LA GRANDE BOUCLE - QUANDO PARTECIPAVANO I FORZATI DELLA STRADA


Al via il Tour de France

PAOLO BRUSCHI 
Il Manifesto - Sabato 5 luglio 2025
Pagina 18

Come avviene da 50 anni, domani (partirà) il Tour de France che (fra tre settimane) calerà il sipario sui Campi Elisi. Per la prima volta, però, la scena sarà rubata dall’ascesa di Montmartre, che sarà compiuta tre volte prima del traguardo. L’inedita scelta è il risultato del grande successo di pubblico della corsa in linea disputata alle Olimpiadi del 2024, che per l’appunto incluse l’irta salita verso la chiesa del Sacro Cuore.

La novità non ha generato entusiasmo fra i protagonisti.

Jonas Vingegaard teme il fondo acciottolato e la carreggiata stretta, che potrebbero imporre un supplemento di stress a un plotone ben più folto di quello della gara a Cinque cerchi.

Remco Evenepoel, vincitore di quell’oro olimpico, paventa lo sforzo aggiuntivo che la necessità di posizionarsi utilmente richiederà a corridori già provati da tre settimane di pedali, mentre Marc Madiot, manager della Groupama-FDJ, spera almeno nel bel tempo, perché le pietre bagnate dalla pioggia metterebbero a repentaglio l’equilibrio dei ciclisti. Insomma, nella pancia del gruppo si mugugna di «spettacolo imposto» e «scelta mediatica» e, a distanza di un secolo, tornano a echeggiare le parole di Henri Pélissier: «Ci trattano come bestie da soma».

Nel 1925, il più grande campione francese dell’epoca disputò il suo ultimo Tour, abbandonandolo dopo soli quattro giorni. Debilitato per una brutta caduta di qualche settimana prima, aveva partecipato per onorare le aspettative dei tifosi e gli obblighi contrattuali, entrambi più che mai pressanti soprattutto alla luce della polemica accesa dal ritiro dell’anno precedente, quando – da campione in carica - l’iracondo Pélissier si era ribellato alle tappe massacranti, alle regole aberranti e all’indifferenza per la fatica umana, lasciando via libera a Ottavio Bottecchia, che fu il primo italiano a portare la maglia gialla a Parigi.

Il casus belli era stato lo zelo di un ufficiale di gara, che con poco tatto aveva sollevato la maglietta di Pélissier per vedere quante ne indossava. Da regolamento, i partecipanti dovevano partire e arrivare con gli stessi indumenti, per tutelare il decoro della corsa e i «beni» che gli sponsor mettevano a disposizione dei ciclisti, i quali, d’altra parte, protestavano che le variazioni di temperatura durante la tappa rendevano la misura oltremodo vessatoria. All’epoca, le frazioni si allungavano per trecento e persino quattrocento chilometri, imponendo partenze nelle ore notturne e costringendo i ciclisti a restare in sella anche per diciassette ore filate, esponendoli quindi al freddo delle ore piccole e al solleone dei meriggi. Del resto, si trattava di una kermesse oggi inimmaginabile, assai più caotica e ingovernabile per la difficoltà di assicurare collegamenti e controlli costanti. Perciò, esistevano norme che vietavano l'accattonaggio, il furto, le bestemmie, la minzione pubblica e l’aggressione (!) contro tifosi e funzionari di gara.

Pélissier non era uno stinco di santo: la prima moglie fu spinta al suicidio dalle sue angherie e la seconda lo uccise dopo che aveva sfregiato il volto della cognata con un coltello. Insomma, perdeva sovente il controllo di sé e in corsa trattava i compagni con disprezzo, obbligandoli a riportarlo in gruppo dopo una sosta in un bar per mangiare un boccone.

Il 26 giugno 1924, si fermò in un café di Coutances e decise di abbandonare insieme al fratello Francis e al fido Maurice Ville: la notizia giunse fino al giornalista Albert Londres, che li rintracciò di fronte a una tazza di cioccolato. L’intervista che ne risultò è passata alla storia come «I forzati della strada», benché sul giornale Le Petit Parisien uscisse in effetti con un titolo appena didascalico: «Il Tour è un calvario; anzi, la via Crucis ha quattordici stazioni, mentre le nostre sono quindici! Volete sapere come riusciamo ad andare avanti? A forza di cocaina e stimolanti!».

Il clamore suscitato dall’articolo valicò i confini dello sport per diventare un caso politico nazionale, che Londres non ebbe difficoltà a collegare metaforicamente al suo recente reportage sulla disumanità delle colonie penali della Caienna. Per spiegare la risonanza dell’episodio, occorre specificare che la mistica di quei Tour delle origini esaltava l’impresa titanica e il sovrumano stoicismo dei protagonisti.

Henri Desgrange, tirannico direttore del quotidiano L’Auto e inventore della Grande Boucle, che descrisse Pélissier come un professionista arricchito che non tollerava più gli stenti della bicicletta, veicolava infatti un’ideale ciclistico tutto improntato alla sofferenza e all’etica della fatica. Se nelle fabbriche il taylorismo imponeva ritmi sempre più incalzanti al lavoratore, che come una macchina poteva essere sottoposto a minuziose misurazioni e costanti adeguamenti per aumentarne la produttività, per Degrange la bicicletta costituiva la suprema misura scientifica delle capacità del fisico umano. La questione di eliminare o mitigare il logoramento fisico dei corridori non si poneva nemmeno, dato che proprio l’esplorazione degli estremi limiti umani costituiva l’attrattiva della corsa e trasformava i suoi protagonisti in esseri eccezionali, degni dell’adorazione delle masse.

Nel dibattito, che proseguì per anni, intervenne il Partito comunista francese (PCF), che attraverso il quotidiano L’Humanité provò a rovesciare la retorica dominante: laddove Desgrange vedeva una forza civilizzatrice, che convertiva i corridori in membri rispettabili della società, il PCF individuava una pratica disumanizzante che spremeva gli atleti fino allo sfinimento per il maggior profitto del padrone capitalista. In questa lettura, i campioni che defezionavano erano equiparati agli operai che scioperavano per chiedere migliori condizioni d’impiego e lo sforzo della pedalata alla routine alienante della catena di montaggio.

I fogli di destra rigettarono l’immagine del ciclista come forzato della strada e accusarono Pélissier di denigrare l’ambiente che gli aveva procurato fama e denaro. Molto illuminante fu la parabola del quotidiano socialista Le Populaire, leggibile alla luce dell’evoluzione del rapporto con i comunisti a livello politico. In principio, i socialisti rifiutarono di accostare le star del pedale, libere di scegliere la loro carriera, ai veri lavoratori, che invece non potevano sfuggire la fabbrica o la miniera se volevano campare la famiglia. Tuttavia, col progredire della polemica, e in ossequio alla strategia dei fronti popolari dettata dall’Unione Sovietica negli anni ‘30, le due sinistre allinearono la loro posizione anche sul Tour de France. La morte dello spagnolo Francisco Cepeda, che nel 1935 precipitò in un burrone scendendo dal Galibier, confermò che le sinistre francesi erano ora unite nel condannare il Tour come un lavoro altamente pericoloso e nel ritenere Desgrange responsabile dei tormenti dei ciclisti.

Per tornare alla premessa, l’ascesa di Montmartre – simbolica, teatrale, «telegenica» – non è che l’ultimo atto di una rappresentazione che da almeno cento anni prevale sul benessere dell’atleta. Se un tempo il Tour rifletteva i sacrifici del proletariato industriale, oggi aderisce agli imperativi della società dello spettacolo: la bicicletta testa ancora le soglie biologiche dell’essere umano per venderlo meglio.

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