La leggenda in una notte - La boxe piange Foreman, divenne eterno con Ali


George Foreman nell’incontro perso 
contro Muhammad Ali a Kinshasa nel 1974.

L’ex campione del mondo dei pesi massimi è morto a 76 anni
Nel ’74 perse a Kinshasa il match che consegnò i due pugili al mito

EMANUELA AUDISIO
La Repubblica - Domenica 23 Marzo 2025
Pagina 23

Telefonargli era complicato. 
«Parla George». 
Si divertiva a passare il cellulare ai suoi figli. Aveva cinque maschi e si chiamavano tutti come lui. Così ti chiedeva: «Con quale George Foreman credi di stare parlando?». 
Se intonava il gospel di Aretha Franklin, What a Friend You Have in Jesus, capivi che era lui. 

Aveva anche cinque figlie (due adottate), la terza, Frida, una breve carriera nel pugilato, si era suicidata in casa a 42 anni nel 2019

Big George è morto a 76 anni. Da un po’ di mesi non rispondeva più alle chiamate. Il 30 ottobre aveva postato una sua foto davanti a un dolce, con le parole: «50 anni fa combattevo Muhammad Ali nel Rumble in the Jungle , è stato il periodo migliore della mia vita, festeggiate con me».

Avete capito bene. Per lui quella sconfitta inaspettata, all’ottavo round, primo ko della sua vita, nel cuore dell’Africa, davanti a più di 60 mila spettatori, a Norman Mailer e agli scrittori più importanti al mondo, era stata una benedizione. Aveva 25 anni, ne era uscito distrutto, bastonato nell’orgoglio, nella carriera, nella vita. Senza più identità, la sorella Gloria gli disse appena dopo: «Sai perché non assomigli a noi? Perché quello che credevi tuo padre naturale non lo è». Tanto che Foreman ci mise due anni a tornare sul ring per poi scenderne quasi subito, e poi ritornarci da ministro evangelico con i guantoni. Be' quella notte di Kinshasa, nell’allora Zaire, in cui il vecchio Ali lo aveva spedito e terra, deridendolo («Non sai picchiare più forte di così?»), lui l’aveva vissuta come una fortuna. Lo aveva cambiato per sempre.

Sembrava dovesse solo sbrigare una pratica: era il più forte, il favorito, il più potente nel fare male. I suoi ultimi otto incontri non erano durati più di due round. Invece a terra, disprezzato da tutti, ci finì lui. George però è stato veramente uno capace di morire e di rinascere, di capire che la rabbia lo avrebbe per sempre inchiodato a quel buio, senza più dargli un futuro. Era ignorante (aveva lasciato la scuola a 15 anni), era violento (da ragazzo taglieggiava la gente per strada), era arrogante (all’inviato del New York Times: «Ti dico io quando fare domande»). Aveva fatto tante cose sbagliate: «Acquistai una Cadillac, dicevano che i ricchi dovevano averne una. Poi mi chiesero: e la Rolls non ce l’hai? Non sapevo cosa fosse, ma la comprai. Mi parlarono di un pastore tedesco. Presi anche quello, Dago, per 21 mila dollari, una fortuna, viaggiava con me in prima classe». Senza parlare di quelle bandierine americane, così patriottiche, sventolate subito dopo che i pugni neri di Smith e Carlos avevano mandato all’inferno proprio gli Stati Uniti.

George diventò bonario, amichevole, generoso. Battezzava i bimbi nella First Church of the Lord Jesus Christ a Houston, Texas, manteneva una fondazione che recuperava ragazzi e per finanziarla tornò a combattere con 143 chili addosso. Si sentiva al telefono con il musulmano Ali due volte al mese, gli parlava dell’importanza di essere padre, volle andare a Louisville a portarne la bara. «È diventato il mio miglior amico, il fratello che non ho mai avuto».

Con Foreman se ne va l’ultimo dei tre grandi che hanno firmato un’epoca: Joe Frazier, scomparso a 67 anni nel 2001, Muhammad Ali a 74 nel 2016. Foreman anzi è stato protagonista in più epoche: campione olimpico a 19 anni nel ’68 in Messico, campione del mondo dei massimi nel ’73, ancora re dei massimi a 45 nel ’94 mandando KO l’imbattuto Michael Moorer, di 19 anni più giovane. Moorer gli aveva tirato 641 pugni, lui aveva risposto con 369 colpi, ma l’ultimo, quello che contava di più, era stato il suo. George era così diventato il campione del mondo più vecchio di sempre. Tre stagioni dopo, a 48 anni, scese dal ring con 76 successi, 68 per KO, e 5 sconfitte.

La conversione era avvenuta nel ’77 a Portorico quando perse contro Jimmy Young: «Per la prima volta sul ring sentii puzza di morte, nello spogliatoio ero esausto, mi sentivo bollire. Non ero mai stato credente, ma una voce mi chiese se credessi in Dio e se io fossi pronto a morire, risposi che avrei dato soldi per la carità, ma quella stessa voce disse che voleva me, non il mio denaro». Allucinazioni per forte disidratazione, diceva il referto del medico. Ma per George era la chiamata della fede.

Diventò un ministro evangelico, si mise a recitare sermoni, vendette la Rolls e la villa a Beverly Hills, regalò le sue 15 tv, si mise a predicare girando con una vecchia Ford. Nell’87 però si rese conto di non avere più un soldo in banca. Tornò sul ring e in quattro stagioni mise insieme 23 successi tanto da meritarsi nel ’91 la sfida contro Evander Holyfield, persa ai punti, prima sconfitta in 14 anni.

Ma era la risalita verso la gloria. «E nel ’94 batto Michael Moorer, che poteva essere mio figlio, e ridivento campione mondiale dei massimi. Venti anni dopo Kinshasa. Indossavo gli stessi calzoncini di velluto rosso di allora. È stato bellissimo. Avevo più grazia, ero meno animalesco, più consapevole. Come se avessi imparato da Ali a ballare un po’ anch’io. Mi sono inginocchiato, ho pregato, ho pensato a quella notte africana che mi aveva fatto soffrire così tanto. Non esisteva più, tutto quel dolore per niente. Era stata solo una grande occasione che io non avevo capito».

L’anno dopo, a Las Vegas, Foreman incontra un tipo che gli chiede se gli va di fare pubblicità a una griglia per cuocere cheeseburger e altro. George gli dice sì: «Ma deve essere dietetica e avere un nuovo disegno». Si rivela un venditore eccezionale, per convincere i clienti mangia polpette in diretta. Anche Magic Johnson, grande stella della NBA, ne compra le griglie. È un successone, meglio di un KO, vende il nome per 137 milioni di dollari. Diventa un uomo d’affari. Due anni fa si è sbarazzato della sua collezione di 51 auto, si trasferiva in una casa più piccola e non trovava un garage adatto.

Sapeva che quella del ’74 per la boxe era stata la notte del secolo. E che aveva solo un modo per vincerla: lasciarla andare.

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