AC GREEN - Questo è un lavoro per Iron Man


di DANIELE VECCHI
Old Timers -  Quando la NBA era lʼAmerica
https://www.libreriadellosport.it/libri/old_timers_-_quando_la_nba_era_il_basket.php

Correre, saltare, concentrarsi, sgomitare, spintonare, tirare, tenere, strattonare, contenere. Giocare duro. E farlo per 48 minuti. Terminare la partita stremato, con dolori in tutto il corpo. In 82 partite da novembre ad aprile, senza contare la preseason e i playoff, prima e dopo. Talvolta perdi un dente, talvolta hai un taglio a un sopracciglio. Fare tutto questo, senza mancare mai a nessuno di questi appuntamenti, sempre presente con le scarpe allacciate, pronto per affrontare il riscaldamento prima e la partita poi, dal 19 novembre 1986 al 18 aprile 2001: 1.192 partite NBA consecutive giocate, millecentonovantadue, un’enormità. Un record imbattuto, e che in tutta probabilità durerà a lungo. 

Nato a Portland, Oregon, il 4 ottobre 1963, A.C. Green Jr è uno di quei giocatori arrivati ai Los Angeles Lakers nell’ultima parte della dinastia gialloviola degli anni Ottanta, la dinastia che tanto vinse in quel decennio prima di lasciare il passo ai Chicago Bulls degli anni Novanta e di ricominciare a vincere, agli albori del terzo millennio, con “The Combo”, la coppia formata da Shaquille O’Neal e Kobe Bryant. 

A.C. Green rappresenta una sorta di trait d’union tra quelle due generazioni di losangeleni vittoriosi, perché lui c’era, sia prima, sia dopo. 

Dopo aver impressionato tutti alla Benson Polytechnic High a Portland e aver ricevuto parecchie offerte per borse di studio cestistiche, Green optò per la vicina Oregon State, e i suoi quattro anni con i Beavers furono altresì grandiosi. All-Pac 10 da sophomore, 19.1 punti e 9.2 rimbalzi di media da senior, un incredibile 65.7% al tiro da junior, A.C. balza agli occhi come un giocatore di impegno e intensità, con un energico gioco di post e sempre pronto a farsi trovare quando le superstar della sua squadra provano a punire i raddoppi. 

Al Draft NBA del 1985, però, ben ventidue squadre preferiscono non avvalersi dei suoi servigi. Come spesso accade nei Draft, vengono chiamati prima di lui parecchi mistakes, come, per esempio, Kenny Green alla numero 12, Alfredrick Hughes (ex Fabriano) alla 14 o il tedescone Uwe Blab (ex Napoli) alla 17, tutti giocatori che nella NBA non avranno il minimo impatto. 

A.C. Green sembrava perfetto per i campioni in carica, e infatti, con la chiamata numero 23, la banda di Pat Riley se lo accaparra, pescando così un giocatore subito capace di adattarsi ai ritmi, alle gerarchie e alla filosofia dei Lakers. 

Nella sua stagione da rookie, Green divideva il proprio minutaggio in campo con il suo predecessore naturale, Kurt Rambis, veterano di mille battaglie in gialloviola e power forward titolare. A.C. giocò poco meno di 19 minuti a partita, totalizzando una media di 6.4 punti e 4.6 rimbalzi, ma cadendo troppo spesso nelle trappole degli avversari, che non appena metteva piede in campo lo caricano sistematicamente di falli (2.8 per gara in 18.8 minuti di media sono uno sproposito!). In quella stagione i Lakers furono eliminati nelle Western Conference Finals dagli Houston Rockets, e il loro ciclo sembrava finito, logorato da un decennio di infinite e devastanti battaglie fisiche e mentali al top del basket mondiale. 

Ma non fu così, grazie anche a giocatori mentalmente freschi come A.C. Green (o, qualche anno prima, Byron Scott) che diventarono il perfetto complemento per i veterani, e che entrarono di prepotenza, con intelligenza e dedizione, nelle grazie di coach Riley e dello spogliatoio “lacustre”. 

Già nella stagione successiva, 1986-87, Green si ritagliò il suo spazio, entrando nel quintetto base e quasi raddoppiando il proprio minutaggio (fu paradossalmente l’unica, delle sue 16 stagioni NBA, in cui non giocò tutte le partite, saltandone 3 su 82 per un lieve infortunio…) e divenendo presto una pedina fondamentale nello scacchiere di Riley per lʼottima attitudine difensiva, la velocità e la predisposizione al lavoro sporco; 10.8 punti e 7.8 rimbalzi di media a partita per lui, nella magica cavalcata da 65 vittorie e 17 sconfitte in regular season, e nella dominante postseason che vide i Lakers asfaltare 3-0 i Denver Nuggets, 4-1 i Golden State Warriors, 4-0 i Seattle Supersonics e infine 4-2 i Boston Celtics nelle Finals, sigillando una delle più entusiasmanti stagioni della storia dei Lakers. 

Come si sa, il Repeat è sempre difficile, soprattutto quando hai per le mani una squadra ai vertici da oltre dieci anni e mentalmente provata dalla pressione di dover vincere sempre. Ma anche qui subentrarono la determinazione, la voglia di vincere e il nuovo nutrimento forniti dalle nuove leve. 

Anche la campagna 1987-88 è una grande stagione per i Lakers e per A.C. Green; 11.4 punti e 8.7 rimbalzi di media per lui, che aveva ormai soppiantato Rambis come ala forte, e un’altra, più difficile e intensa cavalcata per i gialloviola, che riuscirono nel back-to-back rivincendo il titolo NBA dopo lunghissime e tiratissime battaglie nei playoff, 3-0 agli Spurs al primo turno ma poi 4-3 sugli Utah Jazz degli astri nascenti John Stockton e Karl Malone, 4-3 sui Dallas Mavericks di Mark Aguirre, Rolando Blackman e Derek Harper, e infine nelle NBA Finals la battaglia contro gli emergenti Bad Boys di Detroit, 4-3 sui Pistons di Isaiah Thomas, Adrian Dantley e Joe Dumars. Una vittoria finale di fisico, di rabbia, di forza mentale e di durezza, vittoria della quale A.C. Green è stato protagonista con la sua intensità in mezzo all’area. 

Quei Lakers rimasero al top ancora per qualche altra stagione, l’anno successivo raggiunsero di nuovo le Finals ma nulla poterono contro la brutale rabbia covata per dodici lunghi mesi dai Pistons (che mai digerirono quella sconfitta 4-3 nelle Finals dell’anno precedente). Detroit “cappottò” 4-0 i Lakers, che nella stagione successiva, la 1989-90, furono eliminati alle Western Semifinals dai Phoenix Suns di Tom Chambers e dei due Johnson, Kevin e Eddie. 

In missione per conto di Dio – A.C. non ha mai fatto mistero della sua profonda fede religiosa, sostenendo di essere rimasto vergine fino al matrimonio (con Veronique, sposata il 20 aprile 2002) e nonostante i compagni di squadra gli facessero spesso trovare in stanza delle donnine “succinte”, donnine che lui educatamente accompagnava alla porta), Green continuò imperterrito il suo lavoro sporco sul campo, affinando le proprie potenzialità offensive e la presenza a rimbalzo (13.2 punti e 8.9 rimbalzi di media a partita in quelle due stagioni) fino a diventare unʼautentica icona gialloviola. 

A testimonianza del suo valore nei Lakers e nella NBA, il fatto che nella stagione 1990, A.C. fu selezionato per l’All-Star Game di Miami, dove la selezione della Western Conference venne sconfitta 130-113 da quella della Eastern. 

Ancora una volta alle NBA Finals, nel 1991 i Lakers cozzarono contro il futuro, che avanzava inesorabile: i Chicago Bulls di Michael Jordan, che conquistarono il primo dei loro sei titoli in otto stagioni, siglando così la fine di quella fenomenale generazione di Lakers. 

A.C. Green, in quel mentre, era all’apice della carriera, poi disputerà altre due ottime stagioni in California prima di essere ceduto, nella stagione 1993-94, ai Phoenix Suns, reduci dalla sconfitta subita contro i Bulls nelle NBA Finals del 1993. Fatti a pezzi fisicamente da Horace Grant in quella serie, i Suns avevano capito che avevano bisogno di una power forward fisica e dura per poter resistere alle bordate da playoff che le squadre NBA piazzavano in mezzo all’area, scelsero quindi Green per quel tipo di lavoro. Due ottime stagioni per lui in Arizona ma nessun titolo conquistato dai Suns, che avevano perso l’unico treno disponibile per quella generazione, e finito invece nella Windy City nel 1993. 

Nel frattempo cominciava a farsi strada l’idea che A.C. potesse battere il record di partite consecutive giocate, e nemmeno lʼassurda gomitata di J.R. Reid dei New York Knicks, che il 25 febbraio del 1996 gli frantumò la faccia, sarebbe riuscita a fermarlo. Nonostante la perdita di due denti e il trauma cranico, nelle partite seguenti Green scese regolarmente in campo con una maschera protettiva (in verità, giocando solo un paio di minuti a gara, data la gravità del colpo). 

Green fece poi parte della trade che portò Jason Kidd a Phoenix durante la stagione 1996-97, e venne ceduto ai Dalla Mavericks, franchigia da qualche anno perdente, che cercò di monetizzare la stella che le era capitata per le mani, Jason Kidd appunto. 

Le tre stagioni successive per Green furono meste, pubblico e squadra mediocri influirono anche sulle sue prestazioni, i suoi numeri scemarono inesorabilmente, complici anche gli anni, che cominciavano a farsi sentire. 

Nella stagione 1999-2000 venne chiamato da Phil Jackson, neo-coach dei Lakers, a far parte di un progetto che si rivelò subito grandioso. Una stagione regolare da 67 vittorie, e ancora una volta una cavalcata nei playoff allʼaltezza dei fasti del passato gialloviola e conclusa con il titolo NBA, vinto ancora nella Città degli Angeli, 12 anni dopo e con Green ancora degnissimo protagonista: 5 punti e 6 rimbalzi a partita, in 23ʼ di assoluta qualità. 

Il 18 aprile 2001 Green giocò la sua ultima gara NBA con la maglia dei Miami Heat del “suo” Pat Riley, l’ultima delle 1.192 partite consecutive da lui giocate, l’ultima delle sue 1.278 in carriera. A.C. Green, Iron Man, un esempio di dedizione e di amore per il gioco. 


A.C. Green, Jr. 

Ruolo: ala forte/centro 
Nato: 4 ottobre 1963, Portland, Oregon (USA) 
High school: Benson Polytechnic (Portland, Oregon) 
Statura e peso: 2,04 m x 100 kg 
College: Oregon State (1981-1985) 
Draft NBA: 1º giro, 23ª scelta assoluta 1985 (Los Angeles Lakers) 
Pro: 1985-2001 
NBA: Los Angeles Lakers (1985-1993), Phoenix Suns (1993-1996), Dallas Mavericks (1996-1999), Los Angeles Lakers (1999-2000), Miami Heat (2000-01) 
Palmarès: 3 titoli NBA (1987, 1988, 2000) 
Riconoscimenti: NBA All-Star (1990), NBA All-Defensive Second Team (1989), record di partite consecutive NBA/ABA (1.192), Pac-10 Conference Player of the Year (1984), 3 All-Pac-10 First Team (1983, 1984, 1985), Pac-12 Hall of Honor 
Cifre NBA: 
punti: 12.331 (9,6 PPG) 
rimbalzi: 9.473 (7,4 RPG) 
recuperi: 1.033 (0,8 SPG) 
Numero: 45 

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