HASTA SIEMPRE, FLACO!
di Emiliano Guanella - La Stampa
Negli ultimi tempi il “Flaco” aveva smesso di andare a prendersi il suo rituale caffè con medialunas alla caffetteria Saint Moritz, pieno centro di Buenos Aires. Era stato ricoverato a fine marzo per un quadro severo di anemia, si sentiva debilitato, con poca forza per parlare di fútbol con il microcosmo degli amici di tutta la vita, tradizioni argentine che ricordano tanto anche l’Italia.
Amava il buon gioco, César Luis Menotti, amava vivere il calcio con la passione di chi ne ha fatto una ragion di vita. Allenatore del primo mondiale della selección, quello di Kempes e Passarella ma anche della lunga notte dei militari. Non aveva convocato un giovanissimo e molto promettente Maradona, ma aveva comunque conquistato sul campo il primo trofeo per una delle patrie più pazze al mondo per la pelota.
Era uomo di principi e di valori, il bel gioco prima dei risultati, il calcio come fatto culturale, DNA di una nazione che vede tra l’olimpo degli dei i suoi grandi campioni: Kempes, appunto, Diego Armando e poi Lionel Andrés Messi, che ha accompagnato per molto tempo, difendendolo dalle critiche ingiuste di chi pensava in patria che non si impegnasse a fondo per la celeste y blanca.
Parlare di calcio con Menotti non equivaleva mai a una chiacchierata scontata o per luoghi comuni, non ci si soffermava sui grandi titoli ma sui dettagli, sulle fondamenta anche morali che costruiscono l’essenza di una squadra, di un allenatore o di un giocatore.
Per il “Flaco” il calcio argentino non poteva sfuggire dai suoi padri fondatori, dalla “Máquina” del River Plate degli anni Quaranta, da Angellilo, da Maschio, da Sivori e, perché no, da Di Stéfano, che non ha mai voluto accusare di “traditore” per aver scelto la Spagna. Il calcio e la vita erano per lui una cosa sola, la linea ferrea di tradizione e insegnamenti, di generazione in generazione. Nulla nasce dal caso; così come senza l’impronta di genitori efficaci faticano a crescere dei buoni figli, senza i campioni di un tempo non ci sarebbero stati i trionfi del 1978, del 1986 e nemmeno quello tanto agognato in Qatar.
La Federcalcio argentina ha fatto una delle poche cose buone degli ultimi anni quando gli ha assegnato il ruolo di coordinatore generale delle nazionali e questo gli ha permesso di scambiare punti di vista con Lionel Scaloni e il suo staff. Dal primo giorno Menotti ha appoggiato il progetto pazzo della Scaloneta, dare in mano la nazionale argentina a un tecnico debuttante e semisconosciuto ai più, massacrato dalla claque dei giornalisti a caccia di nemici facili.
Il Flaco era alto e magro, la figura tranquilla ma che esigeva rispetto, quando arrivava ad Ezeiza, il quartier generale della selección, tutti andavano a salutarlo, come si fa con un vecchio professore ancora in grado di insegnarti qualcosa.
L’Argentina è da sempre la patria dei duopoli, c’è sempre una linea divisoria tra una parte e l’altra della società, sei peronista o antiperonista, sei Boca o River e sei anche Menottiano o Bilardista. Con Carlos Salvador, padre putativo di Diego Armando, il contrasto era totale, Menotti era la poesia mentre Bilardo era la prosa, la teoria del buon gioco rispetto alla guapperia e all’astuzia scaltra di chi pensa soprattutto a portare avanti il risultato. Se il primo si specchiava nell’Olanda di Cruijff, il secondo non ha mai disprezzato il catenaccio e contropiede, uno a citare libri e teorie, l’altro con performance leggendarie, come quando arrivò sulla panchina del Monumental con un bicchiere di champagne, salvo dire poi a tutti che si trattasse di Gatorade.
Menotti lascia il campo a 85 anni, con un’Argentina orfana di Maradona ma con la terza stella orgogliosamente cucita sul petto. Lascia un Paese di nuovo alle prese con crisi economiche e forti contrasti politici, quel tango della vita che lui osservava dal suo tavolo numero dieci del bar preferito. “Ci lascia – ha detto Scaloni – un maestro del calcio, posso solo dire grazie per queste chiacchierate indimenticabili che ci lasciavano grandi insegnamenti. Hasta siempre, querido Flaco”.
@lastampa
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