrebbero avuto ragione. Invece il gioco di Dražen è sempre stato basato su tecnica, creatività, scelta di tempo. Devo dire che un certo punto, il primo anno a Portland, era convinto di dover mettere su ancora più muscoli: parlandomi al telefono, faceva sempre il confronto con il fisico di Drexler. Per fortuna si rese conto dello sbaglio e nell’estate del 1990 fece tutto un altro tipo di preparazione, tornando in pochi mesi agile come prima, ritrovando la velocità per uscire bene dai blocchi. È anche per questo che ai Nets ha poi fatto grandi cose.
- Come è stato per voi essere prima giovani promesse e poi campioni in un Paese comunista?
Quasi non ce ne siamo accorti, del comunismo. La passione per la pallacanestro era così grande che pensavamo solo a giocare, senza valutare quanto si guadagnava. E poi la Jugoslavia non era certo l’Unione Sovietica…
- In casa Petrović ci si sentiva più croati o jugoslavi?
Nostra madre è croata, nostro padre di origine serba. Ma il punto è che per quasi tutti gli sportivi jugoslavi il nazionalismo non è mai stato un problema quasi fino alla fine della Jugoslavia stessa. E anche la maggioranza della popolazione la pensava così…. L’Europeo del 1989, vinto in casa a Zagabria, fu seguito con un entusiasmo mai visto prima nonostante in campo ci fossero serbi come Divac e Danilović.
- Ecco, Divac. Parliamo di Once Brothers?
Parliamone, anche se non c’è molto da dire. La verità è che i rapporti fra Dražen e Vlade erano sempre stati buoni, fino a quell’episodio della bandiera (ustascia) al Mondiale del 1990. Da quel momento in poi Dražen è stato sotto una pressione incredibile, non solo a causa di Divac. Era intanto scoppiata la guerra, alcuni amici di Dražen stavano combattendo e Sebenico era sotto i bombardamenti. Come detto, noi siamo di famiglia mista, ma Dražen in quei mesi si sentì obbligato a prendere posizione. E la prese, rompendo amicizie di anni come quella con Divac. La sua famiglia e i suoi amici erano in pericolo di vita, che cos'altro avrebbe dovuto fare? Fu molto lineare, da un giorno all’altro tagliò le comunicazioni con Divac e con altri.
- In definitiva, vi sentivate più croati o più jugoslavi?
Nel mondo in cui siamo cresciuti le due cose non erano in contraddizione. Ricordo con orgoglio il quintetto-base del Mondiale 1970, tutto di croati, ma la nazionale rimaneva la Jugoslavia.
- Come avete vissuto la guerra voi rimasti in Croazia? È vero che Dražen vi voleva portare in America con lui?
Vero, era preoccupatissimo per noi e non solo per noi, ma non volevamo scappare. Io fra l’altro avevo iniziato ad allenare il Cibona, in circostanze abbastanza difficoltose visto che facevamo base in Spagna, vicino a Cadice. Ma non me ne sarei andato in ogni caso.
- Torniamo al 1984, all’arrivo di Dražen al Cibona… Qualcuno davvero credeva nella Coppa dei Campioni, superando le due italiane (Banco di Roma, campione uscente, e Virtus-Granarolo Bologna), il Real Madrid, il Maccabi Tel Aviv?
Tutti eravamo consapevoli della nostra forza, anche senza americani in squadra. E poi c’era Dražen. Novosel capì subito che non avremmo dovuto giocare come le altre squadre del tempo, se volevamo sfruttarne al massimo il potenziale. Il nostro gioco offensivo era semplice: isolamenti, uno contro uno, scarichi. È chiaro che quando Dražen batteva il suo marcatore diretto, cioè sempre, poteva fare di tutto: la difesa convergeva su di lui e c’erano almeno due di noi liberi da qualche parte. Era un gioco contro cui gli avversari, anche quelli con un maggior numero di difensori forti, non avevano contromisure: fu così che riuscimmo a battere il Real Madrid anche la terza volta, in finale, nonostante ormai ci conoscesse bene.
- Quel Cibona non era certo famoso per la difesa…
È vero, ma tutto va inquadrato nel basket di quegli anni. Faccio un esempio concreto. Pochi giorni dopo la vittoria in Coppa dei Campioni arriva a Zagabria, un sabato, il Partizan Belgrado. Siamo stanchi per viaggi e festeggiamenti, il rischio di una brutta figura è alto. Risultato del primo tempo: 72 a 50 per noi. Va detto che le difese sembravano più deboli anche perché c’era un numero più alto di giocatori di talento. Quanto a Dražen come singolo, nonostante i luoghi comuni è sempre stato un buon difensore e alla fine lo ha dimostrato anche nella NBA.
- Gara-3 contro lo Zadar il ricordo più amaro nei quattro anni di Dražen al Cibona? Con il senno di poi, avrebbe dovuto giocare Gara-2?
Forse sì, ma nello sport le decisioni vanno prese sul momento. Dražen aveva male a una caviglia, ma soprattutto aveva già in stagione due falli tecnici e al terzo sarebbe scattata la squalifica. Fu indeciso fino all’ultimo, poi Novosel lo convinse dicendo che a Zara avremmo avuto due arbitri ostili al Cibona e che quindi non valeva la pena di rischiare. Poi, è andata come è andata: di certo quella partita ci ha tolto un’altra possibile Coppa dei Campioni.
- Com’era l’atteggiamento del resto della Jugoslavia nei confronti di quel Cibona che vinceva in Coppa dei Campioni?
Bellissimo, venivamo applauditi ovunque anche se poi durante la partita il tifo era per la squadra di casa. Quando arrivavamo noi in una città era come se fossero arrivati i Beatles, non esagero: per un certo periodo andò proprio così.
- Il Dražen del Cibona è anche quello dei numeri da giocoliere davanti ai difensori e delle provocazioni, su tutte il famoso aeroplano…
Ma l’esultanza ad aeroplano l’avevo inventata io qualche anno prima, contro la Virtus Bologna. A Dražen piacque così tanto che decise di riproporla…
- Contro i club dei Paesi più ricchi, come Italia e Spagna, avevate motivazioni particolari?
Indubbiamente sì, anche perché per molti era l’unica occasione di farsi vedere all’estero. Fu dopo la finale di Coppa della Coppe 1987, in cui battemmo la Scavolini a Novi Sad, che Valerio Bianchini mi propose un contratto da 120mila dollari l’anno. Non avevo mai guadagnato, anche mettendo insieme tutti gli anni da professionista, la metà di quei soldi…
- Quanto guadagnava Dražen al Cibona?
Il miglior contratto è stato quello del quarto anno: 36mila dollari e la gestione del bar vicino al palazzetto. Il più forte giocatore europeo che guadagnava 36mila dollari a stagione, cifra modesta anche per quei tempi. Ancora adesso impazzisco se penso a quei 36mila… perché non 30 o 40mila? Fino a quando è andato al Real Madrid, che gli propose un totale di un milione di dollari per tre anni, Dražen non aveva guadagnato praticamente niente.
- In cosa è diverso rispetto ad oggi il basket europeo dominato da quel Cibona?
Negli anni Ottanta se non avevi tecnica nemmeno potevi scendere in campo, a livello internazionale. Da lì poi si lavorava sul fisico, per migliorare e fare il salto di qualità. Oggi avviene il contrario: se non sei un atleta difficilmente vieni preso in considerazione, da lì poi si cerca di costruire una tecnica individuale e una capacità di vedere il gioco. Sono due prospettive diverse, difficile dire quale sia la migliore anche se dal punto di vista del pubblico era molto più spettacolare il basket degli anni Ottanta: Dražen sarebbe stato grande in entrambe le epoche. E penso valga anche per quel Cibona, per la sua capacità di colpire i punti deboli degli avversari.
- Di che cosa si interessava Dražen fuori del campo?
Al 90% la testa di mio fratello era dedicata alla pallacanestro, così come il suo tempo. Il restante 10% era per i pochi amici veri, di Sebenico e Zagabria. Si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza, ma dopo due anni ha capito che non poteva andare avanti seriamente e ha lasciato. Quanto alle attività imprenditoriali, alla fine tutto si riduceva alla gestione di un caffè delegata ad altri. Raccontare il Dražen al di fuori della pallacanestro è molto difficile e nemmeno sarebbe giusto, la gente questa sua devozione l’ha capita e apprezzata sempre.
- Dražen è stato un personaggio di culto anche quando era vivo, creando anche in un Paese formalmente comunista meccanismi divistici… È vero che è stato il primo ad avere una Porsche in Jugoslavia?
Le Porsche gli piacevano, ma fino a quando non ha firmato con il Real Madrid non se le è potute permettere… In generale era però un personaggio conosciutissimo anche da chi non seguiva il basket, nonostante fuori del campo facesse parlare poco di sé.
- In una vita dedicata al basket c’era spazio per le donne?
Dražen è stato per anni fidanzato con Renata, una ragazza di Zagabria, che poi è andata a vivere con lui anche a Madrid. La storia importante della sua vita è stata quella.
- Più fonti riferiscono che Dražen nel 1993 avesse intenzione di tornare a giocare in Europa, deluso dalla scarsa considerazione che gli addetti ai lavori NBA avevano di lui. È vero?
No, Dražen ancora non aveva deciso. Pochi giorni prima della sua morte mi parlava delle varie offerte NBA: Houston Rockets e New York Knicks, fra le squadre che lui riteneva da titolo, più altre fra cui gli stessi Nets. È vero che lui era arrabbiatissimo per la mancata convocazione all’All-Star Game, ma l’essere stato eletto nel terzo quintetto della lega gli aveva detto che la sfida alla NBA era vinta e che era il momento del salto di qualità ulteriore, cioè portare una squadra al titolo. Dall’Europa arrivavano tante offerte. Se avesse deciso di tornare, quasi certamente sarebbe andato al Panathinaikos, ma la sua prima opzione rimaneva la NBA.
Che cosa rappresenta Dražen Petrović oggi?
Un grande modello per le persone che amano la pallacanestro, da giocatori o da spettatori. E in Croazia anche molto di più: grazie anche all’impegno di nostra madre, al museo, a tante iniziative, tutti consideriamo Dražen ancora qui fra di noi.
(intervista contenuta nel libro Gli anni di Dražen Petrovic – Pallacanestro e vita, di Stefano Olivari, pubblicato nel 2015. In vendita in libreria e su Amazon, in formato cartaceo e Kindle).
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