Cruijff immortale


Come ricorderemo il genio di Johan Cruyff.

Dopo aver letto della notizia della morte di Joahn Cruyff abbiamo deciso di dedicare poche righe ciascuno al nostro ricordo. Considerati gli anni in cui siamo nati, i nostri ricordi sono tutti posticci, tecnologici, o forse ricordi atemporali. Stabilire una relazione con Cruyff, per chi non era suo coetaneo, per chi non ha seguito dal vivo il punto più luminoso della sua parabola di calciatore, è come stabilire una relazione personale con un monumento che, seppure di un’altra epoca, è ancora lì nel punto esatto in cui è stato tirato su e ci passiamo davanti ogni giorno per andare a scuola, a lavoro, a casa. Non sono ricordi veramente nostri, ma i ricordi dei più grandi appartengono a tutti.

di Daniele Manusia
ULTIMO UOMO, 25 marzo 2016

Della carriera di Cruyff mi ha sempre affascinato la coda finale. C’è un aforisma, non ricordo se di Epitteto o Marco Aurelio, né sono sicuro di citare con esattezza (internet in questo non mi è di aiuto, sono in viaggio e non posso controllare nei libri), che più o meno dice: «La fine è importante nelle cose».

Le amichevoli con i New York Cosmos (vicino a Beckenbauer), i cinque mesi con i Los Angeles Aztecs in Nasl alla fine dei quali è stato eletto MVP, i quarantacinque minuti giocati con la maglia del Milan, le tre partite con il Dodrecht, il mancato passaggio al Leicester, le dieci in Segunda con il Levante, il ritorno all’Ajax, la ripicca di chiudere con il Feyenoord. Un periodo che va dai 32 ai 37 anni di Cruyff e che fa da cuscinetto tra il passato glorioso da calciatore e il futuro da allenatore: la rivoluzione in campo è finita, quella fuori deve ancora cominciare. Il declino fisico e l’ambizione, la superiorità e la stanchezza. Pare che avesse smesso di giocare a pallone nel novembre del 1978, ma fu costretto da questioni economiche a tornare in campo, dopo aver perso i soldi in alcuni investimenti sbagliati, tra i quali un allevamento di maiali. Se la sua filosofia e la sua grandezza è documentata, a me piacerebbe sapere qualcosa di più di quel periodo, cosa gli passava per la testa, cos’era il calcio per lui in quel momento.

Sembra un mondo parallelo quello in cui sulla panchina dei Los Angeles Aztecs c’è Rinus Michels e in campo Cruyff (e non posso omettere che fino all’anno prima negli Aztecs giocava, più o meno, George Best; o che in quella stessa edizione Giorgio Chinaglia segna 26 gol in 27 partite, e Gerd Müller 19 in 25). Gli highlights individuali della sua gara con i Seattle Sounders sono confusi e forse sono tra i miei preferiti per questo, perché mi restituiscono l’idea che qualcosa mi stia sfuggendo. Non sono neanche sicuro che la partita sia finita 7-1, Cruyff ha fatto almeno due assist, forse di più (un terzo di sicuro con gol annullato per fuorigioco), e due gol di cui uno su rigore (i telecronisti annunciano la tripletta di Dangerfield e si accorgono che è Cruyff solo mentre esulta).

L’effetto è straniante, a partire dalla grafica iniziale con Cruyff che si presenta: “I’m Johan Cruyff. I come from Holland, from Amsterdam”. Si muove in modo incomprensibile per i suoi compagni, oltre che per gli avversari. Gli vanno quasi addosso, lui dà indicazioni come sempre (la bellezza della manina di Cruyff, forse il più grande burattinaio della storia del calcio, una delle cose che preferisco di lui, specie quando indica un movimento a un compagno e poi passa la palla a un altro, magari forzando la giocata) mentre porta palla con nonchalance. Cruyff sembra un predicatore nel deserto, un predicatore anche piuttosto scazzato. Sembra un bambino troppo sveglio, o troppo più grande di quelli con cui gioca a ruba bandiera.

Più passano i minuti più Cruyff fa cose a caso, per il gusto di farlo, giocare il suo calcio in quel contesto è come mostrare un accendino agli uomini primitivi. Anche in queste condizioni è impressionante la sua eleganza, intesa come forma suprema di coordinazione del corpo nello spazio e nel tempo (danza). E quella qualità di Cruyff che ha spinto David Winner, in Brillant Orange, a definirlo “Pitagora con gli scarpini”. Perché «in pochi hanno esercitato un controllo così magnetico, fisico e mentale, sulla partita».

I ricordi delle sue giocate migliori si sovrappongono a queste immagini da calcetto con gli amici e Cruyff ne viene fuori filtrato, ridotto ai suoi tratti essenziali. La palla è un prolungamento del suo corpo, un satellite che ruota intorno al suo piede.

Nell’azione che ho scelto Cruyff scivola, in ginocchio davanti alla palla, poi si rialza e la “Cruyff turn” gli riesce a metà. È costretto a fare un giro su stesso per avere nuovamente la palla sotto la sua influenza. Il difensore prova a sorprenderlo mentre Cruyff è ancora di spalle, ma Cruyff è troppo rapido e se l’allunga nello spazio. Il difensore si chiama McAllister, ma è importante il suo nome? È solo uno dei molti esseri umani a cui Cruyff gira intorno come fosse una sedia in mezzo al salotto. Poi Cruyff crossa d’esterno sul primo palo per Leo Van Veen (con cui avrebbe giocato anche dopo, nel suo come-back all’Ajax) che segna di testa.

Poi uno di quei dettagli a cui ogni spettatore dà il valore che crede giusto: Van Veen e Cruyff non esultano insieme, si danno la mano. Che per me significa il profondo rispetto che Cruyff aveva nei confronti del calcio e che il calcio, sotto forma di un centravanti che ha finalizzato una sua splendida giocata, aveva per lui.




Il primo minuto della finale di Coppa del Mondo – Germania-Olanda, 1974

di Matteo Gatto

Primo atto, il più insignificante. Il calcio d’inizio della finale di coppa del Mondo è pur sempre un mero calcio d’inizio. È giusto che lo batta lui, è doveroso, ma è un compito solo formale, non offre spazio creativo né opportunità, è il taglio del nastro di un’inaugurazione. La disinvolta sufficienza con cui tocca la palla non può che essere studiata. Dovrà pur essere un po’ nervoso anche lui.

Secondo atto, scende a prendersi il pallone. Gli viene consegnato da Haan per ragioni gerarchiche prima ancora che tecniche. Una volta in possesso, Cruyff neppure corre: cammina, dà indicazioni con la voce e con le braccia. Sta dirigendo le operazioni e la palla tra i piedi gli serve solo affinché non sia da distrazione per gli altri. Si atteggia come chi, al primo minuto e al primo pallone della sua prima finale mondiale, ha già la soluzione. Che personalità, che carisma, che leadership. Ma non sarebbe umano se non stesse bluffando.

Terzo atto, non stava assolutamente bluffando. Innescata la salita di Rijsbergen con un passaggio nello spazio davanti a lui, si ferma e resta ultimo uomo dell’Olanda a osservare come se la sbrigano i suoi. Krol sulla sinistra in verticale per Rensenbrink, viene incontro Neeskens che la tocca indietro ancora a Rijsbergen, finché il pallone torna da lui. Ha davanti cinquanta metri di campo contenenti il resto dell’Olanda e l’intera Germania, che decide di puntare nella sua totalità. Sarà una trivellazione. Il primo a farglisi incontro è Berti Vogts, il suo marcatore. Johan non ha compagni vicini, lo hanno isolato spontaneamente per l’uno contro uno, e accosta Vogts, gli prende il tempo, scatta verso sinistra, inchioda, scatta di nuovo, ancora più forte, Vogts è perso, è già inseguitore. Un ulteriore, surreale cambio di marcia manda a vuoto il tackle di Uli Hoeneß. Falciato da Hoeneß, Cruyff cade, e cade in area di rigore. L’attimo prima era nel cerchio di centrocampo, adesso l’arbitro sta indicando il dischetto con la Germania che non ha neppure toccato il pallone e Beckenbauer che protesta, ma davvero non si riesce a capire per cosa. Johan si rialza con calma, ottiene il pallone e lo affida a Neeskens come un pacco importante, perché ai rigori ci pensa lui.

Un’azione del genere, in circostanze del genere, non si può semplicemente tentare, non esiste una sua versione sbagliata. Pensare che Cruyff sapesse quello che stava facendo dà le vertigini, eppure non può che essere così. Tra le sue tante etichette, parti e definizioni, Johan Cruyff è stato anche quell’uomo che ha preso il primo minuto della partita più importante del mondo e lo ha trasformato in un esempio di onnipotenza.



Il rigore di seconda – Ajax-Helmond Sport, 1982

di Fabrizio Gabrielli

Johan Cruyff se ne è andato esattamente quarant’anni dopo il golpe militare con il quale i generali presero il potere in Argentina: la stessa giunta due anni più tardi avrebbe cercato di legittimarsi agli occhi del mondo organizzando il Mondiale al quale Cruyff, all’apice della sua carriera, non partecipò. O come sarebbe più corretto dire, decise di non partecipare.

Si disse per posizioni politiche ovviamente in disaccordo con il regime di Videla: sarebbe stato bellissimo, certo, e pieno di poesia. Di fatto nel 2008 Cruyff confessò che la verità sottesa a quella mancata partecipazione risiedeva tutta in un semplice cambio di prospettive che gli sarebbe sbocciato in mente, come accadeva con certi tipi di azioni in campo, d’amblè, dopo una rapina subita durante l’ultimo periodo del suo soggiorno a Barcellona.

Nel 1982 Cruyff aveva già iniziato a passeggiare sul viale del crepuscolo: era tornato all’Ajax dopo una parentesi in giro per gli States, e di lì a pochissimo avrebbe terminato la sua carriera da calciatore.

Quello che decide di lasciare il 5 dicembre è un lascito che si erge a manifesto della sua interpretazione del gioco.

L’Ajax è impegnato, in una di quelle partite senza storia, che infatti finirà 5-0 per i Lancieri, contro l’Helmond Sport. Viene assegnato un penalty alla squadra di Amsterdam: Cruyff piazza il pallone sul dischetto, ma anziché retrocedere per prendere la rincorsa la tocca piano per Jesper Olsen, che gliela restituisce per un comodo tap-in.

È un’azione dalla banalità convulsa: la misura precisa della percezione del Momentum che si sta realizzando ce la dà la prossemica del numero 5 dell’Helmond, sulla parte bassa dello schermo. Con le mani poggiate alle anche sembra quasi disinteressato, a un certo punto quasi volta le spalle all’azione, con un sentimento misto tra l’incredulo e il rassegnato.

Cruyff ha raccontato che subito dopo l’arbitro gli ha chiesto «ma è regolare una cosa del genere?»: mi sembra la più perfetta attestazione di unicità che si possa ricevere. Un arbitro, il custode delle regole, che chiede a un mero partecipante al gioco, per quanto sia lecito usare l’aggettivo mero in combinazione con il nome tonitruante di Johan Cruyff, conferme.

Mi sono fatto l’idea che il significato profondo che riesce a imprimere l’olandese a quel gesto affonda tutto nel suo retroterra: Cruyff mutua un momento del gioco tradizionalmente retto da principi come quelli di staticità, individualismo, sfida secondo i crismi, più confacenti alla sua legacy, di collettività, totalità, compartecipazione.

Quando, poco più di un mese fa, Messi – in uno sfoggio d’altruismo che travalica i confini dell’egotico per farsi dono – l’ha appoggiata per Suárez, ecco che subito c’è stato chi si è indignato, chi ha gridato all’antisportività, chi si è lanciato in una condanna dell’umiliazione, dello scherzo.

Il fatto è che non può esserci arroganza nei sognatori, in chi vuole scrivere e riscrivere la storia e l’immaginario di quel gioco che si gioca con una palla al centro di un prato.

Oggi e sempre, quando penseremo a un rigore «di seconda», ci verranno in mente la faccia trasognante di Cruyff mentre lo racconta in neerlandse, e poi, come fossero un tutt’uno, il tocco di Messi. Una delle ultime cose, se non l’ultima, ragionevolmente, capace di strappargli un sorriso.



Cruyff e il volo nel futuro – Olanda-Brasile, 1974

di Emiliano Battazzi

Nel 1974, il Brasile aveva vinto 3 degli ultimi quattro Mondiali: era campione in carica e si era portato a casa la Coppa Rimet per sempre (o quasi). È vero che Pelè si era ritirato, ma c’erano ancora diversi campioni del Mondo (da Jairzinho a Rivelino).

Il 3 luglio al Westfalenstadion di Dortmund si gioca la partita tra Olanda e Brasile, l’ultima del Gruppo A: praticamente, come una semifinale.

La partita è durissima, con entrate punitive, placcaggi in stile rugby e persino pugni.

In mezzo a questo mare di tensione, l’Olanda è già in vantaggio per 1-0 quando Cruyff decide di salpare per l’area avversaria e spegnere definitivamente le preoccupazioni. Prima segna con un pallonetto da 40 metri: è in fuorigioco, ma vuole mettere paura all’avversario.

Poi, al minuto 65, Cruyff decide di entrare nella storia di entrambi i paesi. Serve l’aiuto della squadra, servono i meccanismi del calcio totale, che a noi adesso sembrano scontati ma allora facevano paura. Dalla fascia sinistra Krol serve Rensenbrink: i brasiliani chiedono invano il fuorigioco. Il movimento dell’attaccante dentro il campo permette al terzino di attaccare la profondità: e infatti Krol viene servito di nuovo sulla corsa. Nel frattempo guarda al centro un paio di volte e crossa di prima: in area c’è un 2 vs 2, e il problema per il Brasile è la presenza di Cruyff, in vantaggio sull’avversario. Il cross al centro è teso, molto forte, forse troppo: bisogna rivederlo più di una volta per capire che il capitano dell’Olanda non ha il pallone nella sua disponibilità immediata. Non potrebbe calciare semplicemente al volo di collo, ecco.

Allora Cruyff vola: vola nell’area del Brasile, vola sul jogo bonito, vola nella storia del suo Paese, vola su una Nazionale che non partecipava ad un Mondiale dal 1938. Sembra quasi un salto in lungo perché gli manca qualche centimetro per arrivare sul pallone: e mentre vola si coordina in una frazione di secondo, vista dall’alto è una specie di semirovesciata, ma a pochi centimetri dal campo. Colpisce in pieno il pallone, che va dritto per dritto in rete.

Per la prima volta, la Nazionale olandese accede alla finale di un Mondiale. Il Brasile uscirà talmente scosso da quella partita da nominare il preparatore atletico (ed ex colonnello dell’esercito) Coutinho come allenatore per i Mondiali del 1978, pensando fosse solo una questione di corsa e sovrapposizioni.

I brasiliani non avevano capito che quell’Olanda aveva un genio con il numero 14, l’unico che conosceva i codici di ogni giocata, in ogni zona del campo; e non avevano capito che Cruyff non era volato solo su quel pallone, ma direttamente nel futuro del calcio.



Phantom Goal – Barcellona-Atletico Madrid, 1973

di Alfredo Giacobbe

Da bambino ho usato il calcio anche per stabilire un ponte tra me e mio padre. Le gesta dei grandi campioni di un passato che non mi apparteneva venivano filtrate dai suoi ricordi e mi accorgevo già allora che una luce differente attraversava i suoi occhi quando parlava di Johan Cruyff.

Il gol di Cruyff che per me meglio lo rappresenta come calciatore è quello che ha segnato al Camp Nou contro l’Atletico Madrid, il 22 dicembre 1973. Che la rete impresse una svolta decisiva a quella partita, e che a sua volta rappresentò il trampolino di lancio per il resto della stagione del Barça, poco importa.

In quella sequenza di gesti atletici c’è tutto Cruyff: la velocità nella corsa, la sua arma migliore; lo stacco in contro tempo, con la gamba destra che va altissima, a testimoniare l’eccellente preparazione fisica; il colpo secco d’esterno, così moderno; la palla che varca la linea di porta quando lui è ormai di spalle, con la consapevolezza di aver fatto gol. E poi quell’esultanza rabbiosa, che rivendica la paternità di un gesto nuovo.

In una celebre foto, scattata dall’angolazione opposta rispetto a quella della macchina da presa, si vedono gli sguardi dei giocatori colchoneros. Mi piace pensare che il fotografo li abbia immortalati nell’istante esatto in cui compresero di essere diventati testimoni e parte della storia del loro sport.

Avremmo vissuto la rivoluzione del calcio totale, l’epopea di Sacchi o la grandezza del Barcellona senza Cruyff? L’alba del 2016 ha accomunato Cruyff e Bowie nella fine; più che precursori, erano il mezzo attraverso il quale la Storia del mondo ha accelerato.

Cruyff è stato un game changer, un innovatore. Dopo di lui il gioco del calcio è stato più veloce, più intelligente, più collettivo. In sintesi: più bello.
Come una spaccata in volo.



La “Cruyff turn” – Olanda-Svezia, 1974

di Tommaso Giagni

È la sera del 19 giugno 1974. Prima fase del girone dei Mondiali in Germania Ovest. Nell’allora Westfalenstadion di Dortmund, i Paesi Bassi vengono fermati sullo 0-0 dalla Svezia. L’unica partita che non vinceranno, in quel campionato del Mondo, a parte la finale.

In proiezione offensiva, Johan Cruyff riceve una palla tesa dal lato opposto del campo. Un lancio di forse quaranta metri, che controlla con un solo tocco di sinistro. La sfera rimane lì mentre un avversario, Olsson, sta arrivando in corsa. Con la suola del destro Cruyff, mentre sbilancia il corpo all’indietro, porta a sé il pallone. Ritorna con il busto in avanti, verso la palla che protegge tra i piedi, mentre il difensore lo fronteggia. Sono al limite dell’area. La decisione di mettersi di spalle si direbbe del tutto conservativa: Cruyff sembra prender tempo e attendere rinforzi, al limite dell’area, dopo aver abbandonato l’idea di un attacco. Invece no. Esce dal corpo a corpo con un movimento a smarcarsi, lasciando Olsson grottescamente rivolto dalla parte sbagliata.

Cruyff sembra pronto a un retropassaggio, invece fa perno sul piede che finge di calciare e gira il corpo: è come un tunnel a sé stesso, quello che anticipa il cambio di direzione. E a quanto si sa, è la prima volta che si vede su un campo. A giustificare lo spaesamento di Olsson c’è anche il fatto che l’azione si sviluppa sul lato sinistro del campo, a un paio di metri dal fondo: una fuga da quella parte sarebbe poco invitante per Cruyff, che non è mancino. Invece è là che si dirige: un paio di passi, uno sguardo dentro. Poi un grande assist nel cuore dell’area. D’esterno destro. Il tutto, dal suo primo al suo ultimo tocco, succede in sei secondi.

L’aspetto più impressionante è forse la consapevolezza che ha Cruyff del proprio corpo. Nessuno può immaginare che il suo, non certo esile e brevilineo, possa adeguarsi a tutte quelle improvvisazioni in un tempo così breve. Il fisico di Cruyff riesce a tenere il ritmo del suo cervello, verrebbe da dire.

Quel cross non troverà pronto nessun compagno, ma non importa. Quel trick a smarcarsi diventerà un simbolo della Grande Olanda. Quel movimento verrà chiamato Cruyff Turn, ma i nomi non servono. Forse per raccontare Johan Cruyff non servono neanche le parole.



La “Cruyff turn” – Olanda-Svezia, 1974 vol. 2

di Flavio Fusi

Johan Cruyff è probabilmente stato il singolo individuo più influente nella storia del calcio. Da calciatore si è erto ad alfiere del totaalvoetbal, e da allenatore, oltre ad aver vinto una Coppa Campioni in prima persona, la prima della storia blaugrana, ha gettato le basi per i trionfi del Barcellona negli ultimi 20 anni, tanto da far dire a Guardiola «Cruyff ha costruito la cattedrale, il nostro compito è quello di mantenerla».

Cruyff viene spesso ricordato per come abbia cambiato definitivamente il modo di concepire la tattica nel calcio e le metodologie di allenamento e di sviluppo dei giovani. Ma prima di tutto ciò, prima di indossare giacca e cravatta e sedersi in panchina, Cruyff ha cambiato per sempre la tecnica calcistica, inventandosi un modo di liberarsi del proprio avversario che ha fatto scuola: la “Cruyff turn”, una mossa che generazioni di calciatori hanno fatto propria.

La sera di Olanda-Svezia, Cruyff riceve un passaggio in diagonale da Haan, appena fuori dal lato destro dell’area di rigore. Il pallone è preciso ed il terzino destro svedese, Jan Olsson, è in leggero ritardo. Cruyff controlla la palla con classe, ma per una frazione di secondo, la sfera sembra quasi sfuggirgli proprio in direzione di Olsson. Con un guizzo, il numero 14 olandese riesce a frapporre il suo piede destro tra l’avversario e la palla e a sfruttarlo come un perno per porre il resto del corpo tra lui e il suo rivale. Ma adesso Cruyff si trova di spalle, con il suo avversario che gli fa sentire il fiato sul collo e quasi lo cinge con il braccio sinistro. L’unica opzione, così vicini alla linea di fondo, sembra quella di liberarsi del pallone: Cruyff compie un mezzo passo in avanti, ruota la spalla destro verso l’interno del campo e si appresta a calciare. Sembra fatta per Olsson. Da difensore ha fatto il suo dovere: mantenendosi così vicino all’avversario di schiena, Cruyff sembra costretto a cercare un passaggio, o un cross comunque complicato.

È proprio questa percezione scolastica, l’impressione che abbia fatto la cosa giusta, che ci fa ricordare Jan Olsson come la vittima di un’umiliazione. L’Olanda gioca il calcio più alternativo e fuori dagli schemi d’Europa, Cruyff ne è l’icona perché non pensa come gli altri. Per questo Cruyff, in quest’occasione, non calcia: poco prima di impattare la palla con il collo cambia completamente la dinamica della sua mossa e, con l’interno destro, si sposta il pallone verso la linea di fondo, accarezzandola quel tanto che basta a dargli un effetto che gli renda più agile il successivo tocco, mentre tutto il suo corpo, in precario equilibrio, si volta di 180 gradi, a cominciare dalla testa.

Guardando l’azione fotogramma per fotogramma c’è un istante in cui bastano le due teste di Cruyff e Olsson a descrivere la genialità e la contemporanea brutalità di quell’azione così estemporanea: quella dell’olandese è proiettata già in direzione della sfera e anche il corpo si sta aggiustando in accordo con essa; quella dello svedese è ancora tutto rivolta verso l’interno del campo, con lo sguardo fisso su dove fino ad un attimo prima era il pallone, con il resto del fisico che sta difendendo un avversario che non è più lì.

Quando Olsson riesce a reagire, Cruyff ha un paio di metri di vantaggio, che si ampliano quando il movimento innaturale a cui lo svedese è costretto si concretizza in una sorta di “auto-sgambetto” che lo mette definitivamente fuori gioco e lascia a Cruyff lo spazio e il tempo per cercare il cross, che si risolverà in un nulla di fatto. Nonostante la mancata concretizzazione, quel gesto tecnico è passata alla storia come il simbolo di quei Mondiali, che l’Olanda del calcio totale riuscì solo a sfiorare, cadendo in finale contro la Germania Ovest.

Nel corso della sua carriera, Cruyff stesso ha proposto variazioni sul tema, ma ciò che più conta è che fior di giocatori abbiano replicato quella mossa (senza menzionare le innumerevoli imitazioni e rielaborazioni personali): dai discepoli Busquets, Xavi ed Iniesta, fino ad arrivare a Walcott e persino a Neuer, tanto per menzionarne alcuni. La sua “signature move” è diventata una mossa che i bambini vogliono imparare e persino la UEFA ha prodotto un tutorial con protagonista un giovane Iago Falque.

Sarebbe stata sufficiente l’invenzione della “Cruyff turn”, probabilmente, a dare al suo ideatore l’immortalità. Non solo perché nessuno dimenticherà mai l’originale, ma anche perché finché ci saranno emuli ad esibirsi in quel meraviglioso gesto tecnico, Cruyff non sarà mai dimenticato.




La Totalità – Ajax-Juventus, 1973

di Dario Saltari

Se c’è una cosa che ho capito di Cruyff, se davvero l’ho capita, è il concetto di totalità. Cruyff è stato il maestro della fluidità dell’azione di squadra unita al ritmo spezzato delle pause dei suoi dribbling. È stato il giocatore che più ha appreso da un allenatore (Rinus Michels) e l’allenatore che più ha influito sui suoi giocatori (Van Basten, Guardiola, per dirne due).

Guardando giocare Cruyff, lo si vede spesso dare indicazioni ai compagni mentre si appresta ad un dribbling, correre incontro agli avversari a testa alta per scrutare il movimento dei compagni. Conciliare nello stesso identico momento la coralità di un’azione collettiva con l’unicità di un gesto individuale.

In un’azione dimenticabile della finale della Coppa dei Campioni del 1973, vinta contro la Juventus per 1-0, ad esempio, Cruyff prende palla nella trequarti avversaria e subito gli si para davanti Helmut Haller. Inizialmente sembra una cosa tra loro due, un duello personale, ma in realtà non è così.

Dopo aver stoppato, Cruyff lo punta spostandosi la palla con il destro. Appena lo supera ferma il corpo ma non la palla. E quando Haller ferma la sua corsa, l’olandese la ritocca allungandosela di nuovo con l’esterno destro. Ingannato una volta, il centrocampista tedesco è deciso a non ricascarci più e inizia a seguire Cruyff fissando il pallone senza intervenire. Siamo ormai al limite dell’area e Crujiff sta trotterellando a testa alta come se stesse aspettando Haller per dribblarlo di nuovo.

Non solo Haller, ma tutti i difensori della Juve stanno con gli occhi inchiodati sul pallone. Il tempo è sospeso, in attesa di un nuovo numero à-la-Cruyff. Lui, invece, sta guardando il posizionamento dei compagni. E un attimo dopo, infatti, Johnny Rep attacca lo spazio alle spalle della difesa bianconera e Cruyff lo serve in maniera perfetta permettendo al suo compagno di servire un facile assist al centro dell’area che per pochissimo non si trasforma nel 2-0.

Per portare il pallone dalla trequarti a dentro l’area di rigore, Crujiff ha toccato il pallone sette volte, compreso lo stop, eludendo l’opposizione di tre giocatori con un solo passaggio in verticale. “Giocare a calcio è molto semplice”, ha detto una volta. “Ma giocare semplice nel calcio è la cosa più difficile che ci sia”.

È vero: non c’è cosa più difficile che ricondurre la complessità alla semplicità. Perché per farlo si deve passare per la totalità: tutte le innumerevoli forme che il calcio può assumere contenute all’interno di un’unità irripetibile, la trasformazione di infinite alternative nell’unica scelta praticabile. Il dribbling è anche un assist, l’individualità è anche la collettività, l’attaccante è anche un difensore, il giocatore è anche un allenatore. Più semplicemente, se volete: il calcio era anche Johan Cruyff.




Cruyff, il mistico – Ajax-Inter, 1972

di Emanuele Atturo

Tra tutti i campioni del passato che non ho visto giocare, nella mia testa, Cruyff è il più mistico. I filmati riescono a restituire la grande modernità di Pelè, così come l’eleganza di Platini, o il talento di Maradona nell’elevare al massimo l’arte individuale di toccare il pallone con i piedi. Ho invece l’impressione che ci sia qualcosa di Cruyff che i suoi video non riescono a restituire, una vibrazione sotterranea, nel modo in cui muove il suo corpo per il campo, che non saprei definire in altro modo che “spirituale”.

Johan Cruyff è quello con i piedi piatti, che si dice che a 5 anni potesse eseguire già 200 palleggi, che a 17 anni conosceva già tutti i movimenti da fare in campo. Cruyff è quello che è stato soprannominato “Il Profeta” e che indossava il numero 14, che è il doppio di 7, il numero della perfezione spirituale. Cruyff era il fenomeno non della palla, bensì dello spazio, quindi dell’elemento più complesso ed esoterico del calcio.

Gli altri fuoriclasse avevano un talento visibile agli occhi, Cruyff invece non era solo veloce, tecnico ed elegante, nel talento di Cruyff c’era anche qualcosa di invisibile, quasi occulto. Johnny Rep disse che Cruyff «sapeva sempre dove muoversi perché conosceva il gioco nella sua profondità». Cruyff dava l’impressione di conoscere cose a cui noi non abbiamo accesso, diceva: «Ci sono pochissimi giocatori che sappiano che cosa fare quando non sono marcati. Perciò a volte capita di dire a un giocatore: quell’attaccante è bravissimo, ma non marcarlo» come a dire “Lascia gli uomini senza riferimenti chiari e si smarriranno, piccoli e soli nella loro mortalità. I profeti camminano da soli, al buio, su strade che esistono solo per loro”. Cruyff ci ha mostrato, in controluce, che esiste tutta una dimensione del calcio che solo pochi eletti possono abitare. Cruyff era il loro profeta, il loro sacerdote.

I gol che ho scelto non sono particolarmente belli, ma rimandano a questa particolare aura demiurgica, sovrannaturale che Cruyff esercitava in campo.

È la finale di Coppa dei Campioni del 1972, l’Ajax, campione in carica, affronta l’Inter a Rotterdam. La partita è bloccata e Cruyff è marcato a uomo da Oriali. Ricordando quella sera Cruyff ha detto: «Ero marcato ovunque andassi e stavo aspettando il momento in cui avrei potuto fare qualcosa. Sapevo che sarebbe arrivato e a quel punto avrei dovuto sfruttarlo». Il momento arriva quando su un cross dalla destra Oriali disturba Bordon in uscita, i due si scontrano e la palla capita sui piedi di Cruyff a porta vuota. In realtà dal video si può vedere che il 14 non si aspetta il mancato intervento, e però la palla gli precipita sul piede rimanendogli attaccata, come se fosse a rimbalzo controllato, come se fosse una forza superiore a muoverla.

Pochi minuti dopo segna su colpo di testa sugli sviluppi di un calcio d’angolo, saltando più in alto di tre marcatori più alti di lui. Una doppietta nella finale della Coppa dei Campioni senza sforzo apparente. Non posso credere fosse solo grezzo “opportunismo”, “controllo assoluto della realtà” piuttosto. Cruyff non era come noi, Cruyff sapeva, Cruyff controllava tutto, forse persino la morte: «In un certo senso, probabilmente sono immortale»



L’ultima vita di Cruyff – Feyenoord – Ajax 4-1, 1984

di Francesco Lisanti

Il verso che racchiude Cruyff, quello che meglio ci permette di cogliere l’orizzonte al di là del suo sguardo, quello che Edgar Lee Masters avrebbe scelto se l’avesse fatto personaggio di Spoon River, sta in un prologo di Buffa: «aveva quasi tutto ben chiaro, profeticamente ben chiaro».

Nessun altro calciatore sta alla storia del gioco come Cruyff, che pure a posteriori non è il più vincente, non il più leader, probabilmente neanche il più talentuoso (spostandoci verso i massimi ordini di grandezza). Però solo Cruyff e nessuno come Cruyff comunica quella sensazione netta, che resiste agli anni e ai video sgranati che ne conservano la memoria, che sapesse esattamente dove andare in ogni momento della partita e in ogni momento della sua carriera.

A 36 anni Johan Cruyff aveva già vissuto più vite di quante non fosse lecito chiedere: l’Ajax, le tre Coppe dei Campioni, la finale del ’74, il Barcellona, la bancarotta, gli Stati Uniti, il ritorno trionfale all’Ajax. Alla scadenza del biennale che gli aveva garantito due stagioni e due titoli nazionali con i lancieri, dopo 275 partite e 266 gol con quella maglia, i dirigenti ringraziano e indicano la porta. Un milione e mezzo di fiorini sarebbe anche tanto per un calciatore ormai quasi fermo, in una rosa in cui stanno crescendo Koeman, Rijkaard, Van Basten.

Cruyff però sente di aver ancora una stagione e ancora un titolo nelle gambe, fa saltare il tavolo delle trattative e firma per il Feyenoord, che con le dovute proporzioni è come se dopo il Barcellona avesse firmato per il Real Madrid. Ovviamente vincerà campionato e coppa nazionale e si ritirerà dal calcio giocato. «Chiunque sa che ho un certo sentimento di rivincita, potrebbe contare per me, ma è del tutto irrilevante».

Il Feyenoord 1983/1984 ha una grande squadra, c’è Ruud Gullit che gioca sulla fascia e fa quello che vuole, Peter Houtman, attaccante da venti gol stagionali, André Hoekstra, numero 6 che segna tantissimo. Poi c’è Cruyff, con il 10 sulle spalle, che si posiziona tra centrocampo e attacco e gioca praticamente tutta la stagione usando soltanto il mezzo esterno. Il duello in vetta è proprio contro l’Ajax e la gara di andata, ad Amsterdam, è un disastro: Van Basten segna tre gol e finisce 8-2 per gli ajacidi.

Dopo quella partita il Feyenoord non perde più per cinque mesi e a Rotterdam si gioca lo scontro al vertice. Finisce 4-1, Cruyff segna il gol del 2-0 ricacciando con violenza in porta una respinta del portiere ed esulta – dicono – come mai aveva fatto quell’anno. Sul risultato di 2-1, Cruyff vede un corridoio che sembra ritagliarglisi intorno e inizia a percorrerlo in corsa prima ancora che Wijnstekers, il capitano del Feyenoord, riceva palla. Detta il passaggio, aggancia al volo con la grazia che lo contraddistingue e con un colpo sotto trova solo la traversa.

Più del meraviglioso rapporto con il pallone, stupisce la qualità della corsa. Cruyff ha 37 anni, ma può ancora controllare il tempo a un livello così sottile che non può essere chiaro a noi altri: come anticipa e anticiperà le tendenze, anticipa e anticiperà i difensori. Mi piace pensare sia questa l’immortalità cui allude in una delle sue più celebri citazioni.



La leggerezza – Ajax-Den Haag, 1972

di Fabio Barcellona


Guardando una partita della grande Olanda non si può non rimanere impressionati dal continuo movimento dei suoi giocatori che avanzavano, indietreggiavano, si scambiavano la posizione. Giocavano un altro calcio rispetto agli avversari dell’epoca, storditi e confusi da questo incessante dinamismo. Con gli strumenti interpretativi di oggi possiamo dire che i giocatori olandesi, con il loro movimento, padroneggiavano lo spazio all’interno del campo di gioco. C’erano creazione di spazi, aggressione degli stessi, moltiplicazione delle linee di passaggio, scaglionamento offensivo, pressione sul portatore di palla avversario. Tutti concetti fondamentali nel calcio di oggi e che quell’Olanda ha per prima applicato in maniera sistematica. Persino il goffo portiere Jongobled, considerato all’epoca il punto debole della squadra, fu scelto per la sua abilità coi piedi e la sua capacità di partecipare attivamente al gioco di squadra, anticipando di almeno 20 anni un’idea oggi pienamente accettata. Buona parte del calcio che vediamo oggi discende direttamente da quella formidabile avanguardia che fu l’Olanda degli anni settanta.

Il movimento collettivo e interdipendente dei giocatori di quell’Olanda cambiò gli spazi all’interno del rettangolo di gioco creando traiettorie, distanze e visioni che non esistevano prima, una cinematica nuova. E Johan Cruyff fu il fuoriclasse che padroneggiava lo spazio. I suoi movimenti erano perfetti e restituivano una comprensione superiore del tempo e dello spazio di gioco. In ogni momento sapeva dove fosse lui, i compagni e gli avversari e processando tutte le variabili prevedeva cosa sarebbe potuto succedere dopo. E questo generava meraviglie, di una bellezza ”euclidea”, logica conseguenza dell’interpretazione del gioco.

Nel gol segnato in maglia Ajax al Den Haag il 12 gennaio 1972 c’è tutto Cruyff.

Un difensore dell’Ajax rinvia alzando un altissimo campanile. Per un giocatore normale sarebbe già complicato solo stoppare quel pallone che cade verticale dal cielo. Tutta la concentrazione mentale di un giocatore normale sarebbe dedicata al gesto tecnico di stoppare quel pallone. Invece, in una situazione tecnica così complessa, la mente di Cruyff lavora su più variabili: il pallone, la posizione di campo e quella del suo avversario. Un giocatore normale avrebbe stoppato il pallone, ma immediatamente gli sarebbe arrivato addosso il difensore. Quindi la mente di Cruyff scarta questa opzione. Un giocatore di ottimo livello avrebbe fatto uno stop orientato, condensando in un solo gesto controllo e conduzione palla, andando all’indietro proteggendo il pallone. Un’opzione migliore della precedente, ma ancora non la più efficace in assoluto. Che è quella che la mente di Cruyff sceglie: mentre la palla è ancora in volo e sta per giungere a terra Cruyff fa perno sul suo piede sinistro e ruota il suo corpo di 180° incrociando esattamente il pallone nel corso del sua rotazione. Una “Cruyff turn” al volo. In un colpo solo Cruyff controlla il pallone, scarta il difensore e arriva davanti al portiere. Il tiro con cui segna, peraltro magnifico, è quasi un dettaglio rispetto al precedente momento di esatta comprensione del dove e quando nel campo di gioco e della padronanza corporea con cui tramuta questa comprensione in un gesto tecnico perfetto e ancora più bello perché il più efficace tra tutti quelli possibili.

Lo sconosciuto difensore del Den Haag non può fare nulla, perché quello che ha di fronte gioca un calcio che si giocherà 30 anni dopo. Cruyff ha mostrato la strada che oggi tutti percorriamo.




La leggerezza – Ajax-Den Haag, 1972 vol. 2

di Marco D’Ottavi

Sono cresciuto con l’incrollabile certezza che Zinedine Zidane rappresentasse la vetta massima della bellezza declinabile nel gioco del pallone. Questo atto di fede è durato fin quando non ho scoperto Johan Cruyff, molto tardi devo confessare. La bellezza espressa dai due mi è sempre sembrata simile, elegante e minima, così differente da quella insolente e sensuale di Maradona. Per questo, di tutto il calcio che ci ha dato Cruyff, sento di dover rendere omaggio alla sua parte effimera, quella estetica.

Dicono che la rivoluzione non sia un pranzo di gala, eppure Johan Cruyff è riuscito a farla senza mai sporcarsi. Da giocatore prima e da allenatore poi, ha cambiato il calcio essendone l’interprete più elegante di tutti, di una bellezza che non tornerà più. Era bello nel suo fisico asciutto, bello quando camminava per il campo sempre con la testa alta, bello anche in quegli occhi azzurri così lontani e nel viso sempre un po’ triste. Era bello anche quando non necessario, era bello bellissimo in quella maglia arancione con il numero 14 che non sarai mai nient’altro. Il suo tocco di palla era il meraviglioso proseguimento della sua eleganza.

Prendete questo gol al FC Den Haag e guardate quanto è bello. Un lancio di piombo trasformato in oro con due tocchi, incredibile. Ora riguardate questo gol e concentratevi sul nastro bianco che inspiegabilmente gli penzola dal polso. È un dettaglio così insignificante che magari neanche lo avete notato la prima volta, abbagliati da quel primo tocco così inaspettato ed efficace. Eppure in quel nastro si nasconde la perfetta metafora del suo calcio: come un nastro, Cruyff è più leggero della realtà che lo circonda, come un nastro non ha vincoli con il mondo esterno se non sé stesso. Come un nastro è più difficile da prendere, e infatti il difensore del Den Haag non può prenderlo, non ha nessuna possibilità.

Guardate come gli sfugge tra le dita, è semplicemente fatto di un materiale diverso -più stoffa che uomo – gli basta un tocco per annullarne la resistenza. E un altro gli basta, arrotato e mortifero, per superare il portiere.

E poi come esulta, il nastro. Come fluttua nell’aria insieme a Johan Cruyff, che è bellissimo e leggero anche quando esulta. Come sventola mentre lo tiene stretto tra le mani sollevate: il sigillo bianco della sua eleganza. E allora grazie Johan, perché se Dostoevskij ha usato la letteratura per insegnarci che la bellezza salverà il mondo, tu hai usato il calcio.

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