Cinque in uno: Kawhi Leonard




Perché l'ala degli Spurs può far vincere la nostalgia di Bryant, Duncan, Garnett. E non solo loro. Grazie al proprio gioco e allo stile

di Francesco Mecucci
Rivista Undici, 11 gennaio 2017

Se qualcuno avesse già nostalgia di Kobe Bryant, Tim Duncan e Kevin Garnett, insieme a quella di altri grandi NBA come Allen Iverson e Michael Jordan, niente paura: può ritrovare alcune loro caratteristiche incarnate in un erede di oggi, Kawhi Leonard. La straordinaria prima fase di stagione disputata dall’ala dei San Antonio Spurs – apertura con 65 punti e 10 recuperi in due partite e otto gare consecutive tra novembre e dicembre con oltre 20 punti segnati – ha attirato i riflettori su un giocatore che, per sua indole, i riflettori li schiva. Leonard, MVP delle Finali 2014, è una presenza imprescindibile su entrambe le estremità del campo, il giocatore che ogni coach vorrebbe allenare. Fisico, atletismo, tecnica, abnegazione, intelligenza: qualità che lo rendono uno dei più completi nella lega.


Attacco: Kobe Bryant

Kawhi Leonard è arrivato nella NBA nel 2011 come specialista difensivo: prima, anche per via delle enormi mani, il tiro non era il suo forte. L’aspetto sorprendente è che, in meno di sei anni, oltre a confermarsi tra i migliori difensori è sempre migliorato in attacco, sia nella media-punti, cresciuta fino all’attuale 24,1 per gara, con un incremento medio di 3,2 a stagione, sia nella padronanza dei fondamentali, grazie al duro lavoro con lo staff tecnico di San Antonio.

Il californiano è uno dei giocatori più simili a Kobe Bryant che si possano vedere oggi sui parquet NBA: le movenze agili e coordinate, la capacità di rendersi pericoloso da ogni posizione e di costruirsi da solo un tiro non possono non rievocare le evoluzioni del Black Mamba. Come quando parte in post basso spalle a canestro e va a concludere in fade away a centro area, oppure quando fronteggia l’avversario senza palleggiare e in una frazione di secondo si alza e gli segna in faccia. Il tiro da tre, che sfiora il 40% (l’anno scorso aveva superato il 44%), è pulito e ben costruito e oggi è una delle sue armi più temibili, per non parlare dell’arresto e tiro dalla media preceduto da un palleggio fluido e rapido, anche in crossover.

L’estrema ponderazione delle scelte, frutto di un’applicazione continua al gioco che lo ha reso una sorta di “intelligenza artificiale” in grado di imparare dai propri errori, gli garantisce un’elevata efficienza offensiva: Kawhi a ogni azione sembra sempre studiare e valutare tutto prima di prendere qualsiasi decisione, anche a costo di rinunciare al tiro (distribuisce 3,1 assist a partita) se pensa che non sia la soluzione ideale in quel momento. Veloce e sagace nei pick and roll, ha nel suo arsenale pure il catch and shoot, che nel basket veloce di oggi non guasta. Dalo stesso Kobe ha mutuato la grande capacità di concentrazione. E il suo agonismo non teme rivali.


Difesa: Kevin Garnett

Si tratta di due giocatori del tutto diversi. Kawhi Leonard non ha la statura, il ruolo e il trash talking di Garnett, ma in due-tre cose lo emula a meraviglia: lo spirito competitivo, la concentrazione in ogni frangente e soprattutto l’attitudine difensiva. Entrambi hanno vinto il titolo di Difensore dell’anno, una volta Kevin (2008) e due Kawhi (2015, 2016). La sua dedizione al gioco è totale e l’elevato IQ cestistico gli consente di dire la sua in una serie di situazioni, tra cui la difesa sui pick and roll, passando oltre i blocchi, grazie alla forza fisica e alle lunghissime braccia. Con una corporatura possente eppure agile – 2,01 per 104 chili – è in grado di marcare ogni ruolo, dalla point guard all’ala forte, con la sola esclusione (forse) dei centri puri, tra l’altro sempre meno presenti nella NBA.

Rapidissimo a recuperare anche quando gli capita di non tenere il primo passo dell’avversario, riesce a fare cose egregie in attacco pur avendo in testa soprattutto la difesa: quando un’azione si avvia alla conclusione, o lui stesso va al tiro e la palla è ancora in aria, in un attimo è già tornato nella propria metà campo pronto a far sentire i suoi artigli – non per niente il suo soprannome è The Claw – e a far sudare ogni possesso all’avversario diretto, che spesso è una superstar. Ci sono allenatori che decidono, in alcuni casi, persino di sacrificare dallo schema offensivo la loro punta di diamante, pur di non doverla sottoporre alle “cure” di Leonard.


Leadership: Tim Duncan

Non è semplice entrare a pieni giri in un sistema strutturato come quello degli Spurs. Può volerci un lungo e paziente apprendistato (leggi Danny Green), o qualità speciali che ne velocizzino il processo, comprensive di rispetto, fiducia in se stessi e armonia con i “cavalieri Jedi” che detengono le chiavi della squadra, entrando in sintonia con la “forza” che regola una franchigia come San Antonio, sempre competitiva da un ventennio. Tim Duncan ha costruito la sua lunghissima leadership basandola su un’intesa particolare con coach Gregg Popovich, trasformatasi di anno in anno in simbiosi totale. Leonard sta costruendo qualcosa di simile sia con i compagni sia con l'allenatore e lo sta facendo in stile-Duncan, per cui non è azzardato affermare che possa essere lui il vero erede morale del caraibico.

Una leadership esercitata con l’esempio e la saggezza, senza alzare la voce o comportarsi in modo stravagante, ma dimostrando giorno dopo giorno, in campo e fuori, come deve agire un vero professionista NBA che mette al primo posto il team, vuole sempre migliorare e non rinuncia mai alla caccia al titolo. Il suo livello di fiducia è talmente alto che Popovich lascia a Leonard libertà di scegliere cosa fare in partita, ricevendo dal giocatore stesso indicazioni e suggerimenti per migliorare questa o quella situazione. Kawhi non ama attirare la ribalta, mantiene un basso profilo anche nella vita privata, interpreta il basket come un lavoro in cui compiere quotidianamente il proprio dovere, scendendo in campo con la massima attenzione e ignorando ogni distrazione esterna. Un Duncan più basso e con le trecce.


Look: Allen Iverson

Kawhi Leonard non c’entra niente con Allen Iverson, come giocatore, provenienza, caratteristiche tecnico-fisiche ed esperienze di vita. Lampante, però, è la somiglianza nel look: l’ala degli Spurs porta le treccine che, unitamente a qualche tatuaggio sulle braccia, rivelano la sua provenienza dalla comunità afroamericana, non della Virginia come Iverson, ma di Los Angeles, dove è nato il 29 giugno 1991. Leonard proviene da una famiglia abbastanza comune, di origini umili ma dignitose, appare come un bravo ragazzo, tuttavia il suo passato riconduce alla sterminata e pericolosa periferia della metropoli californiana, sobborgo di Compton. Il look con le treccine all’indietro ha spopolato in NBA tra gli anni ’90 e i primi 2000, da Latrell Sprewell al primo Carmelo Anthony, oggi invece vanno di più rasature totali, "afro" a torre (portata a lungo da Iman Shumpert) o strane acconciature alla Elfrid Payton.


Clutch: Michael Jordan

Meglio non confondere sacro con profano, per non incappare in un rimprovero di coach Popovich, che di simili accostamenti proprio non vuole sentire parlare. Jordan e Leonard hanno in comune la predisposizione ad assumersi ogni responsabilità e a non rifiutare mai il tiro decisivo. A Leonard capita spesso, come di sbagliare delle conclusioni (l’ultima volta con Atlanta a Capodanno), ma un leader si riconosce dal volere la palla quando scotta, senza paura, senza nascondersi.

Leonard con Jordan condivide anche un tragico episodio familiare: l’uccisione del padre da parte di balordi di strada. Michael lo perse nel 1993, James fu assassinato mentre riposava nella propria auto durante una pausa di viaggio, Kawhi nel 2008 durante una sparatoria mentre Leonard Sr lavorava nel proprio autolavaggio, a Compton. Da quel momento per Kawhi, allora sedicenne, il basket ha rappresentato una fuga, un’evasione, un posto dove potersi concentrare su qualcos'altro. E così si è dedicato anima e corpo all’allenamento, fino a diventare uno dei migliori. Non è l’All-Star più appariscente della lega, però è quello che in partita fa ciò che serve per vincere. Ha rubato qualcosa a ciascuno di loro – Kobe, Duncan, Garnett, Iverson e MJ – e l’ha condensata in sé. Cari nostalgici, niente paura: un po’ del loro basket esiste ancora, basta vedere giocare Kawhi Leonard.

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