Il mondo prima e dopo Sabonis


di Simone Basso
Indiscreto - 27 ottobre 2009 

1. L’extraterrestre si rivelò piano piano ai nostri occhi, scettici nei confronti della fama che lo aveva preceduto: un nome nobile, baltico, e alcune anticipazioni minacciose. All’epoca non si immaginavano neanche la tivù satellitare, il web e lo streaming; figuratevi uno come Arvydas Sabonis. Si narrava di un diciassettenne che, contro gli Hoosiers campioni di Bobby Knight aveva fatto faville. Lo stesso che aveva vinto il suo primo Mondiale a Calì in un’edizione quasi misconosciuta. Ci illustrarono il giovane fenomeno in fotografia, sulla copertina di Superbasket. Poi finalmente si mostrò, il mostro, senza remora: furono gli Europei più belli per Azzurra, quelli del Menego capitano, di Corbalan Von Karajan e del "Cobra" Kicianovic rincorso da coach Gamba. Per citare l’inimitabile Bene, apparimmo ad Arvydas in quella rassegna continentale, 1983, e scoprimmo il futuro: un centro con una mobilità, una coordinazione e una bellezza gestuale mai viste in Europa. 

2. Avvezzi all’Unione Sovietica che il colonnello Gomelski volle sempre utilitaristica e statica, al servizio dei Tkachenko, le prospettive e le potenzialità di quella torre parvero infinite. Figlio, tecnicamente parlando, del primo centro playmaker della storia europea: l’indimenticabile Cresimir Cosic, che spiegò la sua arte anche in Spaghetti League, nella Virtus Bologna dell'avvocato Porelli. Il Sabas fu l’evoluzione naturale di Creso, più dinamica e fisica; ma soprattutto regalò alla platea europea un brivido speciale. Nel confronto con i maestri americani, quasi blasfemo, per la prima voltà si intuì che uno dei “nostri” era al livello, o addirittura meglio, dei loro prospetti generazionali nel ruolo. Uno solo, forse, sembrò oltre e lo fu veramente: il riferimento è a un altro principe, stavolta nigeriano, il favoloso Olajuwon. 

3. Quella fantasia cestistica spazzò via, da iconoclasta vero, un preconcetto del basket sovietico: che nel ruolo di centro si dovesse abusare di fenomeni da baraccone. Era successo così, nel deserto di Giovanni Drogo, anche per altri due precursori di Sabonis: una guardia e un’ala. La prima, celebrata, fu Sergei Belov: fromboliere dal tiro mortifero e devastante nei momenti di massima ispirazione. La seconda, dimenticata, fu Anatholy Mishkin: albatros dal talento sconfinato, Kirilenko con le mani e la grazia di un Marques Johnson. Soffocati dalla particolare congiunzione politica, non riuscimmo mai a vederli in un contesto, quello occidentale, che ne avrebbe esaltato le doti da fuoriclasse assoluti. 

4. Anche Sabas, senza Gorbaciov e il dissolvimento dell’impero sovietico, avrebbe fatto la stessa fine: rimane evidente l’ingiustizia di non averlo mai potuto ammirare, nel periodo del pieno vigore atletico, con continuità. Perché le dimostrazioni di quel tempo furono eloquenti, come l’Europeo 1985 dominato in maniera quasi brutale. Il direttore d’orchestra Sabonis, la palla come una bacchetta, con il braccio altissimo a scoraggiare i piccoletti: i passaggi al bacio dal post, le piroette per guadagnare il canestro, i tiri da sei metri e gli uncini dolcissimi. Con doti atletiche che non gli avremmo più rivisto: il tempo perfetto per la stoppata, il rimbalzo di prepotenza, l’affondata di cattiveria pura. In maglia Zalgiris, contro i nemici dell’Armata Rossa, e nelle coppe europee, sfortunato eroe di una finale di Coppa dei Campioni (1986), suggello vergognoso di una Baviera jugocentrica. Quella sera fu apparecchiato, a favore del Cibona, uno dei pasti precotti più alterati di sempre: degno di grandi cuochi italiani, di nostra conoscenza, come l’ex ferroviere di Monticiano e il geometra pensionato di Monza. 

5. Il resto poi fu noia e un lento aderire, senza prospettive, ad uno stereotipo orientale: infatti il contesto sociale e sportivo, a dir poco claustrofobico, lo portò a essere anche altro. Divenne suo malgrado il simbolo di una terra lontanissima, con il cuore e l’anima, da Mosca; se da una parte l’uomo pubblico sposò la modella e attrice Ingrida, dall’altra (nel privato) iniziò a stonarsi con alcool e cibo, fino quasi al punto di non ritorno. Il doppio infortunio al tendine d’Achille simboleggiò la fine dell’Arvydas originale, un’allucinazione felice a cui non avremmo avuto più il piacere di soccombere: tornò, più umano, a riscuotere i crediti accumulati, in quel di Seul. L’anabasi che lo riportò in auge passò attraverso le cure degli americani che lo scelsero: dopo una trafila burocratica degna della satira feroce de “Le montagne blu”, la spasimante NBA di Portland lo restituì al po-pa-tok moderno. 

6. La beffa si compì alle spese della selezione olimpica Usa, nello scenario che inventò i presupposti del Dream Team di Barcellona. Un asterisco doveroso: John Thompson fece seppuku, magari non come quel genio perverso di Yukio Mishima, ma quasi. Convocò un play da barzelletta perché “suo” (Charles Smith), non badò al fattore tripla e riuscì a non disegnare schemi per il Manning 1988, ovvero il più grande giocatore NCAA degli ultimi quarant’anni… L’Unione Sovietica coreana fu affetta da fregolismo di ritorno; cancellando le leggende metropolitane, le prime partite del torneo furono imbarazzanti. Forse la peggiore CCCP olimpica di sempre: ma accadde che la volpe, l’eterno Gomelski, promise la libertà (non solo tecnica). Il gruppo spaccato in due, blocco lituano contro gli altri, si rinsaldò in tempo per l’impresa storica. Il Sabas monumentale, le giocate di Tarzan Marciulonis e le coltellate di Kurtinaitis non coprirono i meriti di chi fu la chiave tecnica di quell’incontro: il play ombra Sasha Volkov, che sconfisse la difesa (disperata) dei bimbi stellestrisce con la sua duttilità tattica. 

7. L’oro sulla Jugoslavia inaugurò l’esperienza iberica di Sabonis, a Valladolid e a Madrid, e confermò un sospetto: il Maestro lituano era il più grande a dispetto di quel fisico appesantito, martoriato dalla sfortuna e dai vizi. Al Real, con il suo gioco geniale, dominò la scena per tre anni, prendendosi finalmente l’Eurolega agognata: era il 1995 e i tempi perfetti per “ripagare”, finalmente, l’amante americana. Ai Blazers, centellinato come un ukiyo-e prezioso, fu la più improbabile matricola dell’anno di sempre: l’assegnazione di quel titolo 1996 a Topolino Stoudamire fu una velina di regime. Sabas suscitò nel solitamente distratto mondo Nba un’ammirazione mistica: rivendicò subito, duettando con un genio del Bronx come Rod Strickland, la sua regalità cestistica a 24 carati. La terza Olimpiade, la seconda per la Lituania, concluse la sua storia da condottiero nazionale: l’addio alla maglia verde valse un bronzo esaltante e per l’ultima partita, contro l’Australia, scrisse a referto 30 punti, 13 rimbalzi e 5 stoppate. 

8. In seguito firmò l’annata individualmente più eccelsa della sua esperienza iu-es-ei (il 1998) e arrivò a un’incollatura dal colmare l’ingiustizia storica più evidente.
Senza la Guerra fredda, quanti anelli avrebbe vinto con i Blazers? Ve la immaginate la Portland di Clyde Drexler e Terry Porter con "Mister Europa" come pivot? E dire che Paul Allen mise assieme un combo che, nelle giornate di ispirazione alta, fu il più devastante dell’NBA recente.
Era il 2000 e la congiunzione astrale volle, sullo stesso parquet e con la stessa casacca, i tre migliori passatori nel ruolo di centro, ala piccola e guardia tiratrice della lega: Sabonis, Pippen e Steve Smith. A far da contorno al trio Horowitz, una batteria (forse eccessiva) di talenti allo stato puro; i vari Rasheed Wallace e Bonzi Wells di quel mondo. Gli oregoniani arrivarono a dieci minuti dal titolo NBA: quel crollo sopra di quindici, in gara7 contro i Lakers, ci tolse lo sfizio tutto europeo di contemplarlo con un anello al dito. Fu un’iniquità (...) dovuta al vantaggio del campo losangeleno, perché al Rose Garden il quarto e il quinto fallo fischiati a Sabas sarebbero stati di Shaquille. Sorvolando sui canestri sbagliati da Sheed in quel frangente (roba da rincorrerlo con una mazza da cricket...), quelle ultime tre partite della finale Ovest videro il predominio dei Blazers. Che disinnescarono l’arma nucleare O’Neal con la marcatura del lituano e gli aiuti, da autentici dobermann, di Pip e Greg Anthony: furono gli unici, in quell’epoca, ad annullare lo strapotere del Diesel.

9. Il rientro a Kaunas per il tour continentale di addio, 2004, arrivò a una tripla rocambolesca (di Carneade Sharp) dall’ennesima Final Four. MVP di Eurolega per volere divino, ci concesse l’onore di applaudire quell’epilogo romantico: proprietario dello Zalgiris e padrone ieratico di tutti i campi dove si esibì. Ci ricordò l’essenza del suo sbarco, l’idea stessa dell’effetto straniante che produsse la sua recita: nella storia del basket europeo nessuno, neanche in sogno, potrà sostituire Arvydas Sabonis; l’extraterrestre che concluse la dittatura tecnica degli americani nel gioco. 
Simone Basso 
(in esclusiva per Indiscreto)

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