Il futuro di Cruijff


di Valentino Tola 
ULTIMO UOMO, 18 luglio 2016


L’eredità di Johan Cruyff, al di là di ogni formula.

«Sono Johan Cruyff e penso di avere tutte le risposte, ma non è vero, perché a questo mondo, non sono niente più che un granello di sabbia»
- Johan Cruyff, génie pop et despote”.


Persino guardando una partita di calcio a volte fa capolino quel dualismo fra mente e corpo che tende a imperversare nelle nostre teste da un po’ di secoli. Che sia un gol o una bella giocata, bisogna trovare un appiglio per apprezzare qualcosa che sfugga dai limiti del puramente fisico. Un pallonetto o un passaggio filtrante imprevedibile può essere sì alla portata di pochi geni ma al tempo stesso, in quanto frutto soprattutto dell’immaginazione, sembra eludere il problema del limite.

Poi però rivedi l’ennesimo filmato di Cruyff, e diventa difficile separare la meraviglia per la coordinazione dei movimenti da quella per la superiore consapevolezza degli sviluppi del gioco.

Ed è questa consapevolezza inscindibile dalla perfezione del gesto tecnico che forse spiega la differenza fra la sorte di Cruyff dopo il ritiro e quella di altri grandi, geni forse più istintivi, come Maradona e Pelé, e in particolare il suo successo come tecnico. Non c’è soluzione di continuità: Cruyff era già allenatore quando giocava, mentre da tecnico rigorosamente senza patentino si può dire che si sia basato esclusivamente sul talento nell’interpretare il gioco che aveva affinato sul campo.

La sua prospettiva, anche da allenatore, resta quella del giocatore legato prima di tutto al gesto tecnico, all’esecuzione. Cruyff inizia il suo libro “Mi piace il calcio ma non quello di oggi” con questa frase: «Il calcio consiste fondamentalmente di due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla correttamente. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare».

Superato quell’attimo in cui vorresti cascare dalla sedia, ti accorgi che la frase è meno banale di quanto sembri, come capita con molte “massime” di Cruyff, sempre a cavallo tra senso comune, paradosso illuminante e incomprensibilità pura e semplice (data la capacità del personaggio di saper parlare male molte lingue). La premessa citata infatti sembra esattamente contraria a ciò che di fatto ispira gli altri allenatori, perché, prosegue Johan, ci sono troppi tecnici che, anche nelle giovanili, hanno studiato da allenatori ma non sono insegnanti: «Possono dirti di tirare di sinistro. Molto bene, bravi. Ma se non t’insegnano come accidenti devi fare a tirare di sinistro, a che cosa ti serve? E lo sai perché non te lo spiegano? Molto semplice: perché non lo sanno. E se non hai una tecnica da insegnare, che cosa parli a fare? Be’, ti parlano della condizione fisica e di tutte queste cose importanti, d’accordo, ma secondarie se la confrontiamo con la tecnica».

Il vantaggio dell’avere un buon insegnante è che poi il ragazzino «potrà allenarsi da solo, copiare, imitare, insistere, ripetere, migliorare, imparare, ripulire e infine adattare queste cognizioni alla sua maniera di giocare, alla sua personalità calcistica».

Nel saltare questo processo di apprendimento si rischia di perdere irrimediabilmente il momento creativo, quello in cui il ragazzino esercitandosi da solo (è bene sottolineare questo punto) reinterpreta il gesto tecnico in base alla propria sensibilità.

In questo sta la differenza fra Cruyff e tutti gli altri allenatori (Sacchi, van Gaal, Bielsa etc..) con cui talvolta viene accomunato da formule generalizzanti come “calcio offensivo”, “tikitaka”, “possesso palla”. E qui si intravede pure il rischio di fraintendimento del cosiddetto “Cruyffismo” che, dal suo radicamento al Barcellona in avanti, viene pubblicizzato come una sorta di modello prét-á-porter, un astratto Canone di movimenti che, applicati correttamente, garantiranno il successo in campo. Insistere troppo sul fatto che le formazioni giovanili del Barça giocano tutte con lo stesso modulo, tutte con le tre punte e fanno tutte il possesso-palla rischia di far perdere di vista il ragazzino che tirando contro il muro fino alla noia scopre un nuovo effetto da dare al pallone, che usando il bordo del marciapiede come sponda nelle partite con gli amici, si accorge di poter evitare i contrasti coi ragazzi più grandi. Rischia di far perdere il vero momento in cui tutto comincia e si rinnova.

Da qui nasce anche il passato conflitto con van Gaal: «Il buon calcio non si limita alla creatività del singolo ma deve necessariamente partire da lì, sempre». In “Recorda Mister”, Cruyff quando spiega la mossa di Laudrup falso centravanti e gli scambi di posizione con Stoitchkov che tagliava dalla sinistra dice: «Se i difensori non uscivano a prendere Laudrup lasciando lo spazio per il lancio (generalmente di Koeman o Guardiola, ndr) lungo su Stoitchkov etc…, allora c’era comunque il passaggio corto per Laudrup libero che fa le sue cose».

Laudrup fa le sue cose. Il giocatore di talento fa le sue cose. Un tic verbale tipico di Cruyff, difficile da pensare in bocca a un Sacchi o un van Gaal. La preminenza attribuita da Cruyff all’individualità si vede anche nel modo in cui effettuava quelle rotazioni costanti dei giocatori a sua disposizione, nella rosa di stagione in stagione e anche all’interno della stessa partita. Ciò che in altri tecnici può rappresentare la ricerca ossessiva di soluzioni sempre più adeguate a un sistema, per Cruyff era piuttosto la ricerca della sorpresa, del contributo nuovo e originale.

Nel ricambio di giocatori del suo celebre 3-3-1-3/4-3-3, è curioso che l’unico a essere durato per tutti i suoi otto anni alla guida del Barça sia stato Bakero, la mezzapunta che non sapeva dribblare, quella che al terzo tocco si impappinava e aveva il compito di aumentare la velocità di circolazione del pallone scaricando palla subito indietro o ai lati (il Camp Nou fischia) per poi inserirsi in area un secondo dopo e buttarla dentro (ora il Camp Nou applaude). Ma ciò non vuol dire che la mezzapunta per Cruyff dovesse essere solo e soltanto così (tant’è che l’ultimo anno sulla panchina del Barça chiese l’acquisto di Zidane), così come se Laudrup si trovava a giocare a destra nel tridente non doveva fare “l’ala destra”, il sostituto di Begiristain o Goikoetxea, ma continuare a fare Laudrup, solamente giocando a destra. Cercando apposta l’atipicità che gli altri fuggivano, il valore aggiunto della re-interpretazione di un ruolo. Contraria all’immagine universalizzante del “Cruyffismo”, da imparare su un manuale, è anche la considerazione verso le specificità culturali dei singoli e dell’ambiente da cui provengono. Rivisitando il proprio percorso, ad esempio Cruyff sottolinea l’importanza nella prima stagione sulla panchina del Barça della folta componente basca (Bakero, Begiristain, Zubizarreta, López Rekarte, Salinas etc) nello sposare con determinazione il nuovo sistema di gioco, di fronte invece alla diffidenza dei catalani verso le cose nuove.

Il conflitto fra libertà individuale e sistema non si poneva per Cruyff, in quanto il Cruyff fuoriclasse abbinava naturalmente libertà e responsabilità, perché quella libertà non poteva che essere libertà di costruire. Un’etica che abbinava individualismo e collettivismo in una maniera magari figlia dell’ottimismo dell’epoca in cui Cruyff cresceva, forse troppo ottimista per la nostra, e questa è una difficoltà che nelle interviste avvertiva lo stesso Cruyff rimarcando la differenza fra il periodo in cui lui allenava, quando fra l’allenatore e il giocatore quasi non c’era nessun’altra figura in mezzo, e quello attuale, in cui ogni giocatore ha la sua corte che rischia di distorcerne la percezione delle responsabilità in campo e ridurne la libertà a privilegio.

Cruyff esigeva un contatto diretto con giocatori che fossero individui ambiziosi e in una certa misura ribelli ed insolenti. Gente che come lui, nella sua intera esistenza, non riconoscesse tanto l’autorità quanto piuttosto l’auctoritas, intesa come autorevolezza che si afferma esclusivamente in virtù del sapere. Da giocatore Cruyff dava ordini a compagni più grandi di lui, da allenatore era in una guerra costante con il consiglio direttivo del Barça e il Presidente Núňez, tutta gente non “di campo”: «Núňez voleva sempre che lo chiamassi “Presidente”…ma io queste cose…non mi importano nulla…quando ero adirato dicevo sempre: “Voglio parlare con il Signor Núňez!” “Il Presidente?” “No, il Signor Núňez padre!».

«Il problema è quando inizi a lavorare e loro dicono “Io penso…” “No, tu non pensi, decido io.” “Chi è che sa qualcosa di calcio nel consiglio direttivo? (…) Se vuoi che ti spieghi qualcosa non ho nessun problema. Ma discutere, no».

Quello che sembra autoritarismo e strafottenza cambia volto quando Cruyff confessa di chiedere consigli a Bergkamp e Guardiola, i giocatori più maturi che abbia mai allenato, perché, non importa l’età, non importa la carica, «sono persone che sanno pensare».

E sulla base di questa autorevolezza Cruyff ha goduto del privilegio di poter criticare dirigenti e giocatori in una misura impensabile per altri. Più i suoi giocatori erano dotati, più venivano tartassati (passatemi il “si dice”, ma pare che questa autorevolezza venisse ogni tanto riaffermata a margine degli allenamenti in sfide sulla tecnica coi giocatori) per stimolarne la reazione rabbiosa, stessa funzione assolta dai 10 minuti che il Cruyff tecnico aspettava prima di entrare nello spogliatoio, per dare ai giocatori il tempo sufficiente per insultarlo. Nelle parole di Guardiola «se non c’erano conflitti, Cruyff li cercava», per domare uno spogliatoio di gente come Stoitchkov, Romário & C..

Anche se qualcuno come Laudrup dopo cinque anni dice basta perché, parole sue nella conferenza stampa d’addio, “non ne posso più”, e anche se tanto agitare le acque e compiere sacrifici eccellenti quanto frettolosi (Laudrup, Romário, Koeman e Stoitchkov tutti via nel giro di un anno dopo la figuraccia col Milan nella Coppa dei Campioni ‘94, più la caduta di stile di Zubizarreta cacciato dal club sull’autobus di ritorno lì ad Atene) hanno forse compromesso gli ultimi due anni di Cruyff come tecnico (’94-’96); quando alla “Quinta del Mini” (De la Peňa, Óscar, Roger, Celades etc.), la nuova leva proveniente dalla cantera, il Barça non seppe accompagnare campioni affermati col talento e la personalità per consolidare un nuovo ciclo.

L’insolenza che Cruyff cercava nei giocatori era indispensabile per accettare idee che andavano contro tutto quanto fino ad allora era considerato normale su un campo di calcio. In un’epoca che con Italia ’90 segnò il trionfo della difesa a 5, per Cruyff «il tecnico che ha inventato i carrileros (cioè i terzini che nel 5-3-2 occupano tutta la fascia) dovrebbe stare appeso a un albero», perché se la priorità è creare spazi in attacco sono le ali a diventare irrinunciabili. In mezzo a tanto “doble pivote”, il suo Barça gioca con un solo uomo davanti alla difesa, perché le linee di passaggio che fanno progredire la manovra sono quelle diagonali, e se voglio creare tanti triangoli dovrò distribuire gli uomini su molte più linee del 4-4-2 imperante degli anni ’90.

I due “shock” tattici principali causati da Cruyff furono però l’assenza di un centravanti di ruolo (comunque vista stabilmente solo a partire dalla seconda stagione con l’arrivo di Laudrup) e la difesa a tre, ma davvero a tre, non difesa a 5 mascherata. Idee che erano logica conseguenza della volontà di raggiungere la superiorità numerica a centrocampo (se gli avversari generalmente giocano con due punte, mi basterà avere un solo difensore in più dietro per coprirmi e guadagnarne uno extra a centrocampo, due se aggiungiamo il falso centravanti), ma che richiesero comunque ai giocatori un ripensamento di tutto ciò che avevano appreso fino ad allora. Celebre Zubizarreta che, spaesato nel suo nuovo ruolo di portiere-libero alle spalle della linea difensiva, espresse così le proprie preoccupazioni al tecnico: «Mister, e se mi fanno gol in pallonetto?» «Be’, se te lo fanno tu applaudi».

Ma il calcio di Cruyff è un calcio di idee molto più che di schemi. La storia vuole che Cruyff instauri per intuizione un modello di gioco che poi fra van Gaal, Rijkaard e Guardiola verrà sistematizzato e perfezionato (di fatto sul campo di allenamento l’approccio di Cruyff, portato a tralasciare dettagli tattici come le palle inattive e a delegare spesso al suo secondo Rexach, era agli antipodi della meticolosità di van Gaal e Guardiola). Ma nella generalità e nell’estensione dei nuovi principi, nell’aprire possibilità più che eccellere nell’organizzare situazioni di gioco predefinite, sta la grandezza di Cruyff.

Dove le idee di Cruyff hanno inciso di più è stato in particolare nel demolire due luoghi comuni, due falsi miti, due pregiudizi, due concetti fraintesi, chiamateli un po’come volete, che caratterizzano tante discussioni sul calcio, ovvero “l’equilibrio” e “la completezza”.

Nel calcio l’equilibrio è fondamentale, ma le vie per ottenerlo sono molte di più di quelle che si pensano comunemente. L’equilibrio spesso viene inteso come una compensazione astratta, a priori, delle qualità dei singoli giocatori, per cui se a un centrocampista bravo a distribuire accompagno uno bravo a rubare palloni, se a un attaccante alto affianco uno basso e rapido, se ho almeno 6 giocatori “difensivi” e 3-4 “offensivi”, allora avrò una squadra equilibrata. Ugualmente, a livello individuale, quante volte parlando fra amici è uscita la frase “Ronaldo è più completo di Messi”? Decine di centrocampisti inglesi “box-to-box”, anche di gran livello come Gerrard o Lampard, sanno fare molte più cose di Xavi e Iniesta, ma più spesso si gioca la partita voluta da Xavi e Iniesta. È il talento e soltanto il talento, inteso come capacità di influire sul gioco, quello che conta. La somma di “velocità+tecnica+colpo di testa+resistenza” esiste solo nei videogiochi.

Il Cruyff allenatore (un paradosso se pensiamo al suo bagaglio quasi illimitato da giocatore), consapevole dell’insuperabilità ma anche della natura tutta relativa dei limiti, si è divertito a giocare con questi e a spiazzare tutti rovesciando costantemente i termini della questione.

Siamo scarsi sui calci d’angoli, non abbiamo saltatori? Allora non concediamoli, concentriamoci su altro. Il Barça gioca contro l’Atlético, il cui attaccante Manolo ha come miglior qualità il movimento a smarcarsi? «Allora non lo marca nessuno», di fronte ai giocatori basiti.

Il Barça “storico” di Cruyff è uno sberleffo a tutte le concezioni consolidate in merito a come debba giocare una squadra equilibrata e a cosa sia richiesto a un giocatore per svolgere un determinato ruolo. Dietro gioca con un difensore centrale, spesso solo ad affrontare i ribaltamenti avversari e con movimenti da bradipo, come Ronald Koeman, accompagnato da due terzini puri, larghi come in una difesa a 4 e pronti ad accompagnare anche l’azione offensiva se necessario. Altro sberleffo è che i terzini sono rigorosamente di statura bassa: non solo Ferrer diventa inamovibile a destra dal suo esordio nel ’90-’91, ma nel ’93-‘94 spesso gli si aggiunge Sergi, ancora più offensivo. E Sergi è solo l’ultima tappa di un processo in cui Cruyff, dopo i difensori più puri degli inizi (i vari Aloisio, Nando, Juan Carlos) cerca interpreti sempre più tecnici e propositivi per giocare da terzo di difesa, per dare maggiore coerenza e quindi, dal suo punto di vista “folle”, maggiore equilibrio alla sua idea di gioco. Goikoetxea, rivelazione della Liga ’90-’91 (l’unica vinta in scioltezza, senza favori da Tenerife o rigori allo scadere sbagliati da Djukić) come ala vecchio stampo, poi si sposta progressivamente dietro, a destra o a sinistra, e anche Eusebio Sácristan, di solito mezzala-esterno di buon tocco, finisce a volte a fare il terzo a destra, mentre la finale di Coppa Intercontinentale ’92 col São Paulo la gioca addirittura Richard Witschge (elegante mezzala-centrocampista offensivo) come terzo a sinistra.

L’equilibrio, almeno quello tradizionalmente inteso, suggerirebbe che a compensare un simile obbrobrio (il primo anno di Cruyff al Barça la sua difesa, peraltro ancora senza Koeman & C., era conosciuta come “difesa Hitchcock”, salvo risultare la meno battuta alla fine del campionato…) si piazzi davanti alla difesa un tipo grintoso e rapido o almeno con la stazza per fare da difensore aggiunto sui cross in area, e invece Cruyff (dopo le prove generali con Luis Milla, regista delle prime due stagioni poi venduto al Real Madrid) sceglie Guardiola, quello che nelle categorie inferiori del Barça a volte non giocava perché troppo esile.

A proposito di Pep, Cruyff nelle interviste ama ripetere l’esempio della stanza: «se io devo difendere questa stanza da solo, sono un disastro, tutti entrano da tutte le parti; se invece io devo difendere solo questa sedia, allora sono il migliore». L’equilibrio è solo una questione di posizionamento collettivo. E qui torniamo all’importanza primaria della tecnica nel passaggio e nel controllo, perché è il pallone lo strumento che unisce e disunisce le tessere del puzzle: per questo, certamente forzando un po’, Cruyff afferma l’importanza primaria della tecnica, perché se padroneggi passaggio e controllo di palla allora «automaticamente controlli anche la posizione».

Un passaggio può determinare molti possibili equilibri: se è corto può avvicinare due giocatori, e quindi avvicinarli successivamente per un ipotetico recupero del pallone; ma se i passaggi corti non costringono l’avversario a correre verso la propria porta, non lo “girano”, allora ne attirano il pressing; un passaggio lungo o una verticalizzazione, può sì costringere l’avversario a correre verso la sua porta, ma può anche allungare la tua squadra se chi lancia e chi riceve non dà il tempo al resto della squadra di accompagnare.

Se la circolazione veloce del pallone (sul cui raggiungimento è basata gran parte degli allenamenti di Cruyff, con il rondo, un torello pensato per allenare situazioni concrete di gioco, come elemento portante), l’uomo in più sulla trequarti e le ali larghissime schiacciano dietro difensori e mediani avversari, se con un fraseggio ordinato Guardiola resta vicino alle due mezzeali del rombo di centrocampo, se così facendo la “sedia” non diventa mai una “stanza”, allora Guardiola può recuperare un pallone semplicemente sfilandolo all’avversario con la punta del piede.

E se in questo insieme coerente sostituisco difensori specialisti con giocatori d’iniziativa, allora sarò più equilibrato. Ferrer e Sergi come ali tecnicamente non sono sopra la media, ma come difensori sì…«Se il nostro terzino si inserisce come un’ala, la loro ala deve fare il terzino…e Sergi e Ferrer sono migliori attaccando come ali che la loro ala difendendo come un terzino» Alla fine l’equilibrio o squilibrio è dato sempre dalle posizioni relative. L’avversario non ha il pallone, la sua ala si trova all’altezza della propria area di rigore, con metri e metri da percorrere. Sono forse anche più equilibrato di quanto lo sarei nella mia metà campo con dieci giocatori fra la mia porta e l’avversario in possesso del pallone.

In questo caso sono proprio un’iniziativa offensiva più continua e armoniosa, con tutti i giocatori che partecipano senza saltare un reparto, e la maggior qualità nei passaggi che mi portano a dominare posizioni più avanzate, e a raggiungere l’equilibrio. In una squadra portata al possesso e all’attacco, meglio aggiungere uno che sente il calcio nello stesso modo piuttosto che seguire la concezione “a priori” di equilibrio e cercare di compensare con specialisti difensivi. In difesa mi dà più sicurezza mettere un nano che mi aiuta a fare arrivare la palla sicura e spedita fino alla trequarti rispetto a uno stopper diplomato che salta tre metri ed è velocissimo a recuperare su contropiedi che magari ha causato lui con un passaggio impreciso ad inizio azione.

Non che la visione delle partite di quel Barça corrisponda sempre all’Arcadia sopra descritta, anzi la vena di follia del “Dream Team” nel rischiare sempre l’uno contro uno, il lancio o la verticalizzazione spettacolare (chi è abituato al Canone del “tiqui-taca” si sorprenderà a vedere quante volte quel Barça cercava il lancio lungo o il cross) lo allontana dal controllo tirannico del Barça di Guardiola, ma certamente ne è l’ispirazione, avviando una rivoluzione totalmente distinta da quella di Arrigo Sacchi, nonostante molti discorsi mischino i due allenatori.

Laddove Sacchi infatti puntava a controllare lo spazio per arrivare al pallone, Cruyff partiva dal dominio del pallone per poi controllare lo spazio. Non è esattamente come la questione dell’uovo o della gallina, fa tutta la differenza, differenza che passa dagli allenamenti basati esclusivamente sul pallone a un principio come quello dell’ “alejado“. Buscar al alejado, cercare il compagno più lontano (Mascherano ha detto una volta che fino all’esperienza col Liverpool era abituato a pensare che dare un appoggio al compagno significasse avvicinarsi a chi porta palla, mentre invece al Barça gli hanno insegnato che è l’esatto contrario, allontanarsi): il principio più contro-intuitivo e difficile da digerire per un giocatore che si avvicina a questo stile di gioco, perché è difficile pensare di dare un contributo fondamentale se si spende tanto tempo ad aspettare sull’ala opposta a dove si sta svolgendo l’azione, ma un principio decisivo per eludere il controllo della zona della palla cercato da Sacchi, posto che il pallone almeno per un po’ continuerà a correre più veloce degli esseri umani («Deve correre il pallone, non le gambe»).

Vedendo partite sparse, senza viverlo in diretta, il mio Barça di Cruyff preferito è quello ’92-’93 (che pure uscì agli ottavi della Coppa dei Campioni, perse l’Intercontinentale e vinse la Liga solo in extremis). Un salto di qualità ulteriore rispetto alla squadra che nel ’90-’91 dominava la Liga giocando a memoria (partita simbolo di quella stagione il 6 a 0 sul campo dell’Athletic Bilbao): se quel Barça era una macchina nell’eseguire i movimenti alla perfezione, due stagioni dopo i giocatori non eseguono semplicemente ma interpretano un’idea di gioco, con un piacere contagioso che i giocatori, nessuno escluso, trasmettono nel sentirsi protagonisti in ogni momento: ancora senza Romário, spesso senza centravanti di ruolo e con tutti che possono entrare in area avversaria.

Anche al netto dei condizionamenti dati dal contesto dell’epoca (in quel periodo nessuno pressava l’inizio dell’azione, e l’organizzazione difensiva generale era decisamente più rilassata rispetto a quella della Liga attuale), il fascino di quel Barça non sta solo nel riconoscere in nuce le tendenze del calcio “di possesso e di posizione” attuale, ma addirittura nel suggerire o spingerti a immaginare ulteriori sviluppi futuri. Vedere una partecipazione offensiva fuori dal comune in tutti i giocatori, vedere un terzo di difesa come Ferrer che avanza fino alla trequarti, chiede triangolo ed entra in area di rigore ti fa immaginare che magari in futuro i difensori non solo verranno usati per portare palla, attirare avversari e filtrare passaggi (i difensori come registi, l’evoluzione più “estrema” finora riscontrata del ruolo di difensore centrale) ma che magari in un futuro i difensori saranno trequartisti adattati che, in quanto giocatori con più spazio per sorprendere, si inseriranno costantemente come attaccanti aggiunti, magari sostenuti da un perfezionamento della preparazione atletica e dell’organizzazione tattica; e magari le responsabilità degli attuali difensori-registi ricadranno allora sul portiere, che non sarà più solo portiere-libero á la Victor Valdés o Neuer, ma portiere-regista che porterà palla per creare superiorità, chi lo sa…

Vedere il calcio di Cruyff libera l’immaginazione, e raccoglierne l’eredità non significa ricalcarne il modulo ma piuttosto coglierne lo spirito, e cioè mantenere sempre viva la possibilità di creare qualcosa di nuovo, quella che quando perdi diventa immancabilmente “presunzione” o “pretenziosità”, ma che qualcosa lo lascia. Non è più di moda dirlo, ma mi sono emozionato a vedere il Bayern, l’imperfetto Bayern di Guardiola, portare i difensori centrali all’altezza della trequarti avversaria: mi emoziona questo tipo di calcio perché in ogni giocatore, fino ai più arretrati, avverti sempre quella sensazione, non riscontrabile in nessun’altra squadra, di poter contribuire in maniera decisiva ad un’azione da gol. Un’idea di gioco che non è l’unica valida ma è nobile perché, si può dire con ragionevole certezza, prima ancora del risultato genera fiducia in chi vi contribuisce… Spingersi sempre più in là, non appiattirsi sull’esistente, è un proposito spesso destinato a un misero naufragio fuori dal campo, ma finché si resta lì dentro almeno ci garantisce un’alternativa quando sarà finita tutta l’eccitazione per cholismi e gegenpressing.

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