Intervista a Tito Tacchella
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da Il Trimestre 2006
Tito Tacchella, classe 1941, grande appassionato di ciclismo, interista da sempre ma ormai da tempo abbonato al Chievo Verona, seconda squadra della città. Il giornalista e scrittore Cesare Marchi usava definirlo scherzosamente come “l’uomo che ha messo gli italiani in braghe di tela”.
Nel 1965 infatti, ha fondato insieme ai fratelli Imerio e Domenico la Carrera Jeans, azienda numero due del settore in Italia. Dice di essere tecnicamente in pensione, “se non vado in ufficio nessuno mi rimprovera”, ma è difficile credergli visto che un minuto più tardi racconta che a breve ha in programma un viaggio di lavoro con il figlio e il fratello in India. Imerio è il Presidente, il figlio Gianluca l’amministratore delegato, lui e l’altro fratello Domenico i consiglieri.
Tito Tacchella, classe 1941, grande appassionato di ciclismo, interista da sempre ma ormai da tempo abbonato al Chievo Verona, seconda squadra della città. Il giornalista e scrittore Cesare Marchi usava definirlo scherzosamente come “l’uomo che ha messo gli italiani in braghe di tela”.
Nel 1965 infatti, ha fondato insieme ai fratelli Imerio e Domenico la Carrera Jeans, azienda numero due del settore in Italia. Dice di essere tecnicamente in pensione, “se non vado in ufficio nessuno mi rimprovera”, ma è difficile credergli visto che un minuto più tardi racconta che a breve ha in programma un viaggio di lavoro con il figlio e il fratello in India. Imerio è il Presidente, il figlio Gianluca l’amministratore delegato, lui e l’altro fratello Domenico i consiglieri.
L’anno scorso (2005) il quarantesimo anniversario della Carrera, tra ricordi e memorie, abbiamo cercato di ricostruire la storia di questa azienda veronese, nata come piccolo laboratorio di sartoria e diventata poi un marchio che in Italia teme solo l’americana Levi’s.
- Com’è nata la Carrera?
«Bisogna fare un passo indietro. Io vengo da Lugo, un paesino in Valpantena, la mia famiglia era nella tradizione del trasporto: d’estate il ghiaccio e d’inverno la legna. Ricordo ancora quando la sera si caricavano le lastre di ghiaccio e poi di notte si trasportavano sui carretti trainati dai cavalli. Poi mio padre iniziò a lavorare per la Lucense, la società sorta nel 1923 che forniva energia elettrica ad una grande fetta di Valpantena».
- Anche lei ci lavorava?
«Si, dopo il diploma ho iniziato a lavorare lì come impiegato».
- Quando è arrivata l’idea di creare l’azienda?
«Lugo si trova su un territorio agricolo ingrato, incassato tra le montagne, allora non era ben collegata a Verona, per questo tante persone decidevano di emigrare, magari in altre zone del Veronese. Fu don Luigi Bodin, il parroco del paese, a lanciare l’idea di aprire una tesseria, non ce n’erano altre nella zona, mentre c’erano molte donne disoccupate da impiegare. Così mio fratello Imerio andò all’Istituto Don Calabria, prese il diploma di sarto e iniziò a lavorare».
- Lei che ruolo aveva?
«Inizialmente nessuno perché continuai a lavorare come impiegato, poi ho iniziato a dare una mano come contabile. La svolta si ebbe quando un commerciante di Lazise chiese a mio fratello di produrre 50 pantaloni al giorno. Dopo una lunga riunione di famiglia, abbiamo deciso di provare questa avventura. La stalla fu sgomberata e riempita di macchine per cucire. Ricordo ancora che mia nonna si lamentava perché le chiocce, a causa del rumore delle macchine, non facevano più le uova!».
- Che significato ha il nome Carrera?
«In un primo momento producevamo soltanto pantaloni classici, ciascun modello aveva il proprio nome. Nei primi anni Settanta abbiamo iniziato con i jeans: Carrera era il nome del modello che ebbe più successo. Ci siamo ispirati alla famosa Carrera Messicana, la corsa delle macchine che ha dato il nome anche alla Porsche. Ci piaceva, pensavamo che sarebbe stato di buon auspicio. E così è stato, quindi abbiamo deciso di farlo diventare marchio. Un sarto torinese l’aveva già registrato, ma fortunatamente l’abbiamo potuto comprare, senza problemi».
- Grande successo e poi all’inizio degli anni Novanta la crisi, come ne siete usciti?
«Sì, tra il 1991 e il 1993 abbiamo vissuto una crisi. Dopo la caduta del muro di Berlino i concorrenti si sono trasferiti nei Paesi dell’Est. Per farle capire il problema le faccio un esempio: in Italia un operaio ci costava 600 lire al minuto, nei paesi usciti dal comunismo 50 lire. Non c’era possibilità di sopravvivenza, ogni giorno ci sentivamo mancare il terreno sotto i piedi. Se avessimo venduto, avremmo potuto vivere di rendita, ma noi abbiamo voluto cercare una nuova strada per reinventarci».
- Quale?
«Già nel 1978 avevamo aperto una fabbrica a Malta, poi una in Marocco. Durante la crisi un mediatore ci propose di aprirne una in Tajikistan. L’economia nei Paesi dell’Est era bloccata, si era spezzata la rete e le repubbliche non erano autosufficienti. Il mediatore ci ha messo in contatto con gli amministratori di una fabbrica di 12.000 dipendenti. Abbiamo portato lì i nostri macchinari e abbiamo iniziato la nuova produzione.
- Non vi conveniva comprare dei macchinari nuovi?
«No, i nostri sarebbero rimasti inutilizzati, le fabbriche chiudevano quindi erano invendibili. Nel 2001 abbiamo completato la delocalizzazione ma è come se tutte le nostre fabbriche di allora funzionassero ancora. Non è stato semplice, ma abbiamo cercato di utilizzare tutti gli strumenti per rendere meno traumatico il licenziamento: cassa integrazione, prepensionamento eccetera.
- Dal 2001 la Carrerra non produce più in Italia ma è la seconda azienda del settore. Come avete organizzato la produzione?
«A Stallavena (Verona) è rimasto lo spaccio. Le fabbriche sono in Pakistan, Tajikistan, Bangladesh e Cina. Quella di Malta è stata chiusa l’anno scorso (2005); ci siamo trovati senza manodopera perché viene tutta assorbita dal turismo. In Marocco abbiamo mantenuto soltanto una partecipazione. Il capo principale è il basic, prodotto in tessuti e colori diversi, ma dagli anni novanta abbiamo diversificato la produzione che ora comprende camicie, jacket, giubbotti e accessori».
- E la vendita?
«Il 60% dei nostri prodotti viene venduto attraverso la grande distribuzione, per il resto abbiamo deciso di organizzarci così: dieci negozi Carrera in Italia e altri sei sparsi per il mondo».
- Negli anni novanta le imprese italiane andarono in crisi per il costo del lavoro, sembra invece che la nuova malattia si chiami “crack finanziario”.
«Noi italiani abbiamo un eccesso di fantasia. Si sta verificando una situazione incredibile. Guardi al caso Parmalat: piano industriale buono, industria sana e poi la voglia di strafare con il gioco finanziario. Ma ci pensa che cosa sono stati in grado di inventarsi? Solo a un popolo fantasioso come il nostro potevano venire in mente certe soluzioni».
- Anche la pubblicità è una forma di fantasia e voi negli anni Settanta vi siete affermati a livello nazionale proprio grazie alle aggressive campagne pubblicitarie. Si ricorda la prima?
«Certo. “Esplodono le trame blu”, con l’immagine di un bottiglietta di Coca Cola rivestita di jeans che scoppiava. Poi “Poveri ma belli”, “Blu basic”, “Il bello d’Italia” e ancora molte altre.
- Lei è veronese come il suo amico Giovanni Rana, cosa ne pensa della sua scelta di sfruttare la propria immagine nelle pubblicità?
«Rana è giusto per il suo prodotto. I nostri compratori sono ragazzi, né io né i miei fratelli avremmo potuto farci pubblicità da soli. Inoltre abbiamo scoperto che per il nostro target funzionano molto i cartelloni murales, sembra che abbiano più impatto».
- Si parla molto di “made in Italy”, lei che produce tutto all’estero cosa ne pensa?
«Distinguo due tipologie: il vero made in Italy da una parte e i marchi dall’altra. Per me è il marchio che garantisce la qualità, non soltanto il made. L’importante è mostrarsi per quello che si è, per questo bisogna sempre dire dove il capo è stato prodotto. Da quando è nata la manifattura, ha sempre inseguito la manodopera. E meglio che io produca in Tajikistan e poi venga a vendere qui garantendo la qualità del mio marchio, o che smetta di produrre e che i cinesi vendano i loro prodotti senza marchio qui?».
- Proprio dal concetto di qualità è nato il vostro progetto in India, di che cosa si tratta?
«Siamo arrivati in India nel 1999 con un progetto di partnership industriale. Poi ci siamo accorti che era riduttivo perché li sono evoluti nella tessitura, ma hanno un grande bisogno di creare strutture per il futuro. Così abbiamo iniziato a collaborare alla creazione di scuole per un diploma di qualità e poi è nata l’idea di creare i parchi tessili che uniscono 15.000 piccoli imprenditori. Ora stiamo trattando con il Politecnico di Milano per fare un centro di ricerca in Italia, ma insieme con gli indiani».
- Che ruolo ha la Banyan Tree, di cui lei è presidente?
«La Banyan Tree porta avanti due progetti. Il primo è tecnico ed è finalizzato all’aiuto per la costruzione di macchinari per la tessitura e per il lavaggio dei tessuti. Il secondo invece è gestionale, in quanto vogliamo aiutarli a progettare da soli gli impianti, per questo promuoviamo ad esempio, come avevo già fatto in Congo grazie all’Associazione Congo Skill, corsi dell’ICDL, il diploma informatico riconosciuto in tutto il mondo».
- Il prossimo impegno per il futuro?
«Dieci giorni in Grecia in bicicletta. Nel tempo libero faccio il supporter della Fondazione Toniolo (Centro di cultura e sviluppo dell’Università Cattolica), come lo scorso agosto [2005] anche quest’anno porto una quindicina di ragazzi a fare un tour della Grecia: Patrasso, Cefalonia, Zacinto, tutto in bicicletta. L’allenamento non mi manca, un bel giretto al mese è d’obbligo».
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