Joyce e O’Brien: due “Dubliners” allo specchio


Il maestro irlandese ritratto dalla collega

21 Jun 2025 - Il Fatto Quotidiano
» Carlotta Vissani

C’è una frase, in apertura di James Joyce – Una vita, che sembra racchiudere l’intero percorso del protagonista: “Il suo nome veniva dal latino e significava gioia, ma a volte anche lui dovette pensare che volesse dire il contrario: un ingenuo gesuita sdegnoso del corpo terreno di Cristo, un farfallone, un frate dalla tonaca di penne, un timoniere, un signore col dono tutto irlandese della scrittura maiaculata”, cioè “maculata”, irregolare, che rompe qualunque schema di lingua e narrazione, immagine calzante per l’originalità stilistica di Joyce. Un elenco ironico e disordinato, come se Edna O'Brien volesse evocare subito l’ambiente complesso in cui il connazionale è cresciuto e dare un ventaglio delle etichette che gli sono state affibbiate.

Nato nella Dublino ottocentesca, Joyce ha sempre oscillato tra devozione e disprezzo, nostalgia e ribellione, in un'Irlanda che è stata per lui tanto nutrimento quanto prigione. O'Brien, cresciuta nella stessa terra rigida e ambivalente, non si limita a intesserne la biografia, ma preferisce attraversarne l’esistenza con lo sguardo di chi riconosce gli stessi codici familiari, il peso della religione, la spinta alla fuga in senso lato.

L’infanzia di Joyce è un “calamaio stregato”, come lui stesso la definì: traslochi, lutti, case sempre più modeste, un nucleo numerosissimo che lotta per non affondare. La madre, May Murray, figura adorata, presto perduta per un cancro, dopo 17 gravidanze; il padre John, colto e affabulatore, ma incline all’alcool e all’autodistruzione, lascia un’impronta profonda nei ritratti paterni che abiteranno l’opera di Joyce, da Un ritratto dell’artista da giovane a Ulisse, così come farà l’educazione gesuitica ricevuta, potente sistema di pensiero, ma anche forma di controllo da cui si allontanerà progressivamente. L’adolescenza segna il passaggio dalla religiosità tremebonda alla ribellione: le prime esperienze sessuali, i bordelli, i conflitti familiari (l’apice è il tentativo del padre di strozzare la madre).

Joyce non smette però mai di scrivere e prendere appunti – la parola diventa strumento di sopravvivenza e distacco – fantastica di andarsene e infine lo fa: Parigi, Trieste, Zurigo, mentre l'Irlanda resta geograficamente lontana, ma costantemente nella mente. La reinventa, la smonta e la ricompone su carta: “Se la mia città fosse distrutta, si potrebbe ricostruirla leggendo i miei libri”, dirà. È da questo processo meticoloso e visionario, che nasce l’Ulisse: un’opera-mondo che concentra in una giornata il disordine e la vastità del vivere; dai caffè di Dublino al fardello dell’esilio, dalla dimensione corporea femminile al flusso instancabile della coscienza.

Scomparsa di recente a 93 anni, O'Brien è stata una voce coraggiosa della letteratura irlandese del secondo Novecento. Nel 1960, con La ragazza dagli occhi verdi, si mise a nudo senza filtri, e la pagò cara, sfidando i tabù più radicati della sua patria, in primis la narrazione della sessualità delle donne. Se Joyce lasciò “l’Isola di smeraldo” per scelta, spinto dall’urgenza di libertà e ribellione, lei ne fu allontanata a causa di un pensiero troppo scomodo. In queste pagine O'Brien segue Joyce senza santificarlo né crocifiggerlo, concentrandosi unicamente sul doloroso e affascinante evolversi della Vita in Letteratura.

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