ELEZIONI SENZA PACE
In Costa d’Avorio si temeva che il voto avrebbe portato violenza come nelle tornate scorse. Molti hanno preferito disertare le urne e cercare il «futuro» desiderato lungo altre vie
MICHELE BOLLINO
Il Manifesto - Martedì 18 novembre 2025
Pagina 16
La parola «pace» si ripete ovunque. Sui cartelloni elettorali dei candidati, nelle radio e nelle tv. La ripete il cantante di un gruppo di musica ‘zouglou’ prima di aprire il suo concerto all’Azk Live, tempio del reggae di Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio. E anche a nord della città, in un villaggio di fango e lamiere ai bordi dell’autostrada che porta a Yamoussoukro, le parole sono le stesse. «Grazie a Dio, le elezioni sono andate bene. Altrimenti saremmo dovuti scappare nella foresta», dice un anziano.
IN COSTA D’AVORIO le ferite della guerra civile che ha sconvolto il paese tra il 2002 e il 2007 sono ancora aperte. Nel 2010 prima, e nel 2020 poi, le elezioni presidenziali erano state il pretesto per riaccendere le violenze. Un rischio che si è ripetuto anche per l’appuntamento elettorale dello scorso 25 ottobre, con i due principali candidati dell’opposizione, Laurent Gbagbo e Tidjane Thiam, esclusi dalla corsa. Ma la risposta agli appelli a scendere in piazza contro il divieto di manifestare è stata tiepida. E gli episodi violenti, seppur presenti, non paragonabili al passato.
Il risultato delle elezioni, del resto, era scontato. Alassane Ouattara, detto ‘Ado’, 83 anni, è stato riconfermato presidente del paese per la quarta volta. I voti per lui hanno sfiorato il 90%, ma il dato più rilevante è quello dell’affluenza che, nonostante il boicottaggio delle opposizioni, ha superato il 50%. Un’investitura popolare forte, arrivata nonostante le accuse di una «torsione autoritaria» contro il governo e che rasserena il clima in vista delle elezioni legislative del prossimo dicembre, che vedranno la partecipazione di numerosi candidati delle opposizioni. «La caratteristica di queste elezioni - spiega A.D., giornalista di una testata ivoriana - è stata la paura delle persone di rivivere le esperienze del passato. Nessuno, neanche le opposizioni, volevano tornare alla violenza. Dopo la loro esclusione, Gbagbo e Thiam hanno provato ad alzare la tensione, ma i loro partiti si sono spaccati e hanno presentato candidature indipendenti. Senza indicazioni chiare, in molti hanno semplicemente scelto di non partecipare».
ANCHE NEL GESTIRE il dissenso, continua A.D., le mosse di Ouattara «sono andate nella direzione della conciliazione. Ci sono state manifestazioni non autorizzate, ma la polizia è intervenuta raramente. E, quando ci sono stati degli incidenti, anche con dei morti, sono stati gli stessi candidati dell’opposizione a fare appello alla calma. Il paese sta cambiando e sta crescendo, nessuno vuole tornare indietro». Per capire il cambiamento del paese basta percorrere le sue strade. L’asfalto è impeccabile e i lunghi viali sterrati pieni di buche dove le auto rischiavano di essere attaccate dai ladri sono solo un ricordo. Da Abidjan a San Pedro, secondo porto del paese, bastano cinque ore, pochi anni fa ne servivano il doppio. E per andare a Khorogo, nell’estremo nord, si risparmia un giorno di viaggio. Ma non solo. In tanti villaggi è arrivata l’elettricità, in quasi tutti i pozzi l’acqua. E Abidjan, megalopoli in sviluppo continuo, non cela le sue ambizioni e punta a costruire il grattacielo più alto dell’Africa. Secondo I.D., professore di economia all’università di Abidjan, «la crescita della Costa d’Avorio dipende dalla politica di Ouattara di apertura nei confronti dei capitali stranieri». Una politica che coinvolge anche l’Italia che, nel Piano Mattei, ha individuato questo paese come partner strategico nell’area. Alla base di questo interesse, l’intensa attività del principale gruppo energetico italiano, Eni, che ha scoperto importanti giacimenti di gas e petrolio a largo delle coste ivoriane. «Il coinvolgimento italiano- continua I.D.- resta però minimo. La crescita è trainata dagli investimenti cinesi in infrastrutture, dagli indiani nel settore chimico e dagli arabi nell’edilizia. E questo sta diventando un problema, perché se le aziende europee pagano 10.000 franchi Cfa al giorno (circa 15 euro, ndr), quelle cinesi si fermano a 1.500. E senza orari e giorni di riposo». Ma non solo. «Gli investimenti esteri fanno aumentare il costo della vita, e qui lo stato sociale non esiste. Ad Abidjan, città con oltre 7 milioni di persone, ci sono al massimo cinque licei pubblici. La sanità è tutta privata, ci si riesce a curare negli ospedali pubblici solo se si è parenti di un medico che lavora lì. E i prezzi delle case sono alle stelle».
PER QUESTO, spiega I.D., «stiamo assistendo a un cambiamento. Dieci anni fa ad emigrare in Europa erano principalmente le persone povere che venivano dai villaggi. Oggi, invece, è la classe media delle città a partire attraverso canali legali. Conosco tante persone che lo hanno fatto, il loro tenore di vita non è migliorato in Europa ma almeno possono mandare i figli a scuola e, se stanno male, vengono curati. Se non si risolve questo problema, il modello di crescita di Ouattara non avrà futuro».
«Futuro» è l’altra parola che, sui cartelloni e nelle radio, si ripete di continuo. La Costa d’Avorio, del resto, è uno dei paesi più giovani dell’intero continente africano, con un’età media di 18,3 anni e il 60% della popolazione che ha meno di 25 anni. Dati che segnano una distanza enorme tra il paese e la gerontocrazia dell’83enne Ouattara.
«QUI LA POLITICA serve a dividere, non a unire. Destra e sinistra non esistono, chi si candida lo fa per perseguire i propri interessi», spiega K., 24 anni, attivista di una rete di associazioni giovanili che, con il sostegno dell’Unicef, in Costa d’Avorio riunisce oltre 40mila under 25.
Il suo gruppo lavora nella città di Dabou, a circa un’ora e mezza di auto da Abidjan. Svolgono numerose attività sociali, con una particolare attenzione per il dialogo inter-etnico, l’istruzione e l’ambiente. «Giriamo per i villaggi, cerchiamo di convincere le famiglie a mandare i propri figli, e in particolare le figlie, a scuola. Senza istruzione non c’è futuro. E poi l’ambiente. Qui siamo sommersi dalla plastica. Noi proviamo a spiegare che i rifiuti sono risorse e che, se gestiti diversamente, possono portare ricchezza».
UN’ATTIVITÀ importante che, secondo K., «non ha nulla a che fare con la politica. Noi vogliamo unire le persone attraverso il dialogo, non approfittarci delle rivalità per arricchirci. Nel 2020, qui a Dabou ci sono stati tanti scontri. Tanti morti. Per questo quest’anno non siamo andati a votare, e come noi tantissimi nostri coetanei. Non ci interessa il potere, ci interessa il dialogo. È questa l’unica cosa che può assicurarci un futuro di pace».

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