Dottrina Monroe - Tutti la invocano ma non esiste più
Tutto iniziò con il discorso del 1823 in cui il presidente USA James Monroe intimava gli europei di tenersi lontani dal nuovo continente. Quel principio servì a giustificare le ingerenze statunitensi in America Latina. Oggi però è un guscio vuoto
L’evoluzione - Il discorso di Monroe fu innalzato al rango di dottrina nel 1867, dopo la guerra civile, dal segretario di Stato William Seward
Il declino - USA addio: il Sud America è ormai entrato nell’orbita economica della Cina, che qui è il primo partner commerciale di tutti i Paesi
7 Dec 2025 - Corriere della Sera / La Lettura
Da Parigi
MANLIO GRAZIANO
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Dopo aver fatto l’imprenditore immobiliare e lo showman, Donald Trump si è lanciato in una nuova carriera: quella di «pirata dei Caraibi», ha scritto «El País America» in ottobre. Di fronte al colossale spiegamento di forze militari nella regione, all’assassinio premeditato di un’ottantina di presunti narcotrafficanti e alle minacce di invasione del Venezuela, i commentatori di tutto il mondo — e gli stessi dirigenti statunitensi — si sono precipitati a riaprire i polverosi bauli della storia per ripescare quella che, per loro, è la spiegazione: gli USA tornano ad applicare la «dottrina Monroe».
Lo storico francese Lucien Febvre considerava l’anacronismo «il peccato dei peccati, di tutti i peccati il più irremissibile». Si potrebbe chiosare che, se per gli storici e per i commentatori è essenzialmente un peccato di cattivo gusto, che lede la loro credibilità, per i politici è un vero peccato mortale.
Il presidente americano James Monroe pronunciò il suo famoso discorso — reinterpretato più tardi come «dottrina» — 202 anni fa, quando gli Stati Uniti erano una giovane repubblica di 26 Stati, praticamente disarmato: la taglia del suo esercito era 16 volte inferiore a quella dell’esercito britannico e 8 volte più piccola di quello francese. In quel discorso, scritto dal suo Segretario di Stato, John Quincy Adams, in sostanza Monroe ammonì gli europei a non rimettere piede sul continente americano dopo esserne stati cacciati nell’ondata di decolonizzazione in gran parte dell’America Latina tra il 1810 e il 1822.
Nel 1823, la preoccupazione maggiore era che i francesi, imbaldanziti dopo aver schiacciato la rivoluzione liberale in Spagna e rimesso sul trono Ferdinando VII, volessero proseguire sullo slancio, attraversare l’oceano, e restituire al re Borbone anche le colonie americane. Monroe certo non voleva i francesi di nuovo tra i piedi sul continente; ma soprattutto non lo volevano i britannici, che infatti schierarono la loro possente flotta non tanto a sostegno delle velleità di Monroe quanto a difesa dei loro possedimenti in quello stesso continente.
Fu, di fatto, la Royal Fleet a disarcionare le ambizioni di Parigi. Per questo, pur essendo anch’essi — volenti o nolenti — europei, i britannici ritennero che il monito di Monroe non li riguardasse: dopo il 1823, non solo non se ne andarono dalle Americhe, ma aggiunsero al loro impero altre due colonie, in Honduras e nelle isole Malvinas, ribattezzate Falkland.
Solo dopo la fine della Guerra Civile, nel 1865, il discorso di Monroe fu innalzato al rango di «dottrina». Il primo a farlo fu William Seward, Segretario di Stato, quando, nel 1867, i francesi furono costretti ad abbandonare il Messico che avevano invaso approfittando della guerra di secessione; Seward affermò che «la dottrina Monroe, fino a otto anni fa semplicemente una teoria, è ora un fatto irreversibile». Quello stesso anno gli spagnoli abbandonarono Santo Domingo; i russi si ritirarono dall’Alaska (in quello che fu il primo accordo russo-statunitense contro i britannici), e Londra decise di unificare i territori a nord della frontiera con gli USA creando il Dominion of Canada. Lo stesso Seward si spinse fino a dichiarare che «la futura capitale del Nordamerica dovrebbe essere Città del Messico».
La «dottrina Monroe» fu invocata di nuovo nel 1898, per giustificare la guerra contro gli spagnoli per Cuba. Ma un altro Segretario di Stato, Richard Olney, aveva già riconosciuto tre anni prima che «oggi, gli Stati Uniti, sono praticamente sovrani sull’intero continente». Nel 1904, il presidente Theodore Roosevelt aggiunse alla dottrina un esplicito «corollario» che prevedeva il diritto degli Stati Uniti di intervenire in America Latina in casi di «illeciti (wrongdoing) flagranti e cronici da parte di un Paese latinoamericano». La «dottrina Monroe», leggiamo sui libri di storia, divenne un dispositivo-chiave della grand strategy statunitense del XX secolo. Vi leggiamo anche che fu invocata per l’ultima volta all’inizio degli anni Sessanta dal presidente John Kennedy in occasione della «crisi di Cuba». Poi, distratti dal Vietnam, dal Watergate e infine dalla sconsiderata ubriacatura del fantomatico «mondo unipolare» dopo il crollo dell’URSS, fu semplicemente dimenticata. Certo, fino agli anni Ottanta, Washington fece di tutto per tenere gli investimenti tedeschi e giapponesi lontani dal «giardino di casa» latinoamericano, ma lo fece attraverso un approccio bilaterale: brusco, sì, ma mai accompagnato da un richiamo esplicito a James Monroe.
Nel corso di questo secolo, la «dottrina» si è svuotata dall’interno, conseguenza del declino relativo degli Stati Uniti. Segno annunciatore del progressivo allentamento del controllo dell’America Latina, e in particolare dell’America del Sud, fu la cosiddetta pink tide, la «marea rosa» che vide una serie di governi «di sinistra» accedere al potere in molti di quei Paesi. Gli orfani inconsolabili delle mitologie «socialiste», dopo essere rimasti aggrappati per un decennio ai brandelli del fantasma rivoluzionario di Cuba, si ringalluzzirono all’apparizione di nuovi caudillos populisti come Hugo Chávez in Venezuela, Lucio Gutiérrez in Ecuador o Evo Morales in Bolivia, e perfino al ritorno di un altro caudillo collaudato, Daniel Ortega in Nicaragua. Anche se con una sfumatura di rosa più pallido, alla dinamica della pink tide contribuirono anche Tabaré Vázquez in Uruguay, Rafael Correa in Ecuador, Michelle Bachelet in Cile, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, i due Kirchner in Argentina (Néstor e poi sua moglie Cristina Fernández), e perfino un ex vescovo, Fernando Lugo, in Paraguay. Nel 2008, in Sud America, solo la Colombia non era tinta di rosa.
Quello slittamento politico non era un’avvisaglia di «socialismo», ovviamente, ma la prova dell’emancipazione ormai definitiva del subcontinente dalla dottrina Monroe e dai suoi corollari: le classi dirigenti di quei Paesi dichiaravano di voler d’ora in poi scegliere i propri partner senza temere invasioni o colpi di Stato.
E così fu. Le sinistre, esaurito il loro compito, sono state qua e là rimpiazzate da altre coalizioni, alcune si sono incancrenite al potere, altre sono tornate invecchiate e imbolsite, altre ancora — in Colombia — tentano le loro chance. Ma, al di là del trambusto elettorale, il Sud America è ormai entrato nell’orbita economica della Cina: il gigante asiatico è oggi il primo partner commerciale di tutti i Paesi del subcontinente, anche se vi investe molto poco, lasciando questo campo ancora al dominio degli Stati Uniti.
Che cosa vuole, allora, il nuovo «pirata dei Caraibi»? Nessuno lo sa veramente, e quindi tutti tirano a indovinare. In seno all’amministrazione, c’è chi, attaccando Nicolás Maduro, vorrebbe colpire di sponda la Cina, indebolendola là dove potrebbe essere più vulnerabile; c’è chi, invece, vorrebbe semplicemente dimostrare urbi et orbi chi è il più bullo del reame; e chi, infine, pensa veramente di potersi «riprendere» l’America Latina, nella prospettiva di una nuova spartizione del mondo in sfere di influenza, e straparla quindi di una riedizione della «dottrina Monroe». Il rischio maggiore è quello — lì come altrove — di ottenere proprio il risultato opposto: spingere tutti ancora più nelle braccia della Cina.
«Concentrarsi sull’emisfero occidentale», come si legge qua e là, è solo il rigurgito di un sogno mal digerito vecchio di 202 anni; un sogno che, trasposto nel 2025, diventa peccato mortale ed è destinato a trasformarsi in incubo.

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