Gigi Riva, un sogno e un alfabeto


di Gino Cervi - 24 gennaio 2024

A ciascuno il suo. Vale anche per i sogni. Per non dire delle interpretazioni. Il mio, ricorrente da quando ero bambino, è quello di essere Gigi Riva. Sogno di aver fatto gol e di correre sotto la curva del vecchio Amsicora. Ho indosso la maglia bianca, quella con il colletto rossoblù chiuso dai laccetti. I tifosi sono folli di felicità. Io alzo i pugni al cielo. Un gesto di esultanza antico, elementare, uno di quei gesti che non hai bisogno di pensare e di provare prima. Davanti a me il muro della curva, serrato come le pietre di un nuraghe. Per loro io sono l’eroe, un eroe bello come Aiace. E allora tendo il braccio sinistro in avanti, come se impugnassi un arco immaginario. Il mio sguardo fiero si specchia in migliaia di sguardi altrettanto fieri. Fieri di loro e fieri di me. La mia maglia ha il numero 11: sembra anche quello un segno ancestrale, un graffito sul bianco delle spalle.
Lassù in alto, dove termina la curva-nuraghe, vedo cinque tifosi appollaiati sopra dei cartelloni pubblicitari: sopra uno si legge EFISIO MELONI VINI CLASSICI; sull’altro CARLO PICCIA E FIGLIE – IMPIANTI DI CONDIZIONAMENTO.
A questo punto mi sveglio.

Aveva ragione Javier Marías quando scriveva che «il pallone è il recupero settimanale della nostra infanzia». Se fossi capace di scrivere, un libro su Gigi Riva, magari un romanzo, proverei a iniziare da qui, dalle storie cinque tifosi arrampicati in cima alle pubblicità dell’Amsicora, e forse anche di Efisio Meloni, di Carlo Piccia e dei suoi figli… 
Ma io, al massimo, scrivo Alfabeti. E questo è un alfabeto dedicato a Luigi Riva, detto Giggirriva, in arte Rombo di Tuono, nato il 7 novembre 1944 e morto il 22 gennaio 2024.

A come Amsicora

Il giugno del 215 a.C., nella piana di Cornus, poco a nord di Oristano, nell'entroterra di S. Caterina di Pittinuri, un piccolo esercito di sardo-punico di non più di cinquemila uomini attaccò di sorpresa le legioni romane di Tito Manlio Torquato, forti di ventiduemila milites e milleduecento equites. Fu un massacro. Oltre tremila sardi morirono sul campo. Il loro capo era il giovane Josto. Il padre di lui, il nobile Amsicora, alleatosi coi cartaginesi, era stato messo a capo della resistenza delle popolazioni isolane contro la conquista romana della Sardegna. Amsicora aveva ordinato a Josto di aspettare; di aspettare che dal mare arrivassero le navi cartaginesi; di aspettare che lui stesso giungesse alla battaglia campale a capo dei sardi pelliti, i sardi “vestiti di pelli”, le tribù barbaricine, da sempre temutissime da tutti coloro che dal mare avevano provato a invadere l’isola. Ma i rinforzi ritardavano e Josto, come tutti i giovani che fremono e vogliono fare di testa propria, non obbedì. Josto scampò al massacro di Cornus, ma la disfatta dei sardo-punici fu solo rimandata. Poco tempo dopo, le legioni romane nella piana del Campidano uccisero sul campo dodicimila soldati sardopunici. Tra questi Josto, trafitto da una freccia scoccata da Quinto Ennio, il poetasoldato, padre della letteratura latina. Amsicora, fatto prigioniero, si suicidò. La Sardegna poteva dirsi finalmente romana, fatto salvo per le montagne della Barbagia, dove i “pelliti” tornarono ad arroccarsi, senza mai di fatto venire del tutto assoggettati. Della città sardo-punica di Cornus che, dicono splendida, fin dalla fine del VI sec. a.C. controllava le coste del mare sardo, non resta quasi traccia. Del nome di Amsicora resta invece traccia nella mia memoria dai tempi delle figurine Panini e “Tutto il calcio minuto per minuto”: ad Amsicora – suono arcaico e misterioso – era intitolato il vecchio stadio di Cagliari, dove nel 1970 i sardi vinsero il loro storico, primo e unico scudetto. E da allora il volto del mitico condottiero sardo-punico assume per me le fattezze di quello eroico di Giggirriva, da Leggiuno, lombardo di “sponda magra” del lago Maggiore, ma sardo d’elezione da quando aveva poco meno di vent’anni, forse l’età di Josto.

B come Bandini e Boninsegna

A Giggirriva piaceva guidare le macchine e correre. Aveva un debole per Lorenzo Bandini, pilota di Formula 1, morto a Montecarlo, intrappolato dentro la sua Ferrari in fiamme, nel maggio del 1967. A Giggirriva piaceva correre con l'Alfa 1600 lungo la costa che da Cagliari porta a Villasimius. Una volta con lui in macchina salì il suo compagno di squadra, e di Nazionale, Roberto Boninsegna, che quando scese decise di fare un'assicurazione sulla vita.

C come Cagliari e come Congiu Tonino

Era il 1963 e a Cagliari Gigi Riva, non ancora diventato Giggirriva, non ci voleva andare. In quegli anni la Sardegna, come ricordava lui stesso, «non era ancora la Costa Smeralda, l'Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione». Quando ci arrivò per la prima volta atterrando su Elmas sopra un aereo traballante, pensò tra sé e sé che non ci sarebbe rimasto più di un anno. Andò diversamente. Così disse in un'intervista a Gianni Mura, un quasi sardo come lui: «Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo. Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m'invitava a cena, quella dell'edicolante, del macellaio, del pastore. Quando giocavamo a Milano, a Torino, c'erano cinque-seimila sardi che arrivavano dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia. Mi dispiace di non aver tenuto tutte le loro lettere, ne basterebbe una o due per far capire perché abbiamo amato Cagliari, la Sardegna. Tutti, non solo io. E nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, senza che nessuno ci avesse mai chiesto di fare gruppo. Rappresentavamo tutta l'isola, lo sapevamo e ci piaceva». E pensare che all'inizio i tifosi lo guardavano storto perché aveva rubato il posto in squadra all’idolo locale, il cagliaritano Tonino Congiu, detto Su Sirboni, il cinghialetto.

D come De André

Giggirriva e Fabrizio De André sono arrivati in Sardegna dal Nord e ci hanno messo radici. All'indomani della scomparsa del cantautore, nel gennaio del 1999, Riva così parlava di sé e di Faber: «Eravamo molto simili di carattere... La prima volta che l'ho incontrato è stato nella sua casa di Genova. Io ero un suo ammiratore. Penso di essere stato uno dei primi estimatori delle sue canzoni. Anche lui voleva conoscermi e l'incontro fu organizzato da alcuni giocatori del Genoa. Per dire quanto fossimo simili di carattere, in quell'occasione credo che in un quarto d'ora abbiamo detto sì e no tre parole in due. Poi, dopo qualche whisky, ci siamo sciolti».

E come Europei

Il 10 giugno 1968, allo Stadio Olimpico di Roma, la Nazionale italiana gioca la finale del Campionato europeo. La fase finale del torneo era a quattro squadre: due partite secche, semifinale e finale. Riva, fuori forma, non gioca la semifinale contro l’URSS che finisce 0-0 dopo i tempi supplementari. Il regolamento non prevede i calci di rigore, ma il sorteggio per lancio della monetina. Fortunosamente passano gli azzurri. In finale c’è la Jugoslavia: anche in questo caso, il commissario tecnico, Ferruccio Valcareggi, non schiera Riva tra i titolari. Ma anche in quel caso il risultato resta in parità, 1-1, alla fine dei supplementari. In questo caso non si ricorre al sorteggio né ai calci di rigore. La partita viene ripetuta due giorni dopo. Riva questa volta è in campo: è la sua settima partita in maglia azzurra e nelle precedenti sei ha segnato già sei reti. Dopo 12’ segna il gol del vantaggio. Alla mezz’ora raddoppia Anastasi e l’Italia è campione d’Europa. Riva ricordava così quella serata nel suo ultimo libro Mi chiamavano Rombo di Tuono (2022), scritto con Gigi Garanzini: «Eravamo campioni d’Europa, lo ero anch’io e non mi sembrava vero. Non dimenticherò mai la fiaccolata spontanea della folla. Tutto il pubblico dell’Olimpico prese i giornali che allora venivano distribuiti all’ingresso e li accese. Ho rivisto la scena in tv non molto tempo fa e ho risentito gli stessi brividi di quel 10 giugno 1968, una data che mi è rimasta nel cuore».

F come Fausta

Fausta, la sorella maggiore, è stata per Riva, orfano di padre a nove anni, e di madre quando aveva appena iniziato la carriera calcistica, la famiglia. Era la difesa dai giornalisti, che Giggirriva ha sempre preferito evitare, anche di più dei più ruvidi e spigolosi terzini. Perché non gli è mai importato nulla di comparire sui giornali. Così Fausta intratteneva i malcapitati, facendoli attendere in salotto, preparando loro un caffè, nell'attesa del rientro in casa di Gigi: che spesso non tornava affatto.

G come Gol

Sì, ma quale? Quello contro la Jugoslavia, in nazionale, il 10 giugno 1968, che aprì la strada alla vittoria nell'Europeo? O il gol di testa in tuffo, sempre in maglia azzurra, a Napoli, contro il Galles, dove Gigi sembra nuotare in volo sullo sfondo delle tribune gremite del San Paolo? O i due che stroncarono a San Siro l'Inter, nell'ottobre del 1970, Inter-Cagliari 1-3, l'anno dopo lo scudetto, poco prima del suo secondo terribile incidente sul campo (vedi lettera seguente)? Oppure la leggendaria rovesciata allo stadio Romeo Menti di Vicenza, il 18 gennaio 1970, icona di un calcio ancora meraviglioso, simbolo degli embyciclisti di tutto il mondo. «Em bycicleta è un gesto tecnico e atletico che racchiude il senso d’imponderabile tipico della “favolosità” del calcio, e in genere dello sport. “Andare em bycicleta” è dunque una prova di eccellenza che resta impressa nella memoria; è una sfida alla normalità, alle leggi della materia, in senso fisico. Ma anche in senso retorico, per tentare di librarsi lontano dall’insostenibile pesantezza della chiacchiera sportiva. È acrobazia, è follia dell’inconsueto, è guardare il mondo alla rovescia, e leggere il contrario di quello che i padroni dello sport vorrebbero farci vedere. È anche, come scrive Gianni Brera, «un salto mortale all’indietro», forse nel passato quando em bycicleta ci andavano Peppin Meazza e Silvio Piola, Carletto Parola e Gigi Riva...». Così si leggeva in un blog di scrittura collettiva ormai chiuso da tempo che aveva deciso di chiamarsi, forse un po’ troppo pomposamente, Em Bycicleta. Presidio di fabulazione sportiva (dicembre 2003).

H come Hud e come Hof

Nel 1963 era uscito Hud il Selvaggio, un film di Martin Ritt, con un affascinante e ribelle Paul Newman. Giggirriva i compagni di squadra del Cagliari lo chiamavano Hud. O come Norbert Hof, difensore del Wiener Sport Club e della Nazionale austriaca che il 31 ottobre 1970 con una scellerata entrata da dietro gli spezzò tibia e perone della gamba destra.

I come Ichnusa

L'“Isola a forma di orma di piede”: Ichnusa, la chiamavano i greci, molto tempo prima di scoprire la birra. Giggirriva, come una Cenerentola col numero 11, sessant’anni ha fatto combaciare il suo piede sinistro sopra quell’orma e ha scoperto che era come se fosse stata sempre la sua.

L come Leggiuno, come Legnano

Sponda lombarda del Lago Maggiore, ovvero sponda magra, rispetto ai sciuri della sponda piemontese. E magra davvero è stata la vita di Luigi Riva bambino e poi ragazzo. Il calcio lo ha portato lontano, ma prima ha dovuto passare per Legnano e dalla sua squadra con quella singolare maglia lilla: stagione 1962-63, serie C, 23 partite e 6 gol nella Prima di partire, con poca voglia, per la Sardegna.

M come Martiradonna

Mario Martiradonna, barese, difensore, fu insieme a Riva, a Pierluigi Cera e a Ricciotti Greatti, protagonista della promozione del Cagliari in serie A, nel 1963-64 e, sei anni dopo, della vittoria dello scudetto, 1969-70. All'ennesima voce di mercato che dava Giggirriva in partenza per una delle grandi squadre del Nord, quando ancora i calciatori di serie A, soprattutto a Cagliari, non avevano da scialare con lo stipendio che prendevano, Martiradonna che si era appena sposato disse al compagno: «Per favore, resta. Devo finire di pagare la cucina». Giggirriva ovviamente restò.

N come No

Giggirriva a sempre preferito dire di no: alla Juve, all'Inter. Come Bartleby the Scrivener.

O come Ossa rotte

Tibia e perone grazie a Hof, nell'ottobre del 1971. Ma già nel marzo 1967 era stato il portiere del Portogallo, Americo Ferreira Peres, a spezzargli il perone della gamba sinistra. Una volta gli capitò, accidentalmente, anche il contrario. Il 2 ottobre 1970, a Roma, durante un allenamento al centro sportivo dell’Acqua Acetosa, alla vigilia di un Lazio-Cagliari una sua fortissima staffilata – sapeva calciare il pallone a 120 km/h – colpì un ragazzino di nove, Danilo Piroddi, che stava dietro la porta e gli fratturò in due punti, ulna e radio, il braccio. Riva mortificato accompagnò Danilo all’ospedale, gli firmò un gesso e gli regalò un pallone. Due giorni dopo, il Cagliari batté la Lazio per 4-2 e Riva segnò un gol, che dedicò al piccolo Danilo.

P come Padre

Il padre di Gigi Riva, Ugo Riva, era tornato dalla Prima guerra mondiale con una medaglia al valore. Operaio in fonderia, morì nel 1953 trafitto da una scheggia di ferro schizzata via da una pressa. Come Josto.

Q come Quixote

Il Campidano come la Mancha. Giggirriva come don Quixote.

R come Rombo di Tuono e come Re Brenno

Fu Gianni Brera a battezzarlo così. Era il 25 ottobre 1970: «Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l’Inter a San Siro. Oltre 70.000 spettatori: se li è meritati Riva, che qui soprannomino Rombo di Tuono. Il Cagliari ha giocato mezz’ora, non di più. Poi si è rifatto alla difesa, cioè alla parte ancor oggi meno valida del proprio assetto. Il tripallico Riva avrebbe potuto segnare anche il doppio. Non ha voluto. E soprattutto non hanno voluto i suoi compagni, servendo fuori tempo in offside. Il gol di Domenghini era una battuta di dribbling un po' vivace su Vieri: entrava lemme lemme la palla in diagonale: Riva avrebbe potuto rubare il gol: l’istinto era quello: ma si è visto che d’improvviso ha ragionato, da leale atleta, e l’ha lasciata entrare. Domenghini sognava la degna vendetta: la gente insinuava facezie sui rapporti fra lui e Rombo di Tuono. Ecco qua. L’Inter ha ruminato forcing per quasi tutto l’incontro. Ha fatto pena fino a ingroppire. E qualcuno parlava senza vergogna di scudetto. Mancava Boninsegna: non poteva far altro che pena. Le sue punte erano da Codogno. Una mole di gioco spaventosa, monotona, lenta, assidua e oziosa: in area poi, il trepestare imponente di poveri guaglioni che non vorrei umiliare. Dieci passi per giungere in un’area ormai piena: e traversoni alti per i nani; tocchi liberatori per i nesci. Due tre palle-gol sciupate. Ma erano colpi di risposta a un knock down ripetuto tre volte, cioè quanto basta perché l’arbitro abbia a sospendere per manifestata inferiorità ...» (Gianni Brera, Il mio Gigi Riva Rombo di Tuono ha distrutto l'Inter-Codogno, "Guerin Sportivo", 26 ottobre 1970). Quando Gianni Brera, nel 1976, salutò l’addio al calcio di Giggirriva, a soli trentadue anni, scrisse: «Io vorrei solo che degli eroi autentici non si guastasse mai il ricordo. L’uomo Riva è un serio esempio per tutti. Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

S come Sigarette e come Scopigno

Sempre dall'intervista rilasciata a Gianni Mura in occasione del suo settantesimo compleanno: «Il lunedì un pacchetto abbondante, ma poi a scalare, fino a quella della domenica negli spogliatoi, prima del via». […] «[Bruno Mora] con Fabbri poteva fumare, io no perché ero l'ultimo arrivato. Allora Bruno mi chiamava dietro il pullman e mi passava una cicca». O come quella volta in ritiro in cui, chiuso in camera con Albertosi, Poli e Gori, a giocare a poker e a fumare, molte bottiglie e qualche panino, bussarono alla porta, intorno all'una di notte. Era Scopigno, l'allenatore, e dice: «Almeno invitare gli amici quando si fa festa». Poi si siede sul letto, tira fuori il pacchetto, si guarda in giro e fa: «Disturbo se fumo?». Tutti tacciono. E lui continua: «Però facciamo che è l'ultima, anche per voi». Il giorno dopo di quel fumogeno rendez-vous, il Cagliari vinse 3-0. Appunto, Manlio Scopigno, l'allenatore dello scudetto, il “Filosofo”. Così lo sbrigavano via con un'etichetta a mezzo tra il costernato e l'ironico i giornalisti. Scopigno sapeva e diceva: «Il calcio è un castello che si appoggia sulle bugie. Io dico pane al pane e brocco al brocco e passo per un tipo bizzarro. Tutti gli altri, dal mago Helenio al mago di Turi passando per l'asceta Heriberto, sono tipi regolari». E se lo diceva cinquant'anni fa, figurati adesso.

T come Trentasette milioni, come Trentacinque gol

Trentasette i milioni tirati fuori da Andrea Arrica, all’epoca dirigente del Cagliari – e poi anche presidente – , per prendere Riva dal Legnano, nel corso dell'intervallo della partita della Nazionale juniores a Roma, il 13 marzo 1963. Riva non aveva ancora diciannove anni. Trentacinque i gol in maglia azzurra di Riva, in 42 partite giocate: record tuttora imbattuto e sembra incredibile visto il numero di partite in più che si giocano. Una media degna di Messi-Cristiano Ronaldo: 0,83 a partita.

U come Undici 

Una maglia, un numero. A chiudere la formazione-filastrocca: Albertosi; Martiradonna, Zignoli; Cera, Niccolai, Tomasini; Domenghini, Nenè, Gori, Greatti, Riva.

V come Viggiù

A Viggiù Riva non fece il pompiere ma venne messo in collegio dai preti dopo la morte del padre. Così ancora Mura: «Scappa un sacco di volte, e ogni volta lo riportano indietro. Se avrà incubi, da adulto, riguarderanno i giorni in collegio e più tardi quelli in divisa militare, sempre obbligato a obbedire. "E il peso, l'umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi"».

Z come Zeffirelli

Un giorno, nel 1971, Franco Zeffirelli gli chiese di interpretare il personaggio di Francesco, in Fratello Sole, Sorella Luna. 400 milioni il cachet. Ma Giggirriva dopo aver detto no alla Juve, per sommo scorno del tifoso viola, disse di no anche al regista. Ieri sera, verso le 20, quando sullo smartphone cominciavano a tintinnare le notifiche e i messaggi degli amici che scrivevano «È morto Gigi Riva» e mandavano foto dall’album del “recupero personale della loro infanzia”, stavo per entrare a teatro per vedere uno spettacolo sulle poesie in friulano di Pier Paolo Pasolini («Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”» scriveva PPP in un citatissimo articolo Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, “Il Giorno”, 3 gennaio 1971), cantate da Elsa Martin e accompagnate dalla tromba di Paolo Fresu. Al termine della performance, dalla tromba di Fresu e della voce della Martin sono partite le note di No potho reposare. Non ho chiesto se era un omaggio a Giggirriva, ma mi piace immaginare che lo fosse. E allora ho pensato che da qualche parte finalmente Rombo di Tuono, rapito in cielo giovane come gli eroi, e il vecchio Giggirriva si staranno accendendo una sigaretta prima di iniziare una partita a carte.

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