Perché ieri sera ho riguardato Come eravamo. Così Robert Redford e Barbra Streisand hanno plasmato il mio sguardo sull’amore, la moda e la libertà


La notte in cui Sydney Pollack tagliò 5 scene senza avvisare nessuno e la passerella di Prada del 2017 che rievoca lo stile combattente dei Seventies: tagli e ripristini di una storia d’amore che resta aperta e politica

La gentilezza come ultimo atto di stile: perché rivedere il film Come eravamo, dopo la morte di Robert Redford

Vogue Italia - 17 settembre 2025

Quando ho saputo che Robert Redford se n’era andato silenziosamente, durante il sonno, nella sua casa a Sundance nello Utah, ho subito ripensato a quello che, almeno per me, era il suo film-simbolo: Come eravamo. Per tutto il pomeriggio non ho desiderato altro che andare a casa e accendere il video per riguardarlo in solitudine. Per molti, Redford era il volto del cinema indipendente, il fondatore del Sundance Film Festival, l’attore di film indimenticabili come La mia Africa e La stangata. Per me, però, Redford resterà per sempre Hubbell Gardiner, l’uomo biondo e affascinante di una pellicola che ha segnato un'epoca. Un film che mi piace nominare con il titolo originale The Way We Were, perché evoca con più forza la nostalgia per il passato – letteralmente è “il modo in cui eravamo” – e perché è anche il titolo di una delle canzoni più potenti della storia del cinema, interpretata proprio dalla Streisand. Cosa insegna questo film? Che l’amore non è sempre sufficiente, ma che la bellezza e la convinzione possono coesistere, anche quando si graffiano. Che l’amore, quello vero, è responsabilità: un sentimento che puoi scegliere di onorare persino quando ti sfugge.


Il regista Sidney Pollack dirige Robert Redford e Barbra Streisand 
al Plaza Hotel di New York durante le riprese di "Come eravamo". 
New York Daily News Archive/Getty Images

Ma è veramente una storia d'amore?

Come eravamo del 1973 (il prossimo 19 ottobre compirà 52 anni), diretto da Sydney Pollack, è un ritratto generazionale di un’America divisa tra ideali e privilegi. Katie Morosky (Barbra Streisand), attivista politica ebrea, e Hubbell Gardiner (Robert Redford), scrittore Wasp dallo charme irresistibile, si incontrano al college negli anni Trenta, si ritrovano poi durante la Seconda guerra mondiale e si scontrano nell’era del maccartismo e delle blacklist di Hollywood e poi negli anni Sessanta nel pieno della contestazione per il riarmo atomico degli Stati Uniti. Le loro differenze non sono solo caratteriali: sono politiche, sociali, esistenziali. Katie lotta per un mondo più giusto; Hubbell scivola attraverso la vita con grazia, ma senza impegno. E c’è una battuta che tengo da sempre come un talismano: «Le persone sono più importanti dei loro principi» dice lui. «Le persone SONO i loro principi» risponde lei. Molto più di un vezzo retorico: è la posizione del film, il nervo scoperto.






Barbra Streisand, Robert Redford, in una scena del film, 1973 
Courtesy Everett Collection

Ho visto questo film per la prima volta da adolescente e non l’ho dimenticato. Per la prima volta ho riflettuto sul fatto che l’amore non è sempre “lieto fine”, ma una scelta quotidiana tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. E questa scelta, nel film, si svela nella scena finale, quando Katie sistema i capelli di Hubbell e gli dice: «Quella ragazza è molto attraente, porta anche lei quando vieni a trovarmi», «Non credo che verrò, non credo» dice lui. È un addio che parla di rispetto, non di rimpianto. È lì che ho capito che alcune storie finiscono non per mancanza d’amore, ma perché il tempo non è abbastanza grande per contenerle.

Quella notte in cui Sydney Pollack tagliò le scene cruciali del film

C’è un altro dettaglio che oggi pesa di più. Per decenni Streisand ha lottato per ripristinare alcune scene tagliate che intrecciano politica e sentimento: la richiesta a Hubbell di restare almeno fino alla nascita del bambino, la protesta universitaria (nella versione estesa collocata alla Ucla). Nel 1973, la sera della première, Barbra Streisand si accorse che Sydney Pollack aveva tagliato senza dirglielo cinque scene cruciali, quelle che spiegavano perché i protagonisti si erano lasciati (cosa che infatti rimane ambigua in tutta la storia e per molti è il vero colpo da maestro del regista). Lo fece in fretta e furia in una notte, prima della proiezione e lei non lo perdonò mai più. Nel 2023, per il 50º anniversario, Sony ha pubblicato una versione estesa del film che reinserisce alcune scene tagliate nell’edizione originale. Queste sequenze, come racconta Streisand nel suo memoir, approfondiscono il conflitto tra ideali e relazione, restituendo spessore politico alla narrazione. E rimettono al centro la domanda che percorre tutto: quanto possiamo piegarci per amore senza smettere di essere noi?


Robert Redford e Barbra Streisand in una scena del film, 1973 / ipa-agency.net


Hubbel e Ketie sulla spiaggia del Pacifico
I maglioni Fair Isle di Hubbel di Redford, il cappotto cammello di Streisand nella scena finale

Il guardaroba del film è una sceneggiatura visiva delle epoche che attraversa. I costumi portano la doppia firma Dorothy Jeakins (che iniziò il lavoro) e Moss Mabry (che lo completò). Streisand, qui, cambia sessantadue volte gli abiti: ogni passaggio sposta il suo baricentro e ci dice da che parte sta e cosa esprime, attraverso gli abiti, la sua evoluzione tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta. Redford/Hubbell incarna un’estetica atletica e classica: maglioni Fair Islemulticolore (ispirati alla tradizione britannica), tennis sweater avorio con scollo a V bordato, dolcevita panna a nido d’ape nelle scene in riva al Pacifico, pantaloni chiari e uniformi militari impeccabili. Il suo stile parla di un’America classica, di un codice di appartenenza alla borghesia Wasp (White Anglo-saxon Protestant). Un quiet luxury ante litteram, quei toni panna e biscotto, la maglieria ben fatta, le linee nette che oggi rivediamo amplificate nei marchi come Brunello Cucinellio Loro Piana, tra tessuti pregiati e capi neutri. Hubbell è un uomo sicuro di sé che non ha bisogno di sforzarsi per essere ammirato. Katie/Streisand è l’altra faccia della medaglia. Il suo tailleur pantalone bianco con top lilla è l’essenza dell’eleganza militante. Poi bluse malva, pantaloni a zampa, abiti dalle spalle strutturate. È uno stile pratico, battagliero ma anche raffinato come richiede l'epoca: vestiti che permettono di muoversi, lavorare, lottare. Nel finale al Plaza Hotel, indossa un cappotto cammello svasato con dolcevita marrone e una “bubble perm” (un tipo di permanente che crea ricci piccoli, voluminosi e "a bolla"), che è entrato nella storia del costume. I capelli, all'inizio disciplinati, diventano via via più liberi, come se non avessero più bisogno di compiacere.


Robert Redford con Sydney Pollack sul set 
Courtesy Everett Collection

Se rivedi oggi il film, senti la risonanza nel presente. Prada nell’Autunno Inverno 2017 ha rimesso in passerella una grammatica Seventies attraversata dall’idea che il privato sia politico: lane dense, maglierie che pesano nelle mani, una femminilità che non si piega all’ovvio. Non è un omaggio letterale, ma un’eco di quella determinazione vestita che The Way We Were ha scolpito nello sguardo di molte di noi.


L'iconica scena finale del film Diana Ewing, Robert Redford, Barbra Streisand, 1973 
Courtesy Everett Collection

Cosa resta di Katie e Hubbel oggi?

Come eravamo è un simbolo per chi è cresciuto negli anni Settanta e Ottantacercando di conciliare bellezza e impegno (credo che le nuove generazioni attraverso questo film potrebbero conoscere molto dei loro genitori). È un racconto sulla difficoltà di amare chi è diverso da noi e della necessità di scegliere da che parte stare quando la storia ci chiama. C’è un’altra riga che torna: «Non molli mai, vero?» «Solo quando sono proprio obbligata. Però so perdere molto bene». È la loro carta d’identità in tre battute. Non lo dico per affetto: l’American Film Institute lo fissa al n. 6 fra le grandi storie d’amore del cinema americano. La colonna sonora di Marvin Hamlisch, con la sua iconica “The Way We Were”, ha vinto l’Oscar ed è diventata un inno per intere generazioni; nel 1974 fu anche il n. 1 della classifica di fine anno di Billboard. Quella melodia è un promemoria: il passato non va idealizzato, va compreso e la nostalgia può essere anche una forza, non una debolezza.

Il college “Wentworth” del film è in realtà l’Union College di Schenectady, New York, mentre l’ultimo incontro tra Katie e Hubbell è girato al Plaza di New York, luoghi che aggiungono precisione e colore storico a una pellicola già ricca di dettagli autentici. «Che bello sarebbe se fossimo vecchi» dice lei a un certo punto, come a invocare un tempo più largo, dove tutto il resto si semplifica. «Non è mai stato senza complicazioni», restituisce lui, riportandola a terra. Ma alla fine, davanti al Plaza, resta solo un gesto. Lei che gli sistema i capelli: «Your girl is lovely, Hubbell». Fine. La gentilezza come ultimo atto di stile. Il resto, come nella canzone, lo archivia la memoria.


Barbra Streisand nel film 
Courtesy Everett Collection


Robert Redford seduto in un'aula in una scena del film 
Archive Photos/Getty Images


The Way We Were 
Courtesy Everett Collection

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