Zandegù e il Fiandre '67: "Così beffai il Cannibale"





È il 2 aprile, una giornata di pioggia e neve: Eddy Merckx è il solito favorito della Classica del Belgio. Ma sul traguardo sarà piegato da un padovano di Rubano

di MARCO PASTONESI, 
La Gazzetta dello Sport, 3 APRILE 2015

Ricordiamo il Giro delle Fiandre del '67 per la vittoria a sorpresa di Dino Zandegù: lui ci racconta come andò... 

Il 18 marzo, Milano-Sanremo, tirava aria di primavera. Il 2 aprile, Giro delle Fiandre, spirava vento d’inverno. Era il 1967, e su tutto imperversava già, e sempre, e ancora, il ciclone Merckx. Eddy - 22 anni voraci, famelici, bulimici – aveva cominciato la stagione inghiottendo asfalto e chilometri, ruminando tappe e classiche, banchettando passisti e velocisti. Più che avversari, per lui erano tutti nemici. Aveva conquistato un circuito in Francia, due tappe al Giro di Sardegna e due alla Parigi-Nizza. 

Alla Sanremo aveva infilzato, come in uno spiedino, Gianni Motta, Franco Bitossi e Felice Gimondi, dopo averli rosolati alla media record di quasi 45 all’ora, e resistendo al ritorno dei velocisti, nell’ordine Georges Vanconingsloo, Dino Zandegù, Walter Godefroot, Willy Planckaert, Gerben Karstens e Noel Van Clooster. 

Poi, il 29 marzo, si era imposto nella Gand-Wevelgem, divorando in volata Jan Janssen e Edward Sels, che Rik Van Looy, l’Imperatore, abdicando, aveva indicato come suo successore. Merckx però era il Cannibale: e il suo cognome, un groviglio di consonanti, sembrava composto da quello che rimaneva dei rivali sbranati.

UNA RELIGIONE — Il Giro delle Fiandre è il ciclismo. Almeno per i belgi. È festa, è anniversario, è Natale e Pasqua. È storia e geografia, ed è – soprattutto – religione. Non esiste corsa, gara, appuntamento più sentito, abitato, vissuto. Lo si capisce due ore prima della partenza, anche sotto la pioggia battente, quando il popolo assedia il palco della presentazione. E non c’è corridore, neanche il più modesto dei gregari, che non sia riconosciuto e osannato come il più formidabile dei campioni. E quel bagno di folla (espressione perfetta in certe giornate sotto l’acqua) giustifica e valorizza qualsiasi carriera stradale, anche la più sgangherata e sofferta.

SEGUILO COME UN’OMBRA — Quel 2 aprile 1967 è, appunto, un giorno d’inverno. In bianco e nero, come la maglia di Merckx e le immagini della tv, e in mille sfumature di grigio. Pioggia mista a neve: mantelline. Freddo: manicotti. «Noi della Salvarani – ricorda Zandegù - determinati. Capitano unico: Felice Gimondi. Tutti gli altri: gregari a sua disposizione. Io: battitore libero e, si raccomanda il direttore sportivo Luciano Pezzi, libero ma anche attento, attento a non perdere mai di vista Eddy Merckx. E siccome di me si fida, ma fino a un certo punto, sul retro del guantino mi appiccica il numero 130, quello di Merckx. "Seguilo come un’ombra". Come se fosse facile: 245 chilometri, da Gand a Gentbrugge, periferia di Gand, fra muri di folla e muri di mattoni. Ma a quel Fiandre ci arrivo preparato. Dopo la Sanremo, corro in Belgio per abituarmi al clima, alle strade, alle corse. La prima arrivo in fondo, ma a metà gruppo, poi scalo fino al primo gruppo. Nell’ultima un colpo di vento spezza il gruppo, rimango indietro, da solo recupero fino a riprendere il primo ventaglio. Mi sorprendo di me stesso".

È GUERRA — Pronti, via, pioggia mista a neve, molto vento e moltissimi ventagli, via anche la fuga del mattino. Zandegù: "Una decina di corridori, anche meno. Eseguo gli ordini alla lettera: incollato alla ruota di Merckx. Scaliamo i muri. Non sono tutti quelli di adesso, ma per me bastano e avanzano. Sono rampe durissime, fatte di pietre scivolose e circondate da tifosi urlanti. Se il corridore davanti cade, o se a cadergli è la catena, tu, dietro, sei finito. Quando la fuga sta per esaurirsi, Merckx fa il diavolo prima del muro di Grammont". 
Sui testi il Grammont non figura. 
"Ma sulla strada sì, ne facciamo metà, ed è più che sufficiente". 
Merckx prende la salita davanti sulla sinistra, Zandegù, ombra, sulla destra. È guerra. 
"E quando è guerra, non si guarda più in faccia niente e nessuno. Proseguo nella mia azione. Riprendo gli ultimi fuggitivi. Poi Merckx rientra, fa tre o quattro chilometri a tutta, senza chiedere il cambio, tanto non glielo avremmo mai dato, anche perché non avremmo mai potuto darglielo, finché rimaniamo in tre, Merckx, io e Noel Foré, l’ultimo sopravvissuto della fuga del mattino".

NON SI SA MAI... — C’è un istante in cui, nonostante le nuvole che si appoggiano sulla strada, Zandegù s’illumina: "Vedo Merckx un po’ così e allora attacco. Foré rimane alla mia ruota. Guadagniamo una ventina di secondi. Merckx viene acciuffato da Gimondi e qualcun altro, è scatenato, insegue, si avvicina, ma io tiro alla morte, Foré a ruota implora "doucement", ma se pedaliamo con dolcezza ci catturano in un attimo, l’ultimo chilometro lo faccio senza respirare, in apnea, sempre davanti, ai 50 metri Foré si sfila dalla mia ruota, vinco a braccio alzato, il destro, perché con il sinistro tengo il manubrio, ché non si sa mai". Terzo, a 20 secondi, Merckx, furioso e furente, come un gigante che si è visto sfuggire un nano. E, quarto, Gimondi. "Nessuno mi ha regalato niente – sostiene Zandegù -. Quella volta ho corso bene, con forza e anche intelligenza".

'O SOLE MIO! — Zandegù abbraccia Pezzi, quasi lo soffoca, sale sul palco, esulta, poi viene intervistato da Adriano De Zan: "Mi dice che qui all’arrivo, fin dalla mattina, ci sono decine di minatori italiani che aspettavano sotto la pioggia e la neve sperando nella vittoria di uno dei nostri. "Fai qualcosa per loro". E allora canto. Penso a quanto freddo ci dev’essere nelle ossa e forse anche nel cuore di quegli uomini, e allora, per riscaldarli, canto due o tre strofe di 'O sole mio". Poi Zandegù non riesce ad andare avanti. "È la fine del mondo. I minatori piangono, si abbracciano, mi vogliono. Li mollo solo per andare all’antidoping". "La voce gli si spezzò nella strozza - ricordò Mario Fossati sulla Repubblica -. Nessun tenore di quotazione mondiale ce l’avrebbe fatta, spiegò Zandegù, ad aprire bocca, se mai gli fosse toccato di affrontare un minuto prima Merckx".

IL FIORE ALL’OCCHIELLO — La sera, in albergo, si fa festa. «Luigi e Mario Salvarani, i due fratelli più giovani – dice Dino - vogliono brindare e chiedono champagne, i camerieri porgono una bottiglia, Luigi e Mario pretendono il Dom Perignon, i camerieri escono, lo cercano e lo trovano, lo comprano e lo portano, e finalmente si sollevano i calici al cielo». La sua vittoria più prestigiosa? Zandegù dice di sì: "Il successo più eclatante, il fiore all’occhiello, il salto di qualità. Anche per i soldi: contratto e ingaggi. Nei circuiti, in Belgio, in Olanda e in Italia, passo dal minimo a una bella cifretta. E con i muri del Fiandre, mi faccio anche la casa nuova". 

SE... — "Zandegù aveva classe – certificò Fossati sempre su Repubblica – e ben altra avrebbe potuto essere la sua carriera solo che lo avesse animato uno spirito meno bizzarro". Già. Ma non sarebbe più stato Zandegù. 
Marco Pastonesi 

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