3. L’Urlo sull’Alpe (Tour 1997)
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Sky Sport ©
L’Urlo.
Nell’arte Edvard Munch, nella letteratura Allen Ginsberg, nel calcio Marco Tardelli.
Il suo, sull’Alpe, è però diverso.
Vittorioso e liberatorio sì, ma più la rabbia e l’orgoglio che un inno alla gioia.
A metà tra il furore iconoclasta del Maradona invasato a USA ’94 – occhi spiritati in camera dopo il suo 3-0 alla Grecia – e la tormentata estasi dell’altro Marco, l’azzurro-mundial di Madrid ’82.
E liberato non a braccia levate ma a pugni alzati, che è «altro». Una storia diversa. Una seconda vita.
L’angoscia esistenziale e l’agonia mentre il mondo attorno si deforma – il disperato, alienato Skirk del “folle” norvegese – sarebbero piombate sì, con la loro «torrida tristezza» ma due anni dopo.
A Campiglio ’99, sopra il giorno di dolore che uno ha.
Quello sull’Alpe d’Huez ’97, da lui domata per primo al Tour per la seconda volta in due anni, è più Urlando contro il cielo. Un lacerante grido di protesta – come The Owl, dedicato al poeta beat Carl Solomon, lui sì internato – di cui non si ha, ancora, piena contezza. Nessuno può averne. I demoni, quando li senti o vedi arrivare, è già troppo tardi.
L’Alpe. La chiamano “la montagna degli olandesi”, perché sono quelli che l’hanno conquistata più volte (otto contro le nostre sette), e pazienza se non ci sono più riusciti da Gert-Jan Theunisse ’89 (e noi da Beppe Guerini ’99). Ma anche perché da giorni prima la affollano e colorano di oranje, e la inondano – pure troppo – di birra. E purtroppo, in quest’epoca di sempre più deleteria calcistizzazione del tifo anche ciclistico, l’asfissiano di fumogeni e la invadono di mitomani.
Per referenze visionare le lastre alle vertebre di Vincenzo Nibali, che dal 2018 – tirato giù con una bretella da un improvvisato fotografo – non è stato più il miglior lui. Quell’incidente, prima ancora della clavicola rotta nell’umida discesa a Rio, gli costerà, se non vogliamo dire l’oro del belga Greg Van Avermaet, un podio olimpico ormai sicuro.
Da allora, fumogeni vietati durante il passaggio della corsa. Al Tour, a fatica ma l’han capito. Alla Sanremo, sin dal 2016 specie su Berta e Poggio, ancora no. O se sì, mai abbastanza: nel 2019 i primi cinque daspo con divieto di accesso per un anno a manifestazioni ciclistiche. Per gente così, meglio mai che tardi.
La 13ª tappa, sabato 19 luglio, parte da Saint-Étienne con Jan Ullrich, che quel Tour lo dominerà, in maglia gialla.
L’ha sfilata, con un’autorità soggiogante, al francese Cedric Vasseur, con la sua impresa più maestosa: stravincendo il tappone pirenaico Luchon-Andorra/Arcalís alla decima, il 15 luglio.
E poi se l’è cucita addosso con un’impressionante dimostrazione di potenza – à la Indurain – nella crono di 55 km molto duri di Saint-Étienne, coperti a 43,100 km/h di media.
«Il problema non è stabilire se vincerà questo Tour, ma quanti Tour vincerà» aveva profetizzato – con poca fortuna – il leggendario Bernard Hinault, all’epoca ambasciatore della Grande Boucle vinta in carriera per cinque volte come solo Anquetil e Indurain.
Tutto però allora faceva pensare che le Blaireau avesse ragione da vendere.
Al via, quattro giorni dopo, il tedesco della Telekom comanda con 5’42” sul francese in maglia a pois Richard Virenque, 8’00” sullo spagnolo ex iridato Abraham Olano e 8’01” sul danese Bjarne Riis, vincitore uscente e ormai ex capitano del suo fu gregario Ullrich.
Marco Pantani è quinto a 9’11”. Ma su quei 21 tornanti ha già trionfato due anni prima, e culla sogni di bis.
È in crescendo di condizione. Alla nona, la Pau-Loudenville, ha fatto terzo arrivando con i big Virenque e Ullrich a 13” dal vincitore Laurent Brochard, che di lì a tre mesi, il 12 ottobre a San Sebastián, diventerà uno dei campioni del mondo più improbabili (e dimenticabili) della storia.
E nella crono, duretta assai, non solo ha tenuto chiudendo a “soli” 3’42” dal leader Ullrich, ma sui 14 km di salita ha fatto segnare il miglior tempo. Grazie al saggio cambio-bici e usando, una volta tanto, il cardiofrequenzimetro, è riuscito anche a gestirsi, per non andare troppo fuori giri, proprio in vista del tappone dell’Alpe. Il suo territorio di caccia.
Lassù, debuttante al Tour nel 1994 nella tappa vinta dal suo futuro gregario Roberto Conti, aveva scalato i 13,8 km (al 7,9% di pendenza media) a tempo di record: 38’00”.
Tempo di appena 4” superiore quello con cui, l’anno dopo, aveva trionfato lasciando a 1’24” la maglia gialla Miguel Indurain, prossimo a conquistare il suo quinto e ultimo Tour consecutivo, e a 1’26” Alex Zülle e Bjarne Riis.
«Non ho risposto a Pantani perché ho capito subito che l’avrei pagata cara – ammise al traguardo il navarro – I suoi scatti fanno male e a me interessava mettere in difficoltà Zülle e Riis, anche se è sempre un rischio concedere troppo spazio a uno scalatore forte come Marco». Parafrasando un suo connazionale, ex portiere del Juvenil B merengue piuttosto intonato: non sono un Pirata, sono un signore.
Nel ’97, che il Panta fosse pronto all’assalto-bis, se n’era accorto – già a Perpignan, il mercoledì, 11ª frazione – pure Jean-Marie Leblanc. «Che bel regalo per il ciclismo ritrovare un Pantani così – aveva vaticinato il patron dell’ASO – Pensate all’arrivo dell’Alpe d’Huez: sembra fatto apposta per lui». A differenza del Tasso, sarà buon profeta.
Fino all’ascesa finale la tappa non è durissima, è solo che è lunga oltre duecento km e corsa tutta ventre a terra.
Pantani mette la sua Mercatone Uno a tirare sin dal via, e ai piedi della salita – dopo un chilometro e due tornanti – è già in testa. E con un forcing dei suoi, non la molla più.
Venti metri seduto, e poi en danseuse a rilanciare l’azione.
Ventun modi di dirti ti odio. Uno per ogni tornante, a decrescere, ciascuno intitolato a uno o più vincitori.
Qualcuno, come gli olandesi Joop Zoetemelk, Hennie Kuiper e Peter Winnen, e i nostri Bugno (#7 e #6) e Pantani (#3 e #2), ne ha due perché han fatto doppietta. “De Gentleman” Kuiper, il Gianni e il Panta addirittura in back-to-back. E una volta completato il giro, si ricomincia da 21.
Il “Pantadattilo” (cfr. Gianni Mura) vola a 23,08 km/h di media e chiude in 37’35”, 25” in meno del suo primato del ’94. E all’arrivo libera tutto quel vulcano di emozioni che gli ardeva dentro. L’Urlo, appunto.
I suoi tifosi, impazziti, stappano bottiglie non necessariamente di Sangiovese e intonano “Romagna mia”. Il quadrangolare del tifo – coi francesi per Virenque, i rumorosi, simpaticissimi rooligans danesi (che abbiamo imparato a conoscere nel loro vittorioso Euro ’92) per Riis e gli olandesi… per la “propria” montagna – lo stravincono loro. Il popolo del “Magico Pantani”, il club fondato al “Caffè dei Pini” di Cesenatico da Vittorio Savini, il suo primo diesse, alla Fausto Coppi.
È una vittoria diversa da quella di due anni prima, speciale. Perché in quei due anni erano successe tante, troppe cose.
Investito da un’auto il 1° maggio, aveva dovuto saltare il Giro ’95, ma poi al Tour s’era ripreso. E il ciclismo aveva ritrovato il campione che la voce di Adriano De Zan, in telecronaca, aveva quasi accompagnato sin sul traguardo:
«Marco Pantani che può alzare il braccio. Vince. Sembra quasi che discuta con se stesso. Sembra quasi che parli con se stesso per spiegarsi. Per raccontarsi questa splendida vittoria».
Ne descriveva, De Zan, l’esultanza composta, quasi schiva: il braccio destro alzato, un battito di mani come a scacciar via nella testa quel ronzio di un mese da incubo. «Una volta da solo – disse al traguardo – ho cercato l’impresa. Non sono ancora il miglior Pantani, più delle gambe mi ha aiutato la grinta. Ma non avrei mai mollato».
E pensare che già a Liegi, alla settima, quattro giorni prima, provato dal dolore che dal ginocchio si estendeva a tutta la gamba, aveva detto: «Stasera vado a casa». Era, quel dolore tanto persistente, un retaggio della caduta di due giorni prima, nella tappone di 261 km fino a Dunkerque. Poi il gran lavoro dell’osteopata belga Alain Piron – suggerito da un agente in Belgio della Carrera, impermeabile nel tenere il tutto nascosto alla carovana – aveva compiuto il miracolo non di rimetterlo in sella, e di farlo in modo così competitivo.
Sistemato in una seduta di un’ora e mezza il «problema biomeccanico», che non dipendeva dal ginocchio ma da un lieve spostamento del bacino, figlio dell’incidente del 1° maggio, il giorno di riposo aveva fatto il resto.
Quella del ’97 è una vittoria a sé. Un’altra cosa, non per forza “migliore” ma comunque diversa. Anche nei registri, narrativo e linguistico, scelti dallo storico telecronista RAI nel raccontarne l’arrivo:
«Il Pirata ha colpito. A due anni di distanza dalla sua ultima vittoria, il Tour de France ci ripropone un grande, un grandissimo Pantani. Oltre al gesto atletico, bisogna applaudire a Pantani, soprattutto, il fatto umano: a livello morale, questo ragazzo che ha avuto tanta, tanta sfortuna, oggi, finalmente, può alzare nuovamente le braccia al cielo. Un gesto proprio, quasi, un pugno sul manubrio. Non ha voluto alzare le braccia. Ha sferrato (in realtà gli scappa “scagliato”, ndr) un pugno contro la sfortuna. (…) E l’urlo, l’urlo di liberazione di Pantani».
Non che in classifica fosse cambiato granché, perché Ullrich – secondo a 47” – in giallo era e tale era rimasto, e così Pantani quinto, anche se non più a 9’11” bensì a 8’24”. E la maglia a pois Virenque, terzo al traguardo a 1’27” e secondo nella generale a 6’22” dal leader – restava comunque lontano e difficile da scalzare sul podio finale.
La notizia però è che il Panta era tornato: non solo a vincere, ma più ancora a divertire e divertirsi, a regalare spettacolo.
«Vado avanti senza vedere la strada – aveva raccontato, novello Mosé sul mar arancione, a Pietro Cabras, inviato di Bicisport – È il pubblico che guida, ti avvicini alla gente che piano piano si sposta, ti lascia passare, ti indica la traiettoria. Nel 1995 ho fatto l’intera scalata senza guardare l’asfalto, davanti vedevo solo la gente che urlava, migliaia di persone, andavo alla cieca in quel mare che si spalancava davanti a me».
Ci sono però ulteriori analogie tra quei suoi due Tour di resurrezione.
Ai trionfi sull’Alpe seguirono altrettante vittorie spesso sottovalutate: il 16 luglio 1995, 14ª tappa: la Saint-Orens-de-Gameville – Guzet-Neige di 164 km; il 21 luglio 1997, 15ª tappa, la Courchevel-Morzine di 208,5 km.
Una cavalcata imperiosa nata in risposta a un attacco di Tony Rominger sulla salita del Port de Lers, a oltre trenta km dall’arrivo. Anche lì, l’avrebbero rivisto sul palco premiazioni. Come a Merano e all’Aprica al Giro ’94, a Flumserberg al Giro di Svizzera e, due volte, al Tour ’95: un uomo solo al comando.
Meteo a parte (là sole a picco, qua grigio da tregenda), tutto o quasi come a Guzet-Neige ’88: un altro Carrera primo al traguardo (Massimo Ghirotto) e uno spagnolo (Pedro Delgado) in giallo. Stavolta senza lo scozzese Millar, seguito dal compianto francese Philippe Bouvatier, a sbagliare curva – dopo cento km di fuga – a pochi metri dal traguardo.
Dietro, a 2’31” il francese Laurent Madouas, a 2’33” la maglia gialla Indurain e Zülle, a 2’35” Gotti e a 3’24” Riis, gli altri big suoi rivali per un podio che il Panta – a differenza della maglia bianca – in quell’anno non bisserà. A Parigi sarà 13° a 26’20”, ma il ragazzo si farà.
L’investitura, nel fitto nebbione di Guzet-Neige, gli era arrivata nientemeno che da re Miguelón, che quel 16 luglio festeggiava il 31° compleanno: «Ha 25 anni, io ho cominciato a vincere il Tour a 27. Dovrà migliorare a cronometro e attrezzarsi con una grande squadra, ma il tempo non gli manca. È davvero forte».
Il gran navarro, capito l’andazzo (in gruppo e fuori), tempo un anno e saluterà.
«Marco Pantani si è dimostrato sulle Alpi e sui Pirenei – aveva cercato di contenersi De Zan vedendolo sbucare all’arrivo – l’uomo nuovo, il grande protagonista del ciclismo mondiale. Marco Pantani verso il secondo trionfo. Marco Pantani verso il podio di Parigi. (…) Marco Pantani che ora ha un gesto di stizza, quasi: ho vinto, ho vinto».
Due giorni dopo, giù dal Portet d’Aspet nella Saint-Girons – Cauterets, la tragica fine di Fabio Casartelli.
Al Tour ’97, abdicato il sovrano Indurain, è un altro regno. E un altro Pantani. Ma, come prima dell’Alpe, di nuovo non al meglio. Lo notte che precede il tappone di Morzine – 208,6 km con sei GPM tra cui Forclaz, Croix de Fer, Colombière e il terribile Joux Plane (10 km al 10% fino a quota 1700: nel 2017 memorabile la cotta di Fabio Aru) – tracheite e tosse non lo fanno dormire, e con lui il povero (e pur sano) Marcello Siboni suo compagno di camera.
Un altro gregario, Roberto Conti, già dalla sera aveva insistito col Panta per farlo ripartire. La mattina dopo, lo storico massaggiatore Roberto Pregnolato e il diesse Beppe Martinelli (al Tour ci si ritira solo da morti, il sunto) rifiniscono il lavorio di convincimento.
Salite facendo, come per incanto, il Pirata ritrova gamba e colpo di pedale. E in picchiata verso Morzine, affrontando le curve in discesa «meglio di Max Biaggi», trionfa con 1’17” su Virenque e Ullrich.
Gli stessi, ma in ordine inverso, che lo precedono nella generale: il tedesco in giallo, il francese a pois a 6’22”, l’italiano a 10’13”. Identico podio poi a Parigi ma con distacchi schizzati a 9’09” per Virenque e a 14’03” per Pantani.
Sugli Champs-Élysées, volata vincente di Nicola Minali. La seconda per lui dopo Le Puy du Fou alla quarta. Settima vittoria italiana nella stessa edizione come nel 1952, la prima volta dell’Alpe al Tour (vinse Coppi, noblesse oblige): doppietta filata di Cipollini la prima settimana e, a Digione, Mario Traversoni, compagno del Pirata, per squalifica degli scorretti Bart Voskamp e Jens Heppner.
«L’anno prossimo tornerò per vincere», dirà sul palco. Sarà di parola. Ma tutto era ricominciato lassù, sull’Alpe: da quel primo volo dell’Airone all’Urlo feroce del Pirata, la montagna – anche – degli italiani.
1997
Sabato 19 luglio, 13ª tappa: Saint-Étienne – L’Alpe d’Huez, 203,5 km
Alla partenza: Ullrich in giallo; Pantani 5° a 9’11”;
All’arrivo: Ullrich in giallo; Pantani 5° a 8’24”.
lunedì 21 luglio, 15ª tappa: Courchevel – Morzine 208,5 km
1995
12 luglio, 10ª tappa: Aime-la-Plagne – L’Alpe d’Huez, 162,5 km
16 luglio, 14ª tappa: Saint-Orens-de-Gameville – Guzet-Neige, 164 km
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