Apocalypse Now


CHRISTIAN GIORDANO - IN ESCLUSIVA per Rivista CONTRASTI
Intervista di MICHELE DI VIRGILIO

La Nazionale come immagine della nazione? 
Sì e no. Sì, perché il calcio abita lo stesso Paese che ogni giorno fingiamo di rigettare come se non fosse il nostro, non fossimo noi a farlo. Allo stesso tempo è no, perché che c’azzecca l’eliminazione della Nazionale di calcio con la malasanità, la malagiustizia, la corruzione, il «furbismo» eletto a ideologia fondante, il parassitismo, la mancanza di rispetto per le regole, una stampa e, più in generale, i media clowneschi prima ancora che imbavagliati, eccetera? Però un po’ – almeno un po’ – c’azzecca eccome, e il terreno comune è quello inaridito con mefistofeliche incompetenza, malafede, incapacità o mancata volontà di preparare le persone «giuste» per i posti giusti, e non gente arrivata lì a decidere (nella migliore delle ipotesi) senza un perché. E soprattutto un per come. Generalizzo, ovvio: ma chi di noi si sognerebbe mai di farsi operare da un chirurgo impreparato, non aggiornato, troppo vecchio o semplicemente inadeguato? Ebbene, nel calcio è spesso la norma. Essere stati giocatori non ti fa diventare per magia allenatore, voce tecnica o team manager. A qualcuno questi discorsi interessano? A me non sembra. La prova? Italianamente, tutti si lamentano, pochissimi osano fare qualcosa per cambiare le cose; e di quei pochissimi, troppi, fiutata l’aria, ci provano, sì, ma all’estero. Come dargli torto? Last but not least: staremmo qui a fare questi discorsi per un 2-0 strappato con un tuffetto del Grosso australiano di turno, una carambola fortunosa come quella dell’autogol di De Rossi a Solna, un gollettino irregolare per un offside non rilevato? Non credo. Perlomeno, non in questi termini. 

Dove ricercare le cause della disfatta? 
Forse nella nostra cultura, ma il discorso si allargherebbe ad ambiti filosofici. Se parliamo di calcio, già dal primo Lippi: abbiamo vinto a Germania 2006, evviva. Ma come? Da lì in poi cosa abbiamo costruito? Donadoni, che come c.t. era di sicuro non ancora pronto (tantomeno per aprire un ciclo) e come allenatore potrà piacere o no, ma era ed è una persona seria: gli è stato forse consentito di lavorare? Deriso e vilipeso quando non osteggiato da certa stampa tanto cara al predecessore che in privato dispensava dritte sulla formazione, il buon Roberto pensava che per fare un buon c.t. bastassero qualità e lavoro. Si sbagliava. Alla fine gli han fatto le scarpe, e dal Lippi-bis è partito il disastro sportivo di Sudafrica 2010. Altra ricostruzione con Prandelli, che come c.t. ha avuto la malsana idea di lasciare qualcosa anche come persona con il rivoluzionario «codice etico» (anche se qua e là applicato ad personam) e sul campo ha fatto tutto bene fino alla partita con l’Armenia. Di lì in poi non ci ha capito più nulla. Come Ventura con la Spagna, che ci ha massacrati più all’andata che al ritorno restando fedele a se stessa, al proprio calcio, alla propria cultura, ai propri talenti. C’è qualcuno che ha fatto dei discorsi tecnici su questo? Ma prima dell’Apocalisse? Certo, se poi Insigne è ritenuto il miglior talento italiano e con la Svezia la sua iniziativa più pericolosa è quel tiro che a momenti finisce in fallo laterale, allora vabbè. Dagli addosso a Ventura che l’ha fatto giocare troppo poco e fuori ruolo. Dei giocatori sopravvalutati o mal valutati, invece, quando parliamo? E degli pseudogiornalisti che per mestiere dovrebbero fare critica e non (solo) tifo? Perché Simone Inzaghi fa giocare Ciro Immobile titolare fisso in campionato e lo fa riposare in Europa League? Perché Di Natale faceva magie all’Udinese ma in azzurro scompariva? Si chiama personalità. Non si misura, e o ce l’hai o non ce l’hai. Non va bene neanche se ne hai troppa, perché poi sfocia nel mancato rispetto di regole e ruoli: il veterano che platealmente rifiuta di scaldarsi è il titolo di coda di una non-gestione, peraltro già delegittimata dalla riunione fra senatori con Ventura fuori della porta. Lo stesso Ventura che sul piano della comunicazione sembrava un ragazzino dell’asilo iscritto al master post-laurea, ma a 68 anni: Berardi inadatto al modulo, Balotelli ricusato prima ancora di conoscerlo (mentre il cosiddetto gruppo è fatto di santi), Jorginho e il ruolo che nel calcio di Ventura non c’è, salvo poi trovarglielo per affidargli (chiavi in mano) la squadra nella partita della vita, Gabbiadini titolare, Belotti e Immobile in campo rotti, Florenzi mezzala a sinistra, Spinazzola chiamato per la Spagna il 2 settembre senza aver giocato in campionato. Una serie infinita di autogol che un team manager e un addetto della comunicazione anche stagisti gli avrebbero evitato. Tutto questo è colpa del solo Ventura e del suo patetico attaccarsi alla clausola per non perdere la pensione. Se ci credete, accomodatevi. Come ha detto Zeman: Tavecchio e Ventura non sono scesi in campo. Vero, ma in campo ce li hanno messi loro. Allora ha ragione Trinchieri, non a caso un cervello – di basket – in fuga: in Grecia, a Kazan, a Bamberg. Ormai abbiamo perso. È un disastro sportivo – sportivo! – adesso uniamoci e ripartiamo. Né facendo tabula rasa né mediando. Perché sono non praticabili, e del tutto anacronistici. Faretabula rasa, con quella rete e radicata, secolare profondità di ammanicamenti, è impresa che va oltre l’impossibile: nemmeno è concepibile. Mediare, oggi, anche in questa Italia, è un concetto neanche più presentabile. Io voglio – no: pretendo – un presidente federale incensurato, un c.t. che non abbia un figlio procuratore; un c.t. che mai abbia dovuto anche solo patteggiare e che consideri la Nazionale il massimo traguardo della carriera; un c.t. non messo lì a fare il lavoro sporco di ricostruire e poi abbandonato a se stesso perché è vecchio e costa poco ma sa lanciare i giovani e pazienza se mai avrà esperienza internazionale; un team manager mai implicato in questioni di passaporti irregolari. E potrei continuare. Se invece vogliamo ancora abbeverarci al falso mito di «Vincere è l’unica cosa che conta», senza curarci troppo del come, queste – anche queste – sono le conseguenze. 

Per ripartire: vanno bene tutte le ovvietà (vivai e tutto il resto), ma non assurdità tipo: facciamo giocare tutte le Nazionali con lo stesso sistema di gioco. Le Nazionali sono per definizione squadre da modellare sui selezionati, ed è compito del c.t. scegliere i migliori giocatori di un Paese per ritagliare su di essi il miglior abito tattico collettivo. Anche qui, torniamo alla competenza, alla preparazione, alla programmazione. Se interessano: federazione commissionata, elezione senza i soliti noti, pannello tecnico di gente pulita e competente, e pazienza se per cause generazionali inesperta. Sbaglierà ma si farà, e potremo non ripartire ma cominciare sul serio. Come hanno fatto in Germania dopo Euro 2004. (A proposito, sul tema è uscito un libro che approfondisce i segreti della rinascita tedesca:Reboot, qualcuno in federazione lo avrà mai nemmeno sfogliato?). Integrazione, scuole dello sport, scouting. Altro che troppi stranieri e frontiere chiuse. Il mondo è cambiato, bellezza. Solo gli «Opti Pobà» non se ne sono accorti, o fingono di. Grazie, ma basta. Un’avvertenza: serve gente intelligente e moderna (come Bierhoff e Klinsmann, non un grande c.t., ma un innovatore che come tattico s’era scelto una spalla niente male: Joachim Loew), ma soprattutto servono investimenti. Non i 4 milioni dello sponsor tecnico per un conducator, ma per investire. A fondo, per non restarci.


Christian Giordano – mente, penna e voce di Sky Sport, ha scritto, tra i tanti, Maestri di calcio. I grandi allenatori stranieri (Rainbow Sports Books, 2016).

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