BORDONALI: «CI HANNO PORTATO VIA IL CICLISMO»


«La Sky disturba? Ce ne vorrebbero altre dieci»

di Alessandra Giardini
Tuttobiciweb, 3 febbraio 2018

«Aspetta che mi tolgo la giacca e mi siedo, perché io qualcosa da dire sul ciclismo ce l’ho, però voglio che la scrivi». Due ore dopo, Fabio Bordonali prende fiato e si mette a ridere. «Scusa, ti ho travolto. Ma sono così arrabbiato che ogni tanto devo dirlo a qualcuno».

Torniamo indietro soltanto un po’, quel che basta a ricordare che Bordonali ha corso fra i professionisti per dieci stagioni, dal 1985 al 1994, «mi ci sono trovato quasi inconsapevolmente, ero destinato a fare il geometra nell’impresa edile di famiglia e invece un bel giorno correvo con Moser e Saronni», e poi si è ritrovato quasi per caso a mettere su una squadra con due colleghi (Leali e Gipponi, ndr), «ma ero antipatico e così mi ritrovato da solo, per ventidue anni ho fatto l’artigiano, nel senso che la squadra era mia e facevo tutto, hai presente? Non si muove foglia che Bordonali non voglia», e a un certo punto è finito tutto. Ma questa volta non per caso, e allora capite il perché di tanta foga. 

«Sono arrabbiato perché ci siamo fatti portare via il ciclismo, che era il mio sogno, la mia passione. Il mio ciclismo è finito nel 2004, anche se non ci volevo credere. E mi fa tenerezza leggere che Ferretti e Corti sono ancora lì che vivono di sogni e vanno a chiedere agli imprenditori 10-12 milioni di euro e non hanno un prodotto credibile da vendere, sono loro i primi a dirlo. Mi fanno tenerezza, ma anche rabbia. Non puoi andare a chiedere senza aver nulla in mano, e in mano non puoi avere niente perché non esistono regole certe e uguali per tutti. Come sta dimostrando anche il caso Froome. Ho letto anche l’intervista di Lefevere, manager attento e di grande esperienza che guida una grande squadra [la Quickstep-Floors, ndr]: diceva che il Pro Tour è stato una grande invenzione e due righe dopo sosteneva di aver girato l’Europa l’inverno scorso senza aver trovato un euro di sponsorizzazione. Un discorso secondo me contraddittorio». 

- Ci siamo fatti portare via il ciclismo cosa vuol dire? Chi ce l’ha portato via?
«Io me le ricordo le riunioni carbonare, quando Verbruggen ci convocava alle sei del mattino, alla vigilia della Sanremo. Io, Corti, Ferretti, Boifava, Stanga. Per convincerci che il Pro Tour era il futuro. Nel 2004 la Liquigas voleva rientrare, Paolo Zani (il signor Liquigas, ndr) mi invitò a cena e mi chiese di fargli un progetto Pro Tour. Glielo feci ma per una squadra GS1 di alto livello. E lui mi disse: ti do 2 milioni in meno l’anno, perché Verbruggen mi ha garantito che arriveranno ogni anno 2 milioni dai diritti tv. Non sono mai arrivati, come sapevamo entrambi. Non ci mettemmo d’accordo, anche perché io sono egocentrico e mi piaceva prendermi le mie responsabilità. Così lui prese Amadio e la Liquigas fu la prima a rompere il fronte. Poi si sono allineati tutti».

- Lei ha sempre detto che era un sistema che non poteva funzionare, bisogna dargliene atto.
«Noi avevamo il ciclismo italiano, un prodotto fatto in ottant’anni di storia, da Girardengo in poi. E’ venuto giù questo politico da Aigle, uno che non ha mai fatto il marciapiede, ci ha detto che sapeva fare ciclismo meglio di noi e noi gli abbiamo consegnato tutto a scatola chiusa, ci siamo giocati tutto».

- Ce l’avevano col ciclismo italiano?
«Eravamo il movimento più forte, se fossimo rimasti uniti avremmo dato fastidio, ma si sono fatti ingolosire da promesse di investimenti milionari. Non si è avverato niente. Non hanno capito che stavamo meglio quando stavamo peggio».

- Chi è che conta adesso nel ciclismo?
«L’ASO è una forza, fa business e salva il ciclismo francese. Le squadre francesi corrono sempre, anche se non vincono da una vita. E adesso si sono eletti anche il presidente dell’UCI».

- A noi cosa rimane?
«Gli eroi, come li chiamo io. Reverberi, Savio. Gente che ogni anno mette su una squadra senza avere la certezza di quali corse farà. Organizzatori come Adriano Amici, che tengono in piedi le corse italiane. E come non fare un monumento alla famiglia Galbusera, proprietaria della Lampre, che negli ultimi 25 anni ha attraversato tutte queste pseudorivoluzioni ciclistiche investendo un mare di quattrini nel nome della passione per il ciclismo e alla fine da signori quali sono se ne sono andati in punta di piedi senza ricevere un Oscar alla fedeltà da quei burocrati che inventano centinaia di riforme assurde che secondo loro migliorano il movimento. Quando ho visto che alla RCS è arrivato Cairo ero felice: finalmente un imprenditore, mi sono detto. L’artista italiano che ha pensato la partenza del Giro da Gerusalemme fa storcere il naso ai francesi, perché non ci hanno pensato prima loro. Noi italiani siamo artisti, inventori. Poi però non sappiamo sfruttare quel bendidio che abbiamo. Abbiamo Nibali che ha vinto quattro Grandi Giri e due Lombardia e in Italia non lo sa nessuno: ma è uno che dovrebbe fare il portabandiera alle Olimpiadi. Parliamo ancora di Pantani, ma Nibali ha vinto molto di più in un ciclismo molto più difficile: è sempre stato uno sport per masochisti, ora vivi 365 giorni l’anno agli arresti domiciliari, e allora si andava in bicicletta, adesso vanno alla velocità di una formula uno. Nibali è come Tomba, come Valentino: dovrebbe essere un idolo nazionale, però dovrebbe correre per la FCA, come la Ferrari. Invece corre per il Bahrain».

- Quando Bordonali rallenta, hai giusto il tempo di fargli una domanda. Non importa quale.
«Non ho mai avuto vita facile, sono sempre stato troppo diretto. Ma fortunato: perché è tutta la vita che sono libero. Prima la salute, poi la libertà: senza queste due cose non vai da nessuna parte. Ho appena compiuto 54 anni e faccio il papà, Giorgia farà 13 anni a marzo, Simone ne ha 8, per fortuna li ho avuti tardi perché con la vita che facevo prima non me li sarei goduti. Così come ho potuto stare vicino a mia madre fino alla fine, se n’è andata a giugno ma sono sereno perché so che si era stancata. E adesso sto vicino a mio padre. Poi mi occupo da dilettante di economia, mi appassiona molto. E tengo d’occhio il ciclismo, quello sempre».

- Da lontano però.
«Lo guardo in tivù. Alle corse non vado perché non mi diverto più, ma io sono sempre stato anomalo, pensa che mi piaceva di più allenarmi che correre. E da quando ho smesso, nel ’94, non sono più montato in bicicletta. Però le corse le guardo per rispetto, per quello che mi ha dato il ciclismo, che mi ha fatto vivere bene e mi fa ancora vivere bene. Ho imparato da tutti, ho girato il mondo, mi sono costruito come uomo. E poi il ciclismo è una metafora della vita: cadi, ma poi ti rialzi. Ma è come quando ti innamori di una donna e scopri che ti tradisce: magari fai di tutto per tenertela ma quando capisci che è finita l’importante è non avere rimpianti. Io non lo voglio il ciclismo di una volta, voglio dieci regole uguali per tutti. Tutti dicono: Sky rovina il ciclismo. Io preferisco tenermi Sky e quelli che ci mettono dei soldi e buttare l’Uci. Quando Sky se ne andrà, e prima o poi succederà, lascerà un vuoto. Ce ne vorrebbero dieci di Sky. Invece tutti la criminalizzano, ma scommetto che se facessero un casting per manager si metterebbero tutti in fila. Spero soltanto che Sagan non muoia di noia in questo ciclismo, perché se no se ne va anche lui: si vede che Peter è un uomo libero, uno che si diverte, che non fa drammi se perde, che sa che questo in fondo è un gioco. Anche lui è passato da qui ma non è rimasto in Italia. Sai, io Pantani non l’ho mai avuto nella mia squadra però quando andavo a vendere il ciclismo dentro ci mettevo anche Pantani, la gente voleva investire nello sport dove c’era lui. Magari è un caso che il mio ciclismo sia morto nel 2004 come lui, ma forse no». 

- Nessun rimpianto ma tanta rabbia, quella sì.
«L’unica cosa che mi urta davvero è il tempo che passa troppo veloce, e invece c’è gente che pensa di vivere in eterno. Però non voglio che qualcuno pensi che parlo così perché sono invidioso, no, io il ciclismo di una volta non lo rivoglio indietro, io non guardo al passato. Però mi ricordo quando c’erano 15-16 squadre italiane, non è passato mica tanto tempo. La crisi non c’entra, avevamo un ciclismo che era una meraviglia. Ora i corridori sono sotto stress tutto l’anno per corse che non contano niente, portano solo soldi e voti: all’UCI però. Ma le corse che contano sono quelle che hanno dietro la storia, la tradizione: è così in tutti gli sport, anche nel ciclismo. Una volta gli organizzatori pagavano le spese ai team, ora devono dare i soldi all’Uci e le squadre devono pagarsi tutto. E’ come se chiedessero i soldi a Brad Pitt per fargli fare i film. Non c’è più niente da mungere, della vacca è rimasto soltanto lo scheletro. E noi eravamo abituati a divertirci, adesso invece non ride più nessuno».

- Quanto è stato colpa della crisi e quanto delle regole del ciclismo?
«La crisi c’è stata per tutti, ma se hai un prodotto sano lo vendi. Se io fossi il manager di una multinazionale e mi vedessi arrivare Bordonali che vuole farmi investire nel ciclismo 10-15 milioni senza garanzie gli direi: scusi, ma lei ha dei problemi? Squinzi, il più importante sponsor italiano di sempre, è uscito dal ciclismo dopo che gli hanno escluso Garzelli dal Giro in maglia rosa senza tutele dal movimento. Se tu vai da Marchionne e lo convinci a investire nel ciclismo - per la FCA 20-25 milioni sono come strappare un pelo a un cocker - lui entra e deve vincere perché quello vuole. E non trovarsi magari un corridore positivo che gli rovina tutto. Ma adesso che garanzie hai? Sei in balia del primo fenomeno che apre bocca. Noi gestivamo le squadre di ciclismo, ed eravamo noi a dover chiedere le regole per lavorare al meglio, invece le regole ce le siamo fatte calare dall’alto senza battere ciglio. E’ come se uno giocasse in Serie A e non ci fossero più i tre punti per chi vince: oggi tre, domani due, forse uno. E prima di cominciare non sai neanche contro chi giochi, se contro il Milan o contro la Spal. Secondo te ci starebbe qualcuno?».

- Quando ha capito che non si tornava più indietro?
«Fino al 2008 c’erano alcuni Paesi, oltre all’Italia anche la Francia, la Spagna, che non vedevano di buon occhio il Pro Tour. Io mi sono illuso che se non l’intelligenza almeno la povertà ci avrebbe obbligato a tornare indietro».

- Abbiamo toccato il fondo?
«E’ da un pezzo che abbiamo toccato il fondo, almeno dal 2010. Adesso scaviamo. E non ce ne rendiamo conto».

- Quando si tocca il fondo, si può finalmente risalire.
«Non vedo l’ora. Il ciclismo è lo specchio della nostra società, quello degli ultimi 15 anni è stato soffocato da politicanti che fanno politica di basso livello, che come sempre succede ha come scopo principale quello di creare confusione, disorientare e uccidere la meritocrazia. Se parliamo di Paese, io sono ottimista, sono sicuro che l’Italia ne verrà fuori. Siamo bravi a fare tante cose, la gente ci invidia. Lo dico da appassionato: l’economia sta ricominciando a girare. E poi è vero che diamo sempre il meglio quando siamo alla disperazione. E’ quando le cose vanno bene che ci lasciamo andare. Ti rendi conto? Avevamo il miglior ciclismo al mondo, era nelle nostre mani».

- Da dove si riparte?
«Bisogna recuperare identità, dignità e orgoglio nazionale. Qualcuno vuole farci dimenticare che la culla naturale del movimento è in quei Paesi che storicamente lo hanno fatto nascere e crescere per decenni. Bisogna ritornare a dare idoli e un sogno alle nuove generazioni». 

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