Gigi Riva: "I miei gol per dovere"



L'intervista rilasciata a Mura per i 60 anni dell'attaccante del Cagliari e della nazionale: "In Sardegna sono arrivato incattivito dalla vita, ero senza famiglia e ne ho trovate tante"

di GIANNI MURA
15 giugno 2020 - la Repubblica ©

Quando Riva indossò per la prima volta la maglia numero 9 e si ruppe per la prima volta una gamba (la sinistra) a Roma, il 27 marzo del ' 67, lo andai a trovare. Stanza 126 del Policlinico Italia. «Vuoi un'intervista? Va bene. Ti costerà un paio di sigarette, perché qui oltre al gesso non mi lasciano fumare». Ricordo meno il titolo che uscì sulla Gazzetta. Il concetto era: «Quando torno spero di trovare un terzino che meni». Riva era così: forza e coraggio, come le polisportive d'una volta. Frangar, non flectar, per chi era fresco di liceo. Rombo di Tuono lo sarebbe diventato prima del Messico.

Gli piaceva il soprannome? 

«Molto, anche se a Brera non l'ho mai detto. Veniva da uno importante, all'estero il più intervistato dei giornalisti italiani era lui».

Riva non ha mai amato i giornalisti. Poteva rispettarli (è il caso di Brera) o sopportarli (era il caso mio). Ma la sua specialità era dribblarli. Non essendoci telefonini, ai campioni si faceva la posta sotto casa. Per Riva, la casa di Fausta, la sorella che gli ha fatto da madre. O era in ritardo l'aereo dalla Sardegna, o Gigi era appena uscito e chissà quando sarebbe rientrato. Nell'attesa, spesso inutile, Fausta faceva un caffè, mi mostrava i quadri (paesaggi) che dipingeva suo marito, gli album di ritagli su Gigi calciatore. «A me non importa nulla, se vuoi pensaci tu», le aveva detto.

Gigi di suo aveva due scatoloni di ritagli in garage: uno scatolone per Bandini, morto bruciato a Montecarlo, l'altro per Tenco suicida (forse) a Sanremo. E anche per questo sono felice di brindare ai 60 anni di Riva, perché allora, prima del Messico, pensavo che non sarebbe arrivato a 40, che fosse come segnato dalla tragedia, del resto a Cagliari i compagni lo chiamavano Hud ("Hud il selvaggio" era un film con Paul Newman). A volte mollava tutti al tavolo del ristorante Corallo e usciva a correre in macchina sulla costa, a tutta velocità, da solo. Boninsegna diceva di aver fatto un'assicurazione sulla vita, dopo la prima uscita sull'Alfa 1600 di Gigi.

Quando lo rividi, fuori dall'Amsicora, aveva una Dino e sotto il tergicristallo c'erano poesie, bigliettini di ragazze, molto espliciti per i tempi, richieste d' incontro. Due giorni prima aveva segnato un gol importante e io ero pagato anche per fare domande cretine, tipo «a chi lo dedichi?». Accendendosi l'ennesima sigaretta, come Yanez (il lunedì un pacchetto abbondante, ma poi a scalare, fino a quella della domenica negli spogliatoi, prima del via), mi guardò come se non ci fossi: «Mi sarebbe piaciuto far vivere a mia madre una vita decente. E' morta quando sono partito per Cagliari. Cosa vuoi che ti dica? Che dedico il gol alla Sardegna, o all'Italia se gioco in Nazionale? Ma non facciamo ridere. Io non ho nessuno a cui dedicare nulla. Segno per dovere».

La storia della famiglia l'avevo saputa da Fausta e prima, a Leggiuno, dai paesani. Ugo Riva, il padre, era tornato dalla prima guerra mondiale con una medaglia di bronzo al valore. Aveva fatto il sarto, il barbiere, poi era entrato in fonderia. Una scheggia di ferro schizzata via dalla pressa lo passa da parte a parte, come fosse in guerra. Muore il 10 febbraio del '53. Edis, la madre, lavora in filanda e arrotonda facendo pulizie nelle case dei meno poveri. Gigi è mandato in collegio dai preti: a Viggiù, a Varese, perfino a Milano. Scappa un sacco di volte, e ogni volta lo riportano indietro. Se avrà incubi, da adulto, riguarderanno i giorni in collegio e più tardi quelli in divisa militare, sempre obbligato a obbedire. «E il peso, l'umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi».

L'ho chiamato per gli auguri. Gli ho chiesto se avrebbe rifatto tutto, compresi i tanti no alle squadre del Nord. «Per orgoglio, quando giocavo, ho sempre difeso la mia scelta, ma qualche dubbio l'avevo. Adesso sono convinto di aver fatto bene. La Sardegna mi ha dato affetto e continua a darmene. La gente mi è vicino come se ancora andassi in campo a fare gol. E questa per me è una bella cosa, non ha prezzo. Lo sai che a Cagliari non volevo andare». Lo so. Quand'era ancora al Laveno gli arrivò la convocazione dell'Inter e Gigi era interista. Mostrò quel pezzo di carta a tutto il paese, compresi i dirigenti del Laveno che glielo sequestrarono e addio convocazione dell'Inter.

E poi, quand'era al Legnano e in Nazionale juniores, la svolta. Italia-Spagna all' Olimpico, 13 marzo '63, molti osservatori in tribuna, per il Cagliari Silvestri, Tognon e il dirigente Arrica. Nell'intervallo, accordo col Legnano per 37 milioni. Nel secondo tempo Gigi segna il definitivo 3-2 e Dall'Ara (Bologna) offre 50 milioni. Ma ormai è fatta. Ancora Riva: «La Sardegna allora non era la Costa Smeralda, l'Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione. Dall' aereo, sembrava di andare in Africa. Un aereo che non andava oltre i quattromila metri, viaggi da incubo. Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo. Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m' invitava a cena, quella dell' edicolante, del macellaio, del pastore. Quando giocavamo a Milano, a Torino, c'erano cinque-seimila sardi che arrivavano dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia. Mi dispiace di non aver tenuto tutte le loro lettere, ne basterebbe una o due per far capire perché abbiamo amato Cagliari, la Sardegna. Tutti, non solo io. E nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, senza che nessuno ci avesse mai chiesto di fare gruppo. Rappresentavamo tutta l'isola, lo sapevamo e ci piaceva».

Per questo non si è mai mosso? 

«Anche per questo, e perché stavo bene così. Ma ogni volta ne parlavo coi compagni: se a voi va bene, rimango. Un giorno Martiradonna mi disse: rimani, così finisco di pagare la cucina. Ai tempi, si viveva di premi-partita, gli ingaggi non erano granché, tutto quello che ci veniva in tasca lo sudavamo sul campo, non c'erano sponsor per le scarpe, gli occhiali, le tute. L'unica possibilità di guadagno extra mi arrivò dal regista Zeffirelli: 400 milioni per interpretare san Francesco in "Fratello sole, sorella luna". No grazie».

Uno scudetto: poco o tanto? «Poco, altrove ne avremmo vinti tre, ma davamo fastidio al Nord. E il destino, anche. Prima che Hof mi rompesse una gamba a Vienna, avevamo vinto 3-1 in casa dell' Inter ed eravamo primi in classifica. Mazzola sul 3-0 venne a dirmi: Gigi, andateci piano o qui vien fuori un casino. Rallentammo. Angelo Moratti so che mi voleva, ma Herrera preferiva Pascutti, più maturo e affidabile secondo lui. Non andò in porto. Ogni anno, sapendomi interista, Moratti mi mandava una sterlina d' oro per Natale. Una volta chiaro che non mi avrebbero preso, credo abbia dato dei soldi al Cagliari per garantirsi che non andassi altrove».

Con quali giocatori ha legato di più? «Non guardavo alla grandezza ma alla simpatia. Uno, Aristide Guarneri, che non vedo almeno da 35 anni, l'altro il povero Bruno Mora. Con Fabbri lui poteva fumare, io no perché ero l'ultimo arrivato. Allora Bruno mi chiamava dietro il pullman e mi passava una cicca. E poi, amici veri sono Boninsegna, Gori, Cera, Ferrero, Zignoli, Tomasini, quelli di quel periodo». Una volta con Riva, Cera, Longoni e Niccolai c' era un tavolo di ramino pokerato, in una saletta dell' hotel Belvedere a Bassano del Grappa. E grappa nei bicchierini, e tanto fumo a mezzanotte passata. Entra Scopigno e dice serafico: «L'ultimo che va via apra la finestra».

Questa non l'ho sentita raccontare perché il quinto al tavolo ero io, passato da sopportato ad accettato. Scopigno diceva: «Il calcio è un castello le cui fondamenta sono le bugie. Io dico pane al pane e brocco al brocco e passo per un tipo bizzarro. Tutti gli altri, dal mago Helenio al mago di Turi passando per l' asceta Heriberto, sono tipi regolari». Dice Riva: «Scopigno era intelligentissimo, ci faceva ragionare oltre il calcio e ci trattava da uomini. Pensa cos' era a quei tempi abolire il ritiro prepartita. Quando si ruppe Tomasini inventò Cera libero e giocavamo un 4-4-2 molto attuale, solo Martiradonna e Niccolai giocavano a uomo. Scopigno aveva tanti interessi, dalla musica alla pittura, ci dava fiducia ma non dovevamo deluderlo. Se in albergo facevamo chiasso a tavola, picchiava il coltello su un bicchiere e diceva: ragazzi, non siamo a casa nostra. E non volava più una mosca.

Una notte in albergo si giocava a poker in camera mia, con Albertosi, Poli e Gori, fumo da tagliare con l'accetta, avevamo fatto salire panini e bottiglie. Bussano alla porta, sarà l'una, Gori intuisce chi è e si nasconde nell' armadio. Scopigno entra e dice: "Almeno invitare gli amici, quando si fa festa". Si siede sul mio letto e fa: disturbo se fumo? Noi zitti. E lui: però è l'ultima, anche per voi. Il giorno dopo abbiamo vinto 3-0».

Scopigno era un bel terzino destro, paragonato a Maroso. Era nel Napoli e chiuse la carriera (rottura legamenti) dopo uno scontro con Sivori. E' morto il 26 settembre del '93 e non ci fu a ricordarlo nessun minuto di silenzio, nemmeno a Cagliari. Il nostro calcio faceva già abbastanza tristezza allora. E adesso, Riva? «Adesso faccio fatica a seguire fino al 90', ma mi sforzo, per dovere. Non sopporto le moviole, le frasi tipo "ecco, la maglia è leggermente tirata, c' è trattenuta, è rigore", oppure "anche se minimo un contatto con la caviglia sinistra c'è stato". Sarà che ho vissuto un calcio in cui certi liberi tiravano una riga vicino alla loro area e dicevano "se la passi ti spacco", tempi in cui per ottenere un rigore a Milano o a Torino non bastava un certificato medico di 15 giorni. Ma tutto questo rovina il calcio, che è un gioco fisico.

Io sarei spietato coi simulatori, prova tv e anche 5 giornate di squalifica. Mi ha fatto sincera pena quel difensore dell'Udinese, Bertotto, con Adriano che avanzava lui pedalava all'indietro, non lo sfiorava nemmeno per paura del rosso. Ma che calcio è, così iperprotettivo? All' estero arbitrano in un altro modo, e noi facciamo la parte dei piagnoni, dei vittimisti, di quelli che basta soffiarti addosso e vai giù chiedendo l' ammonizione. Questo non è il mio calcio». S'era intuito. Bisogna aggiungere che Scopigno abolì il ritiro prepartita perché diceva che vivere a Cagliari equivaleva a stare in ritiro. Mister, è vero che Cagliari ha un buon vivaio? «Sì, ma di ostriche». Mister, come ha visto mio figlio? «Dalla fine del secondo tempo in poi s' è comportato benissimo».

Riva, cos'avrebbe fatto se non fosse diventato calciatore? «Il contrabbandiere». Era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità. Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti come nella canzone di Conte. Non tornerà più perché il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie. Ma se uno mi chiedesse di stringere Riva (Giggirrivva) in due parole, dovrei ricorrere allo spagnolo: hombre vertical.

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio