di Roberto Beccantini
23 Jan 2024 - Il Fatto Quotidiano
Era sempre là, tesoro dell’isola. Con i suoi amori, le sue cicatrici, il suo orgoglio. Raccontare Luigi Riva, eternamente Gigi, adesso che se n’è andato a 79 anni, tradito da quel cuore che non aveva mai nascosto, significa entrare a gamba tesa su un pezzo di storia e nei sentimenti di tutti coloro che lo hanno adottato fino ad amarlo, i sardi, e fino a invidiarlo, gli avversari. Perché Gigi Riva è stato il più grande attaccante italiano del Dopoguerra. Ha portato il Cagliari alla leggenda dello scudetto (1970), è stato campione d'Europa nel 1968 e vicecampione del mondo in Messico, sempre nel ’70. Detiene ancora oggi il record di gol in Nazionale: 35 in 42 partite.
Tre volte capocannoniere, in Serie A ne firmò 156, e chissà quanti sarebbero stati se solo avesse potuto contare sul liberismo normativo della sbronza moderna: dal mani-comio al fuori-giochicidio, dagli autogol strozzati in culla al potere rubato ai difensori e venduto ai cacciatori, di frodo e non.
Portava il numero undici, mancino fino al midollo, Gianni Brera lo ribattezzò “Rombo di Tuono”. Per come tirava, per come riempiva la ciccia delle partite. Non un lampo: un tuono. Definirlo attaccante è riduttivo. Riva era l’attacco. Lo copriva tutto, per tutti. Era, quel Cagliari, il Cagliari di Manlio Scopigno detto il filosofo. Un sabato sera entrò nella camera in cui Riva, Ricky Albertosi, Bobo Gori e Cesare Poli stavano giocando a poker. Fumavano come turchi. Il sabato sera. La vigilia della partita. Il massimo della trasgressione. “Disturbo se fumo?”, chiese. Il giorno dopo il Cagliari vinse. Naturalmente.
E quel braccio di ferro al vecchio Comunale di Torino che, in pratica, sancì il titolo. Era il 15 marzo del ’70: due a due con la Juventus, cioè la Fiat, cioè il potere. Sull’uno pari, Concetto Lo Bello decretò un rigore pro Madama. Albertosi lo parò a Helmut Haller. Figuriamoci se per il tiranno di Siracusa, così come è passato alla storia l’arbitro più arbitro (e arbitrario) che abbiamo avuto, poteva essere un “epilogo” alla sua altezza. Lo fece ripetere. Pietro Anastasi lo realizzò. Pierluigi Cera, Albertosi, tutti gli saltarono addosso. Anche Gigi: “Dimmi cosa devo dirti per essere espulso”. Tranquillo, gli fece don Concetto, buttate la palla in area. Agli ordini. Ne arrivò una all’82esimo. Una mischia, Riva accerchiato, sfiorato, un fischio. Rigore. Dal dischetto, l’hombre vertical: rete. Tornando a centrocampo, i due si guatarono. Riva a Lo Bello: “E se lo avessi sbagliato?”. Lo Bello a Riva: “Te lo avrei fatto ribattere”.
Uomo tutto d’un pezzo, e non tutto d’un prezzo. Rifiutò le lusinghe di Angelo Moratti, finanziatore “occulto” del Cagliari, e i miliardi di Gianni Agnelli. Nato lombardo, diventò sardo e sordo alle sirene del buon ritorno. Virile e indocile, di acrobazie audaci, faceva perno sul corpo dei terzini che lo marcavano per liberare i gomiti, per armare il tiro. Era forte di piede e di testa. La rovesciata di Vicenza, con il Lanerossi, e la sgrullata in tuffo alla Germania Est emergono, statuarie, dalle scartoffie della memoria. E la marchiano.
L’amicizia con Fabrizio De André, una lunga parentesi di pudori e sigarette, una chitarra in cambio di una maglia. Gianna Tofanari, la donna sposata con cui si mise, e dalla quale ha avuto Nicola e Mauro, scatenando le intemerate dei bigotti d’epoca. La Sardegna dei luoghi comuni, in bilico perenne tra pastori e rapimenti. La corrispondenza con il bandito Graziano Mesina, sospesa fra sorrisi e misteri. Gigi imparò ad amare la terra nella quale non avrebbe mai voluto finire, e per questo trasformò l’asperità del paesaggio in una Betlemme capace di sostituire la Leggiuno amara e grigia di quel ramo del lago Maggiore. Dell’infanzia povera, del collegio, delle suore, del pallone unica via di fuga dal disagio, dal dolore. Dalla rabbia. Da Legnano a Cagliari: “E quelle luci laggiù, l’Africa?”.
Alla Nazionale trovò il tempo – e i “sicari” – per sacrificare entrambe le gambe: il portiere del Portogallo, Americo, gli spezzò il perone sinistro nel 1967, allo stadio Olimpico di Roma; il terzino austriaco Norbert Hof gli tranciò il perone destro nel 1970, al Prater di Vienna. Ha accompagnato, da dirigente competente e riservato, la marcia verso il titolo mondiale del 2006. Quello vinto contro molti, in campo, e contro moltissimi, fuori. Durante il tour trionfale al Circo Massimo, scese dal pullman, di scatto e di stizza, perché vi erano saliti burocrati che sino al rigore di Fabio Grosso avevano sputato nel mucchio. Di poche parole, Gigi: e se serviva, addirittura, di una parola sola.
Orfano di papà Ugo a nove anni e di mamma Edis quando sbarcò a Cagliari: “Cosa vuoi che ti dica? Che dedico il gol alla Sardegna o all'Italia se gioco in Nazionale? Ma non facciamo ridere: io non ho nessuno a cui dedicare nulla. Segno per dovere”, confessò a Gianni Mura. Nel nostro cielo un rombo di tuono è il film di Riccardo Milani, una migrazione tradotta in poesia. Osservandone da lontano la lotta continua tra la dignità e la depressione, mi è venuto in mente Osvaldo Soriano. Fiero, solitario y final: lo immagino così, l’addio di questo guerriero, carcerato-carceriere di silenzi, di emozioni, di nuvole. E, dunque, libero.
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