PICCOLA STORIA CRITICA DEL TIRO DA TRE



di SIMONE BASSO
Sport & Cultura, venerdì 9 aprile 2021

Il basket, in un’ottica culturale americana, è il gioco che incarna il post-moderno: così come il baseball, parente del cricket, richiama la vita rurale e i suoi ritmi dilatati e il football, il rugby scientifico, è una metafora del fordismo e dell’èra industriale.

L’esercizio codificato da James Naismith e Phog Allen rappresenta il mondo nuovo, l’abolizione della specializzazione e lo sport di squadra nel quale meglio si mescolano fase offensiva e difensiva.

Trattasi di un’idea in continuo divenire, concettualmente dinamica, caratterizzata dall’avvicendarsi di proposte regolamentari seguite dalle susseguenti creazioni tattiche.

Non abbiamo dubbi nell’indicare il momento che rese il basket esteticamente gradevole: nel 1954, Danny Biasone (paisà di Chieti...) introdusse nella contesa il cronometro dei 24 secondi.

Con quella miglioria salvò l’NBA e il futuro del gioco. Un’altra decisione che trasfigurò lo scibile cestistico fu il tiro da tre punti. Aspetto tecnico sottovalutato da molti, ma decisivo per rileggere la contemporaneità: Boris Stankovic, allora segretario FIBA (il più importante di tutti), quando lo introdusse da noi (stagione 1984-85) fece un’operazione squisitamente politica.

Copiò i professionisti americani ma pensò agli affari bavaresi: ponendo l’arco a 6,25 metri favorì le scuole dell’Europa orientale, basate sull’esecuzione pura e semplice e meno evolute nella costruzione del gioco.

Una discriminante, che ha cancellato quasi definitivamente il pensiero e il linguaggio pre-1984 (...) di esperti e appassionati. Il talento non è più solamente nel palleggio, nei movimenti col piede-perno, nella visione di gioco, nei tagli sotto canestro, nel timing, ma nello sfruttare un codice che premia a dismisura un aspetto del gioco. L’efficienza di un tiro piazzato può abolire la necessità di altre fasi.

Eppure, la tripla nacque per ragioni opposte. Il 7 febbraio 1945, nell’incontro tra Fordham e Columbia, ci fu la prima sperimentazione ufficiale del tiro da tre punti: la partita, vinta dai Lions, finì 73-58 (62-49 senza l’innovazione) e Columbia infilò undici triple contro le nove degli avversari. Alla fine del match, un referendum tra gli spettatori (!) vide il prevalere dei favorevoli (140) sui contrari (105).

L’iniziativa fu promossa dal geniale Howard Hobson, allenatore universitario che la teorizzò lavorando a una tesi di laurea: scrutinando al vecchio Madison Square Garden, si accorse che la precisione dei tentativi oltre i 22 piedi era inferiore di un terzo rispetto agli altri.

Pensò a una lunghezza che avrebbe "allargato" il campo, diminuendo la violenza dei contatti sotto i tabelloni e favorendo i piccoli, discriminati dall’atletismo richiesto.

Fu l’ABL di Abe Saperstein (Mister Harlem Globetrotters) a rompere il ghiaccio, introducendo la tripla dai 25 piedi (7,62). Questa rimase la misura idealizzata dal visionario Hobson: “In assoluto è la distanza migliore. Ci si arriverà tra pochi anni...”. Bingo, Professor Howard.

Il Three-Pointer divenne popolare grazie alla Lega dei Fuorilegge, l’ABA.


Il pallone biancorossoblù – col futuro anteriore in tasca – creò i temi principali del basket di oggi. Fu il primo a emanciparsi dall’egemonia dei centri, essendone giocoforza quasi privo, trasformandosi in uno spettacolo capeggiato dagli esterni.

L’introduzione ai 7,01 metri fu uno dei fattori di quella piccola rivoluzione: mai nessuno confuse le sette triple di Roger Brown in gara6 delle finali 1970, opposto agli LA Stars, con il 10 su 26 di Les Salvage in un rendez-vous di regular.

Il desperado di Anaheim era uno specialista e un giocatore mediocre, "The Rajah" è stato uno dei più grandi fuoriclasse di sempre: la sospensione dai 23 piedi era una delle mille soluzioni del suo arsenale tecnico.

Poi, dal 1979, venne l’NBA che distanziò il tiro frontale ai 7,20. Un lustro dopo, il metro in meno di Stankovic stravolse i canoni conosciuti dell’eurobasket.

Materializzò un gioco molto meno logico, più fiera da circo ed emotivo, con l’abuso nell’utilizzo della cosiddetta bomba: termine bellico ormai nel DNA di tutti, ma di un cattivo gusto repellente se urlato in luoghi come Oklahoma City, Bologna o Sarajevo.

Mister Pressing, al secolo Aldo Giordani, capì prima degli altri la fregatura e la ribattezzò kukkozia dopo le dodici sminestrate da un imberbe Toni Kukoc, ai Mondiali junior, contro gli Stati Uniti a Bormio.

Al contrario della polivalenza dell’asso croato, la confusione fa sì che ci si dimentichi della multidimensionalità richiesta dalla pallacanestro, in un minestrone micidiale di luoghi comuni.

Per molti, il luna park di Italia-Lituania (Atene 2004) fu il massimo del basket FIBA. Trentatré bersagli complessivi al tiro muliebre nonché ignorante, rispetto ai ventiquattro da due (con percentuale annessa da pallonesse...), certificarono il ribaltamento delle prospettive esistenti: da palla con estro a skeet con l’arancia. 

Il bordone, nato nel Vecchio Continente, con una NBA sempre più globale (giocatori e allenatori) si riversò – piano piano – tra Sternville e Silverland. I 6,71 sperimentati tra il 1994-95 e il 1996-97, il ritorno ai 23 piedi e 9 pollici (classici) dall’ultima corsa dei Chicago Bulls dinastici.

La tripla, arma parallela al post, è stata sdoganata da fattori diversi – quattro – ma decisivi nelle dinamiche della pallacanestro post-moderna.

1. La violenza di alcune squadre fine anni Novanta e anni Zero consigliò, a un’azienda che vende un prodotto per famiglie, un’inversione a 180 gradi. Il muro di Bimini, l’11 novembre 2004 al Palace di Auburn Hills: quella rissa – tra i Pacers e i Pistons e il pubblico contro i Pacers.. – preconizzò la sparizione dell’NBA machista.

2. I conseguenti cambi regolamentari diminuiranno le licenze difensive (l’aggressività).

3. Dall’altra parte del fiume, il basket percentile stava ridisegnando l’inerzia del gioco stesso. Perché la qualità degli atleti a disposizione, con il lavoro tecnico e tattico, alzava l’asticella a livelli impensabili rispetto all’evo precedente.

4. I Golden State Warriors della Death Lineup, coi dioscuri, gli Splash Brothers Steph Curry e Klay Thompson più il freak Kevin Durant, esaltarono questo processo.

Una dinastia basata anche sulla circolazione di palla frenetica e gli spazi allargati (a dismisura) da un raggio di tiro (quasi) illimitato.


La dinastia nella Baia sancì la rivoluzione.

Primi di febbraio 2021, All-Star Game (monco di pubblico, maledetto covid-19), la partitella (amichevolissima) tra i big. Curry e Damian Lillard, nel deserto, si divertono a sparare (senza sforzo apparente..) traccianti da undici-dodici metri: tirano da metà campo come una volta – nemmeno vent’anni fa – si faceva da sei.

Un’altra razza.

Sono “piccoli”, velocissimi, palleggiano come frombolieri, uno (Curry, il più forte tiratore di sempre) tira in elevazione, l’altro (Dame) ha un jumper compattissimo, elegante.

I due pure schiacciano, al pari del trentaseienne Chris Paul. Hall of famer dell’altro ieri, giustamente celebrati, al loro confronto a rivederli oggi paiono strappati alle minors.
La crescita gestuale, istintiva, nel movimento del j – e della sua preparazione (ballhandling, jab e back step eccetera) – è irreale: la lega di Bradley Beal, Devin Booker, Luka Doncic, Jayson Tatum..

Come scriveva recentemente Kevin Arnovitz, di ESPN, in un meriggiare pallido e assorto qualunque a Milwaukee, tra Bucks e Wolves, abbiamo contato 96 triple complessive.

Una ogni mezzo minuto: un incontro normale dell’NBA basata sul tiro e la transizione.

L’esplosione del fenomeno ha qualcosa di esponenziale: due settimane fa, e il calcolo si aggiornerà all’insù, i tiri da tre erano il 39,4 % sul totale dei tentativi dal campo.

In nove anni, la massa critica delle triple è aumentata del 61% (!). In Europa, al piano superiore (l’Eurolega), siamo più morigerati ma nemmeno troppo: il Khimki ’20-21, su 28 match, col minutaggio NBA lo cronometreremmo sui 33,2 tiri da tre ad alzata.

E il Real Madrid, 29 partite, sarebbe a 12.12 segnati (10.1 nella realtà dei 40 minuti).


Gli Utah Jazz di Quin Snyder, una meravigliosa macchina da canestri di pick-and-roll e "quattro" fuori, nelle prime 36 di questa stagione è a 17.1 triple imbucate ogni sera e col 39.8 %.

Difendere, con le regole che (de)limitano i contatti e un Donovan Mitchell in entrata, è un’impresa impossibile.

Vent’anni di comma per favorire l’attacco, e uscire dall’uglyball delle serie rileyiane Knicks contro Heat, e il problema sta diventando opposto.

Contese monodiche e statistiche individuali dopate.

Triple doppie come piovesse a Seattle.

I rimbalzi, con l’abiura ai lunghi in post (con qualche doverosa eccezione...) e la parabola dei tiri da otto (nove) metri, ignorano le vecchie carambole e finiscono – di più – nelle grinfie degli esterni.

Quelli non "contestati", tanti (troppi) perché chi sbaglia in attacco rincula per evitare il “7 seconds or less”, gonfiano le cifre (e i contratti) dei Russell Westbrook.

Provate a fermare questi Brooklyn Nets: il migliore nell’uno-contro-uno (Kyrie Irving), un Professore dell’alto-basso (e scarico: James Harden) più Durantola.

Dopo 38 incontri, il Barba nel motore, erano al 40.8% dall’arco: un numero che genera uno spaventoso (per gli avversari) 59.6% da due (e in più, anche falli e liberi).

Scacco matto.

Dietro le quinte, captando l’aria che tira (e interpretando le tavole sacre della legge, ovvero i dati di ascolto e gradimento), molti allenatori e giocatori sottolineano l’omologazione imperante. Il gioco, se non è punto a punto, è diventato ripetitivo e sbilanciato: l’accento sulle triple (o il lay-up) conviene troppo.

Sdoganeranno il vituperato handchecking per ridurre gli adepti di Harden? Una proposta anonima, ma che sta guadagnando popolarità, vorrebbe issare a venti tentativi dall’arco – nei primi 42 minuti – il tetto massimo. Dal ventunesimo, un tiro da otto metri varrebbe comunque due punti: come fossimo ancora nel 1978. La sperimentazione partirebbe dalla lega di sviluppo.

Il nuovo bordone non inciderebbe sui fuoriclasse alla Curry o Doncic: tali rimarrebbero, battendo forse altre strade – più varie – per segnare e creare.

Sembra evidente che si debba riprogrammare qualcosa: lo spostamento alla piastrella originale, da otto metri, cancellando i (due) lati, o addirittura l’abolizione del bonus. Il premio dovrebbe andare alla versatilità, di questa curiosa atletica leggera giocata.

Per l’avvenire si rivaluterà il tiro a due mani, adattandolo alle nuove esigenze: il cestista di dopodomani sarà bimane.

Sul lato sinistro scoccherà il j mancino, su quello opposto userà la destra.

Alcuni aboliranno le posizioni, con cinque all-around senza problemi di rotazione, altri costruiranno una cultura collettiva solo di specialisti.

Il basket deve avere nostalgia del suo futuro?

SIMONE BASSO

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