Se un uomo è un’Isola


OLYCOM / CESARE GALIMBERTI

GIGI RIVA © RIPRODUZIONE RISERVATA
"Mi chiamavano Rombo di tuono" - di Gigi Garanzini, editore Rizzoli
La Stampa - Nazionale

“A Cagliari sbarcai con l’idea fissa di chiedere scusa a tutti e di tornarmene a casa il prima possibile. Ero un ragazzino il classico sbarbato: forse anche per questo percepii un senso di protezione che cominciò a farmi cambiare idea Avrei scoperto poi q

Ma quell’immagine dell’eroe, che dovrebbe morire nel fior degli anni per lasciare un ricordo imperituro, nei momenti difficili ogni tanto mi è tornata
Mezzo secolo dopo quello scudetto del Cagliari e i 35 gol in azzurro, tutti continuano a chiamarmi familiarmente Giggirriva e a volermi bene

Vado per gli ottanta. Mi viene in mente sempre più spesso, a tradimento, e continua a sembrarmi inverosimile. Ma come? Ci sono arrivato ieri qui a Cagliari, con mia sorella Fausta ad accompagnarmi, a farmi da madre, da tutor, a me che non ero mai uscito dalla provincia di Varese, altro che Lombardia.
«Però lo sai, Gigi, io tra un po’ torno su perché mi devo sposare.»E lì il tentativo, forse un po’ patetico, di fare il duro: «Guarda che è Paolo che dev’essere d’accordo, mica io».

Vabbe’, mettiamo che fosse l’altro ieri, ma non quasi sessant’anni fa, è questo che è inverosimile. Perché l’ultima partita l’ho giocata che non ne avevo trentadue, e sarà anche vero che dura un attimo la gloria ma poi bisogna accontentarsi dei ricordi.

Al mondo continuo a starci bene, tra alti e bassi, come credo capiti a tutti. Ho i miei figli, i nipoti, gli amici, un sacco di gente che non mi ha dimenticato. Eppure, nelle nottate insonni, mi torna in mente ognitanto quello che scrisse una volta il grande Brera, che aveva per me una venerazione di cui per sempre gli sarò grato. Era stato lui a soprannominarmi “Rombo di tuono”, come ancora oggi mi chiamano un po’ tutti, anche quelli che quei tempi non li hanno vissuti e sono ormai la maggioranza assoluta. Mi raccontò un giorno, in una sala d’imbarco per una trasferta azzurra, che l’immagine gli era venuta a San Siro, Inter-Cagliari, noi con lo scudetto sulla maglia, vedendomi sempre più scatenato alla ricerca del gol. Come un rombo di tuono progressivo, mi aveva detto a tu per tu fra una tirata di pipa e l’altra, cui non può non seguire l’acquazzone, il temporale, lo sfogo e, insomma, la liberazione del pallone che finalmente finisce in rete. Segnai due gol quel giorno, di quelli belli, e vincemmo 1-3. Sul campo della squadra che avrebbe poi vinto il titolo, anche perché da lì a sei giorni mi ruppi, anzi mi ruppero, la seconda gamba, e il mio campionato finì lì. Stiamo parlando di un’epoca in cui con quelle difese, e quelle regole che a differenza di oggi non tutelavano per nulla noi attaccanti, il gol era merce davvero rara.

Lo 0-0 che oggi nel nostro calcio esce una volta ogni morte di papa, negli anni Sessanta-Settanta era routine. Bene, quando negli ultimi tempi facevo fatica perché le due fratture avevano lasciato il segno, e sentivo dentro di me che la carriera non sarebbe durata a lungo, Brera scrisse più o meno che gli eroi meriterebbero di morire giovani, nel pieno della loro gloria, e andrebbero tra

Gigi Riva e la folla cagliaritana: per la città e per la Sardegna è stato più di un giocatore, è stato il simbolo sportati nell’Olimpo su un carro di fuoco. Leggere quelle righe, rileggerle, e lasciarsi andare agli scongiuri fu persino banale, quanto credo inevitabile. E non ho certo dimenticato l’effetto che mi fece la notizia, da lì a una ventina d’anni, che proprio Gianni Brera era morto nella bassa Lodigiana in un’auto incendiatasi in seguito a un incidente. Ma quell’immagine dell’eroe, che dovrebbe morire nel fior degli anni per lasciare un ricordo imperituro, nei momenti difficili ogni tanto mi è tornata.

Penso al Grande Torino. A come sarebbe ricordato oggi, con tutti gli onori, se avesse vinto ancora un paio di campionati e avesse poi concluso nella decadenza il suo fantastico ciclo come sempre è successo e sempre succederà. E a come invece resterà immortale, proprio perché trasportato direttamente nell’Olimpo da quella carlinga di fuoco.

Poi, per fortuna, penso anche che mezzo secolo e passa dopo quello scudetto del Cagliari, e i 35 gol in maglia azzurra, tutti, ma proprio tutti, continuano a chiamarmi Rombo di Tuono, o più familiarmente, Giggirriva, e a volermi bene. Magari, chissà, anche ad aver voglia di leggere quello che, facendomi un minimo di violenza perché il mio motto è sempre stato la privacy innanzitutto, mi è finalmente venuto voglia di raccontare. Perché è una storia dell’altro secolo. Dunque è ormai Storia per davvero.

...

L’ho sempre detto e lo ripeto qui di mio pugno: a Cagliari sbarcai con l’idea fissa di chiedere scusa a tutti e di tornarmene a casa il prima possibile. A maggior ragione quando all’indomani del viaggio come minimo avventuroso che ho raccontato mi portarono a visitare il campo. Dove invece dell’erba c’era ’sta sabbia chiara chiara, e dove avrei scoperto col tempo che cadere non era drammatico ma nemmeno così simpatico: fermo restando che, una volta che c’era il pallone nei paraggi, non avevo più né tempo né voglia di distinguere tra erba come si deve e terra battuta. Ma il pallone era ancora lontano, quella era una visita, diciamo, di cortesia. Che comprese peraltro una proposta d’ingaggio con un buon fisso mensile: ma più in generale un’accoglienza ambientale che da una parte mi parve lusinghiera, perché si percepiva che credevano in me e nell’investimento che avevano fatto, e dall’altra aveva una componente affettuosa. Ero un ragazzino, il classico sbarbato visto che la barba non me la facevo ancora: forse anche per questo percepii un senso di protezione che cominciò a farmi cambiare idea. Per me era tutto nuovo. Intanto non dovevo andare in fabbrica ma pensare soltanto ad allenarmi e a giocare.

Poi si faceva vita comune, noi scapoli tutti insieme in una foresteria di via Diaz dove gli sposati arrivavano spesso e volentieri perché lì ci si divertiva di più. E capii poco per volta, ma tutto sommato abbastanza in fretta, che quello era il posto in cui ricominciare a vivere. Si mangiava insieme, si condividevano sensazioni e sentimenti, si compensava la lontananza dalla famiglia vivendo in una specie di spogliatoio permanente. Ho ancora in mente il menu di una giornata tipo: l’uovo crudo a colazione, a pranzo riso, bistecca e frutta, a cena minestrone, pollo e frutta.

Avrei scoperto poi quanto mi piacesse il pesce. —


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