Boninsegna: “Testone, egoista, amico per sempre”


“Il calcio è stato inventato per Gigi. 
E noi due sembravamo fatti per giocare insieme.
Che bello stare con lui prima e dopo la partita.
A Cagliari non avevo l’auto, stavo sempre con lui, in campo e fuori. 
Il suo gol ai tedeschi nel '70 fu una cosa epica.
Agli avversari lui faceva paura”

di Cosimo Cito
23 Jan 2024 - La Repubblica © - Nazionale
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Tre stagioni insieme a Cagliari a dividersi il fronte d’attacco, la camera d’albergo, l’auto, la Sardegna, i palloni da scagliare in porta. Poi la storia che si fa epica in azzurro: l’avventura messicana e i giorni in Germania, il bianco e nero e il colore, Bonimba e Rombo di Tuono, l’eternità. Per Roberto Boninsegna la morte di Gigi Riva è arrivata «all’improvviso, come una pugnalata al cuore».

- Bonimba e Rombo di Tuono, dunque. La coppia perfetta, da Cagliari fino all’azteca. Com’era essere uno di quei due, Boninsegna?

«Gigi era un testone egoista, un attaccante vero, di quelli che hanno negli occhi due cose e basta, il pallone e la porta, ma anche un amicone, di quelli veri, di quelli che dici “per sempre”. In campo sembravamo fatti per giocare insieme, lui più fisico, io più rapido e tecnico forse. Era bellissimo stare con lui prima e dopo la partita. Che giornate meravigliose».

- Il primo contatto a Cagliari nel 1966: lombardi entrambi, un varesino e un mantovano, in missione sull’isola.

« A Cagliari non avevo l’auto, ero sempre con lui e siamo diventati amici sia in campo che fuori. Gigi è sempre rimasto in Sardegna, ha anche rifiutato la Juventus, legato com’era a quella terra, a quei colori. Io sono tornato all'Inter nel ’69 perché era la squadra per la quale tifavo da bambino e per me fu un richiamo impossibile da rifiutare. Per un anno solo, così, mi persi lo scudetto al Cagliari: nel 1970 primi loro, secondi noi. Ci siamo ritrovati al Mondiale messicano, l’estate successiva, per quell’avventura incredibile».

- Quel pomeriggio, all’Azteca di Città del Messico: Riva con l’11, lei col 20, di fronte a Beckenbauer, Vogts, Schnellinger.

«La Partita del Secolo, Italia-Germania Ovest 4-3. Mio il gol dell’1-0, nel primo tempo, e sembrava fatta, poi Schnellinger trovò quell’assurdo pareggio nei minuti di recupero. “Un recupero clamoroso” disse Nando Martellini: due minuti appena, oggi farebbe ridere. Il gol più bello dei sette di quella giornata fu il suo, di Gigi, quello del 3-2. Un gol epico, meraviglioso. E non bastò nemmeno quello a piegare i tedeschi. Quanti cuori abbiamo fermato quel giorno?».

- Ce lo racconti, quel gol.

«Come mille altri, un gol costruito assieme. Palla recuperata a centrocampo da Rivera, forse con un fallo, forse no, poi apertura di Gianni per Domenghini sulla sinistra. Cross, io mi allargai portando via un difensore tedesco, Gigi prese palla, si allargò verso sinistra e tirò in diagonale di sinistro alle spalle di Maier. Un’azione provata e riprovata in allenamento, da coppia d’attacco moderna, l’uno va sul primo palo, l’altro corre verso il secondo. Due esultanze matte e disperate, la sua e la mia: io mi fiondai sul pallone già finito in porta mentre Gigi abbracciava Rivera a centrocampo. Eravamo allo stremo delle forze e i tedeschi erano andati anche in vantaggio a inizio supplementari con Gerd Müller, prima del pareggio in mischia di Burgnich. Il gol di Riva ci riportò avanti, a condurre la danza, e ci diede nuova consapevolezza e un briciolo di energia in più nel momento più importante di quella partita e forse delle nostre vite di calciatori».

- Essere parte di un momento di storia del Paese, insieme.

«Ci siamo scontrati molte volte in campo, anche da compagni. Gli rimproveravo proprio il troppo egoismo. Ma che attaccante, un gran colpo di testa, grandi qualità nel gioco acrobatico, un piede magnifico. Su quello, sul suo piede sinistro, scherzavamo, anche».

- In che modo?

«Gli ripetevo sempre, anche recentemente, che in quell’epoca nel calcio italiano c’erano stati tre grandissimi attaccanti: Bettega era stato il più intelligente, lui il più forte, io però ero il più completo dei tre. Perché? “Perché tu hai solo il sinistro”, gli dicevo, e questo lo faceva arrabbiare».

- È stato il più grande attaccante italiano di sempre?

«Non ho nessun dubbio su questo. Lo dicono i numeri in Nazionale, il suo record di gol ancora imbattuto dopo mezzo secolo. Lo dice la sua carriera, lo diceva il suo modo di stare in campo, di fare paura agli avversari con la sua sola presenza. Una vera forza della natura. Era nato per il calcio ed è come se il calcio fosse stato inventato per uno come lui».

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