Fossati, la grande firma dello sport che non c'è più



di GIANNI MURA
la Repubblica - 3 dicembre 2013

MAESTRO a chi? A me? Ma vai a scopare il mare. Mi sembra di sentirlo, Mario. Il ruvido, il generoso, il grandissimo Mario Fossati. Gli sia lieve la terra. 

M'impegno a usare meno aggettivi che posso perché un omaggio, e un coccodrillo è un omaggio, non può e non deve contrariare l'omaggiato né da vivo né da morto. Il bravo giornalista è quello che scrive la verità, diceva, e la verità non c'è bisogno di infiocchettarla. 

Lui s'è regolato così per tutta la vita. È stato un testimone del tempo, e di come cambia, non solo nello sport. Ma, già nello sport, da quelli più raccontati, ciclismo e pugilato («sport di poveri e per poveri») a quello amato più a lungo (l'ippica, «che rende poveri») Fossati aveva un suo stile preciso, inconfondibile, molto diverso da quello di Brera, suo grande amico. La stessa passione per i libri, ma a Fossati non interessava scriverne. Giusto uno, su un Tour di Coppi. 

Era schivo, non umile. Anzi, era fiero della povertà vissuta da bambino, con un padre sindacalista cattolico cui il fascismo aveva tolto lavoro e passaporto. Le gite domenicali erano al Parco di Monza o allo scalo di Milano-Greco, a leggere le scritte sulle locomotive e a sognare altri luoghi. Un altro luogo sarebbe stata la Russia, l'odissea dell'Armir, la ritirata dalla sacca del Don con 40 gradi sottozero. 

Da Monza erano partiti in 14 della sua leva, tutti amici che si riunivano all'osteria Robbiati. E tornò a casa solo lui. La madre quasi non ci credeva, da tempo le era arrivata la comunicazione che il figlio era da considerare disperso. La sua marcia era durata dal 27 dicembre del '42 al 5 aprile del '43. «Sono stato fortunato, ero giovane e allenato dalle scalate. Avessi avuto cinque anni di più sarei morto». 

Era difficile fargli dire altro. Parlava bene del popolo russo, che quando poteva dava una mano, malissimo dei nostri ufficiali, i generali più di tutti, e solo l'amicizia poteva fargli sopportare il "Generale Fossati" che Brera gli aveva appioppato. Era nell'Ottavo Fanteria, Mario, e malediceva i pastrani troppo aperti al vento, le scarpe inadeguate

Ascoltarlo era come ascoltare Rigoni Stern, o Bedeschi. «Ci sono immagini che tornano a tenermi compagnia, di notte, e non voglio scaricarle su nessuno. Non sono belle, sono incubi, e me le tengo». 

Mario era un comunista di quelli puri e duri, lo dico per chiarezza, lui non avrebbe mai usato questi due aggettivi. A 90 anni sperava ancora in un mondo migliore, più giusto, e nella sua quotidiana mazzetta di giornali oltre alla Gazzetta e a Repubblica c'è stata fino all'ultimo giorno l'Unità. Non che gli importasse molto del Pd e dei Ds, era timbrato Pci e quando i reduci furono stati chiamati a riconsegnare le armi non si presentò. Una pistola però l'aveva seppellita lungo un'ansa del Lambro, «perché non si sa mai». 

Era uno del popolo, sindacalista a sua volta, e dei più temuti, insieme a Ponti e Piva, dagli editori. Dai padroni, diceva lui. E questa sua coscienza di classe l'aveva portata nel giornalismo, raccontando l'onesta fatica dei poveri. Sempre dalla parte dei corridori, non con gli organizzatori o gli sponsor, pure meno invadenti di oggi. «Anche un campione è un uomo, non un manifesto da appiccicare ogni giorno sul muro». 

Il doping su scala industriale lo aveva nauseato. Le corse, negli ultimi anni di vita, per lui erano solo quelle dei cavalli, ma si teneva informato. «Se io prima di una corsa mangio un panino di mortadella e tu un filetto alto quattro dita, è doping. Se tu hai un premio a vincere di diecimila lire e io di centomila, è doping», così diceva. 

Per quelli della mia generazione è stato un mito, ma anche un esempio. Ai primi Giri gli davo del lei, sapevo che era rischioso interromperlo mentre scriveva (lentamente, quasi misurando il peso di ogni parola), mentre Brera viaggiava a raffica. Poi ho imparato che dietro all'aspetto ruvido c'era una gran bella persona. È stato un po' come innamorarsi di un roseto. Si sa che ci sono le spine, ma quando fiorisce riempie l'aria e la vista. Ecco, questo paragone probabilmente non me l'avrebbe fatto passare, ma è un modo per spiegarlo a chi non l'ha conosciuto. Altrimenti, basta rileggerlo. Nessuna istruzione per l'uso. 


Qualche anno fa il nostro Currò ha dato la tesi di laurea su Fossati e probabilmente diventerà un libro edito dal Saggiatore. Me lo auguro, Fossati merita questo e altro. 

Non è solo sport, ovviamente, è anche una storia del giornalismo, coi tre periodi di Fossati: Gazzetta (1945/56), Giorno (1956/82), Repubblica (1982/2008). E dell'Italia: Achille Grandi, amico del padre, lo zio Anselmo Bucci, lato materno, marchigiano di Fossombrone, famoso pittore, la famiglia di ebrei che stava al piano di sopra portata via in piena notte e mai più rivista, la scuola («materia preferita: la refezione»), ma anche la Milano del Vigorelli con quelle sue parole esotiche (zeriba, embrocation), l' ippodromo di San Siro dove gli antifascisti si nascondevano meglio che in montagna (garante Federico Tesio), il 48"8 del suo grande amico Ottavio Missoni nel '37 all'Arena, quando sui 400 piani batté Robinson, Valentino Mazzola nella squadra dell'Alfa Romeo, le lunghe amicizie con Peppin Meazza e Walter Bonatti, sempre appoggiato quando esigeva la verità a proposito della conquista del K2. E Parigi come un approdo, le corse seguite da vero suiveur (coppiano, ma col massimo rispetto per Bartali e Magni), la strage di Monaco e quella di Piazza delle Tre Culture. 

«Sono vecchio, sono inutile», ripeteva, ma per i colleghi più giovani, quelli che al di là della testata s'erano abbeverati al suo modo di scrivere, la porta di casa era aperta, sempre. E andare a casa di Mario era come per un cattolico andare a Lourdes. 

Mario è stato nel giornalismo sportivo come il cinema neorealista contro i telefoni bianchi, è stato Ungaretti che invadeva il campo di d'Annunzio, è stato il lampo lungo di uno stile asciutto che andava dritto al cuore senza pretendere di andarci. Per questo, sì, maestro a te, Mario Fossati. Per quello che hai scritto, per come hai vissuto e perché non hai mai inteso essere un maestro. A una certa età si capisce che questi sono i maestri migliori, e chi non lo capisce vada pure a scopare il mare.

GIANNI MURA

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