“Que viva El Trinche”


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Storia di Tomás Carlovich, che non volle essere Maradona

“Carlovich fu uno di quei ragazzi di quartiere che, da quando sono nati, hanno come unico giocattolo la palla. Tra lui e la palla c’era un rapporto molto forte.
La tecnica che aveva lo rendeva un giocatore completamente differente. Era impressionante vederlo accarezzare la palla, giocare, dribblare. Certamente durante la sua carriera non trovò risorse fisiche che si abbinassero a tutte le qualità tecniche che aveva.
Inoltre, sfortunatamente, nemmeno ebbe qualcuno che lo guidasse o comprendesse.”

“È un peccato, perché Carlovich era destinato ad essere uno dei giocatori più importanti del calcio argentino. Mi ricordo che lo vidi giocare un una selezione di Rosario contro la squadra argentina e fu il miglior uomo in campo.
E dire che, tra i molti rivali, c’erano mostri come Miguel Brindisi. Vederlo era una delizia. Dopo non so cosa gli successe. Forse il calcio professionistico lo annoiava.
A lui piaceva divertirsi e non si sentiva a suo agio con nessun compromesso.”
(César Luis Menotti, CT dell’Argentina Campione del Mondo nel 1978)

Nel calcio esiste la storia ed esiste il mito. La storia è scritta e ben documentata: parla di campioni, di risultati, cifre, gol e trofei. La leggenda, invece, vive di racconti, di figure simboliche, di credenze, talvolta di indiscrezioni o di semplici vociferazioni, spesso precedute da un enigmatico “si dice” o da un più tenace “giuro che”.

El Trinche, più che leggenda

Per la storia, i calciatori migliori di sempre sono stati – secondo i gusti – Pelé, Maradona, Di Stéfano, Cruijff, Messi. Ed è la storia a contare, sono gli almanacchi, le coppe alzate e le reti documentate.
E in parte questo “conteggio” è il modo più imparziale di procedere, altrimenti ognuno di noi potrebbe raccontare una storia incredibile e pretendere che tutto il mondo ci creda. Ma in fondo, il calcio e la vita, cosa sarebbero senza il mito? Senza la fantasia?
Quella che racconta di campioni magnifici e sconosciuti, autentici fuoriclasse che, per un motivo qualsiasi, non hanno scritto la storia, ma che hanno tuttavia contribuito – con la propria magia – alla diffusione e alla passione per quello sport nato un secolo e mezzo fa nella piovosa Inghilterra.
Così, se ci atteniamo solo a fatti certi e documentati, si può discutere ore e ore su Pelé, Maradona e Di Stefano, su chi tra loro fosse migliore. Ma se smettiamo per un attimo di guardare i freddi numeri, e se prestiamo unicamente ascolto alle misteriose narrazioni del mito, ecco che allora tutto cambia.
E il miglior giocatore di sempre è un nome che negli almanacchi non trova posto, ma di cui un intero Paese narra la leggenda: “El Trinche“, Tomás Felipe Carlovich.

“Ho scoperto Carlovich in un’amichevole di preparazione per la Coppa del Mondo tra l’Argentina – di cui ancora non facevo parte – e una selezione di Rosario. Quel giorno li smontò. Aveva una padronanza della palla e una visione di gioco incredibili. È stato il miglior ‘cinque’ che abbia mai visto.”
(Ubaldo Fillol, leggendario portiere argentino)

Trinche, la nascita di un mito

Il mito incrocia la storia un pomeriggio di aprile del 1974; la Nazionale Argentina, prossima alla partenza per la Germania (in cui si disputerà la decima edizione della Coppa del Mondo), passa da Rosario e pensa bene di affrontare una selezione locale in uno di quei classici match di riscaldamento, dove si presume che il risultato sarà scontato e tutti si divertiranno meno che i locali.
Invece si diverte solo Carlovich, unico rappresentante della piccola e povera terza squadra cittadina, il Central: nell’abituale posizione di "volante", schierato cioè davanti la difesa, si esibisce in un repertorio vastissimo e inarrestabile di finte, tunnel, dribbling, lanci millimetrici e contrasti duri e puliti.
I grandi campioni argentini ammattiscono di fronte a quello sconosciuto, insuperabile in difesa e inarrestabile quando decide di avanzare palla al piede. Il primo tempo termina 3-0 per la selezione di Rosario; la leggenda vuole che allora “El Polaco” Vladislao Cap, Ct della Selección, preghi il tecnico rivale per escludere nel secondo tempo quell’iradiddio che è “El Trinche“.
Se questo episodio sia realmente accaduto, o se sia invece quasi interamente frutto della fantasia popolare, non possiamo saperlo; ma è certo che per gran parte del secondo tempo Carlovich rimane seduto in panchina, l’Argentina segna, uscendo comunque sconfitta per 3-1 ma evitandosi almeno una crisi di nervi.

“Non capisco perché non arrivò a giocare in nessun club importante. Aveva delle qualità tecniche straordinarie. Era abbastanza lento ma molto abile. E ‘guapo’. Ancora non ho visto un altro “cinque” come lui.
In quella partita dell’Argentina contro la selezione di Rosario, in cui io giocai per la Nazionale, Carlovich ci sbaragliò. Non potevamo fermare né lui né i suoi compagni. Perdemmo 3 a 1 solo perché tirarono fuori il Trinche al quindicesimo del secondo tempo. Altrimenti…”
(Aldo Poy, nazionale argentino nel 1974)

Tra realtà e leggenda urbana
Difficile dire che giocatore sia stato, Tomás Felipe Carlovich detto “El Trinche“.
Per José Pekerman, futuro CT dell’Argentina che per anni non si perse una sua sola gara, era semplicemente il miglior centrocampista mai visto. Per Jorge Valdano, gran giocatore e poi grande scrittore di calcio, fu l’ultimo esponente di un calcio romantico. Per Diego Maradona fu il più grande giocatore della storia, superiore a lui, a Pelé e a tutti gli altri.
Eppure – delle gesta di questo formidabile giocatore – su Internet non troverete traccia, non un solo video che ne celebri l’abilità come adesso accade per giocatori sicuramente meno dotati. Perché Carlovich non ha mai cercato la gloria, il successo, i soldi e i riflettori, accontentandosi di giocare solo per il gusto di farlo.
Non è stato Maradona perché semplicemente non ha voluto esserlo, pur diventando in un certo qual modo grande quanto “El Diez“, o forse persino di più.
Se è vero che questo centromediano non ha giocato che un pugno di partite nella massima serie, districandosi per un’intera carriera tra seconda e terza divisione senza mai lasciare l’amata Rosario, è altrettanto vero che risulta difficile credere che un intero Paese possa essersi inventato di punto in bianco una leggenda, quasi fosse un’allucinazione collettiva.
Una vita a Rosario
Leggenda che nasce il 20 aprile del 1949: l’Argentina è in quel periodo per molti la terra delle opportunità e attira grandi ondate di migranti provenienti principalmente dall’Italia e dalla Spagna.
Rosario è culla di grandi calciatori come Messi, Di Maria, di tecnici capaci come Marcelo Bielsa, César Menotti e “El Tata” Gerardo Martino; è la città che ha dato i natali al rivoluzionario per eccellenza – sicuramente il più celebre – Ernesto “Che” Guevara.
È in tale fecondo contesto che nasce Tomás (uno dei sette figli di un immigrato croato), il quale fin da subito – come nelle migliori favole – si innamora del pallone, unico compagno di giochi nelle povere e polverose strade del barrio dove cresce.
Impara a giocare nei vicoli, Carlovich, e la cosa sarà evidente anche quando raggiungerà il professionismo: tecnicamente è perfetto, ammaestra la palla come vuole e la spedisce dove vuole, manifesta un carattere umile ma orgoglioso, che non abbassa mai la testa e che non conosce compromessi.
Nel calcio che conta arriva relativamente tardi, ed è giusto un assaggio: qualche gara con il Rosario Central, esperienze con Flandria e Independiente Rivadavia e poi l’approdo al club che egli definisce “la miglior cosa mai successa nella vita”, il modestissimo Central Cordoba che vivacchia in seconda serie.
Non lo porta al successo, perché il suo modo di giocare è tutto per il pubblico e mai per il risultato; tuttavia la sua abilità è tale che in ogni gara interna lo stadio “Gabino Sosa”, intitolato a un altro eroe calcistico di Rosario degli anni ’20, si colma di persone che vengono solo per vedere “El Trinche” all’opera.
E lui non delude mai, diventando celebre per il “doppio tunnel” con cui è solito infilare un solo avversario nello spazio di pochi attimi e – si dice – su espressa richiesta dei tifosi.
Quando i rivali sono asserragliati in difesa, non è raro vederlo fermarsi e sedersi sul pallone, in attesa di trovare la giocata giusta per infilare la porta. Non è scherno, né senso di superiorità, perché Carlovich è anzi giocatore di umiltà eccezionale.
“Solo un modo per riposare” – dirà – e c’è da credergli, dato che è proprio per la sua allergia alle sveglie mattutine e ai rigidi allenamenti che la vita di un professionista richiede, che spenderà l’intera carriera nelle vicinanze di casa sua, non allontanandosi mai nonostante i mezzi tecnici non gli manchino di certo.
Ma lui preferisce così, giocare per divertirsi e poi la sera ritrovarsi con gli amici di sempre al bar, passare i pomeriggi a pescare o a discutere di calcio in compagnia del suo migliore amico, Vasco Artola, colui che lo ha scoperto e lanciato.
Mito di un calcio minore
Nel 1974 tutto il Paese parla di lui, di come ha ridicolizzato l’Argentina che si prepara a disputare un deludente Mondiale in Germania. Finisce sui giornali che ci regalano le poche foto che si hanno di lui al tempo, poi torna nell’oblio: un’altra stagione nel Rosario Central e una nel Colòn de Santa Fe, dove viene bloccato da numerosi infortuni e da un dolore all’anca che non gli dà pace.
Una stagione ottima – si dice – nel minuscolo Deportivo Maipù. Tutto molto bello, ma quasi 1000 km di distanza da Rosario, un’enormità per uno che vuole tornare ogni fine settimana a casa e che, per salvaguardare questo rito, arriva addirittura a farsi espellere volontariamente al termine del primo tempo di una gara: avesse giocato anche il secondo avrebbe certamente perso il treno, c’è da capirlo.
calrovich
Torna così a Rosario, ancora al Central Cordoba, dove conclude la carriera idolatrato dai tifosi locali, pronti a giurare che fra i tanti campioni che hanno esibito il proprio talento sui campi di gioco (Redondo, Messi, Maradona), il più grande di tutti è senza dubbio lui, “El Trinche“.
Che vive ancora nel Barrio 7 de Septiembre dove è cresciuto; che qualche anno fa ha dovuto subire un intervento all’anca per l’osteoporosi, che gli impedisce adesso di far vedere quello di cui era capace: disponendo solo di una modesta pensione sociale, è stato aiutato nell’operazione da tifosi, amici, compaesani e giornalisti.
“I più bei doni che il calcio mi ha dato sono stati il Central Córdoba e l’Independiente Rivadavia; li definirei i ‘due amori della mia vita’.
In entrambe le squadre ho giocato i migliori anni della mia carriera, per un totale di 16 da professionista. Con i “Los Charrúas” (il Central Córdoba N.d.A.) ho vinto due campionati di Seconda Divisione, nel 1973 e nel 1982.
I dirigenti del club mi pagavano uno speciale bonus per ogni ‘tunnel’ e un bonus doppio per un ‘doppio tunnel’. I tifosi erano soliti incoraggiarmi dalle gradinate urlando: ‘Vai Trinche, esegui un doppio tunnel!”
Quello che rimane di una leggenda
Oggi che è un placido uomo di mezza età Tomás Felipe Carlovich, colui che non volle essere Maradona, fa le stesse cose di sempre: pesca, gioca a carte, si intrattiene con gli amici del quartiere e allena con ottimi risultati una misconosciuta squadra locale.
Se interrogato ridimensiona di molto il suo mito, non mostrando alcuna riluttanza ad ammettere che – della moltitudine di cose pronunciate sul suo conto – alcune risultano essere vere ed attendibili, altre distorte e poi ingigantite, come in ogni leggenda che sopravvive solo grazie al racconto orale.
Così, chissà se è vero – come si dice – che una volta scartò un’intera squadra; che venisse pagato per ogni tunnel eseguito con successo e per questo fosse il più ricco del club; che una volta fu espulso ma il pubblico minacciò un casino tale che l’arbitro ci ripensò e lo fece continuare a giocare; che rifiutò offerte persino dalla ricca America, per non allontanarsi da casa sua.
E sì che gli americani lo avrebbero coperto d’oro, un giocoliere come lui.
“A chi mi domanda perché non sono arrivato chiedo: cosa significa arrivare?
Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Rosario.”
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Quello che rimane, quello che è certo, è il suo mito: talmente fondato che persino Maradona – quando nel finale di carriera passa da Rosario – a un giornalista che lo chiama “il più grande di sempre” risponde che no, il più grande di sempre aveva sì giocato a Rosario, ma molti anni prima, e il suo nome era Tomás Carlovich.
Che un pomeriggio lasciò la leggenda metropolitana per entrare nella cronaca, umiliando praticamente da solo la Nazionale Argentina. Di quel fatto si ricordò Cesàr Menotti, CT dell’Argentina che si preparava a ospitare (e vincere) i Mondiali del 1978.
A corto di leader, vista la defezione del suo pupillo, “El Lobo” Jorge Carrascosa – il quale si dice fosse contro la dittatura sanguinaria del generale Jorge Videla e si chiamò fuori dalla competizione dicendo che era stanco e stressato – mandò a chiamare quel fenomeno di periferia chiamato Carlovich, memore di quell’unica, grande, partita.
“Vieni a Buenos Aires, facciamo quattro chiacchiere e un provino e magari giochi i Mondiali con noi” il senso del discorso di Menotti.
Si dice che “El Trinche” ci pensò su, si dice anzi che addirittura partì per la capitale.
Ma poi – si dice – fermatosi lungo la strada a un fiume per pescare, vide che le trote erano abbondanti e decise di rimanere lì. Ché in fondo a lui per giocare a calcio divertendosi bastava una squadra, ma mica importava quale.
E vero o no che sia quest’ultimo racconto, si può pensare di non rovinare una bella storia con la verità. Nel caso della leggenda di “El Trinche” non è poi così importante.
Del resto, per chi non ha voluto essere Maradona, è perfettamente possibile che un bel fiume pieno di pesci possa essere preferito alla partecipazione ad un Mondiale controverso, seppur da possibile protagonista.
“Su di me sono state dette tante cose, ma molte di queste non sono vere. La verità è che non sono mai voluto andare troppo lontano dai miei vicini, la casa dei miei genitori, il bar dove ero solito andare, i miei amici e Vasco Artola, che mi ha insegnato come si colpisce un pallone quando ero ancora un ragazzo.”
Parola di “El Trinche” Carlovich, l’ultima vera leggenda del calcio, l’ultimo vero rappresentante de la nuestra, lo stile calcistico argentino che voleva che la classe, il tocco di palla e il numero fine a se stesso contassero quanto il risultato finale, se non di più.
Quello che non fu Maradona, ma – si dice – molto, molto di più.

“L’altro giorno ero a casa di un amico la cui sorella gli aveva portato due scarpini e un pallone dagli Stati Uniti. Le scarpe pesavano meno di 100 grammi di mortadella – cose da pazzi! – potevi togliergli la suoletta e tutte quelle cose lì.
Mi disse che sono quelle che usa Beckham, io non capisco come si possa colpire una palla con queste scarpe. E un ragazzo, che si era operato a entrambe le gambe, mi raccontò che ci aveva giocato due partite e io non potevo crederci.
Quando potrò andrò a operarmi anche l’altra anca, e ti assicuro che se potrò tornare a giocare, anche solo un poco, diventerò pazzo. Credo che non potrei reggere l’emozione, saranno almeno dieci anni che non tocco un pallone!
Beh, l’altro giorno, in casa di questo amico, l’ho stretto in mano un momento, vedi? Però io non sono un portiere, io dovrei toccarlo con i piedi. Il tatto lo possiedo lì...

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