Nel fango del dio ciclismo


di SIMONE BASSO
Indiscreto - 27 gennaio 2010

Breve omelia questa volta sui dannati del ciclocross, fratello minore bastardo del ciclismo su strada. Per ribadire il nostro amore verso l’etica e l’estetica del fango, dimensione molto più pulita e dignitosa rispetto alla liofilizzazione imperante. A pochi dì dalla sfida iridata di Tabor, in Repubblica Ceca, un bignami incompleto ma sentimentale sullo spettacolo ciclistico più bucolico e selvaggio nel carnet degli sfregaselle. 

Da circa quindici anni il cross interpreta benissimo il ruolo, perdente ma orgoglioso, dei nativi americani rinchiusi nelle riserve: scacciati dalle loro terre dall’arrivo del fanatismo belligerante dei vaccari, ovvero la mountain bike che tanto bene fece alle tasche dei produttori di bici… E francamente riesce quasi impossibile paragonare le due entità: il rampichino, così moderno nell’incarnare una via di fuga chic e borghese dall’asfalto metropolitano; il ciclocross, atavico nel riprodurre un gesto iperrealista, poverocristo e folle. La danza nella palude non regala mai paesaggi consolatori, ritagliata giocoforza in ambienti claustrofobici e infidi. Come non bastasse, in caso di pioggia o neve, le scritte degli sponsor si tingono di un marrone merda che solidarizza con le maschere degli atleti e le buche delle pozzanghere. Gli indiani, ignorati dalla massa, sopravvivono nelle contee del Belgio, dei Paesi Bassi e di qualche Paese dell’est europeo, ma lo fanno mostrando una scenografia corroborante. Sarà la melma, il ghiaccio o le pinte di birra prosciugate, però le orde dei voivodi tappezzano il territorio con una frenesia ineccepibile. E’ ancora oggi una visione fotogenica, nel senso Tolstoiano del termine, che potrebbe destare emozioni anche in uno spettatore casuale; una polka abitata da una frenesia originale, come quella di un formicaio impazzito. Prima dell’ora d’aria attuale, il cross fu spesso abitato dai ras della strada: difatti dal primo campione mondiale (nel 1950), Testa di Vetro Robic, cominciò un’alternanza semidemocratica tra gli specialisti e gli stradisti prestati alla solfatara. Alla prima categoria dell’anima, i Dufraisse, i Longo (il più forte tricolore di sempre), i Van Damme, gli Zweifel ed i Liboton, si contrapposero dignitosamente i Wolfshohl, i Richard e i van Der Poel dell’altro mondo. In mezzo, ma non assolutamente come i vasi di coccio manzoniani, l’esempio estremo dei fratelli De Vlaeminck. Della coppia di gitani provenienti da Eeklo potremmo ricordare una definizione di Jacqueline Merckx, la moglie di Eddy: “Ah, tutto il Belgio sa che sono una cattiva frequentazione..”. Ma stavolta non ci interessa Monsieur Roubaix Roger, bensì le gesta del diabolico Eric, di due anni più anziano. Sette volte iridato della disciplina (record assoluto), con un talento spaventoso che avrebbe potuto riverberare maggiormente anche su strada, se solo si fosse gestito minimamente. Ma nella cabeza deviata di Eric prevalse quasi sempre la bisca clandestina; sui circuiti, bizzarro e lunatico, fu sostenitore appassionato della sorella anfe, che lo accompagnò in ogni momento agonistico. Provvisto di autista personale e di un’indole simenoniana nel cacciarsi nei guai, vinse un mondiale senza praticamente allenarsi. Ci pensò il diesse Franco Cribiori a riportarlo in auge, dopo una vacanza in carcere e la provvidenziale cauzione… 

Ai satanassi come il De Vlaeminck “cattivo”, sovrapponiamo idealmente una figura revelliana come Vito Di Tano; due volte campione del mondo nella categoria dilettanti. Scelse di correre nei puri per una scelta di vita; già allora, negli anni settanta, il ciclocross imponeva di emigrare verso le Fiandre e il pugliese non se la sentì di rischiare. Vinse la prima maglia iridata nel 1979, a Saccolongo, su un percorso infame e ribadì subito il suo attaccamento al mestiere: quello di manovratore ferroviario, sulla linea Treviglio-Bergamo. Fu un Pietro Mennea bonsai, malgrado le leve da trampoliere, l’ennesimo miracolo meridionale autoctono a dispetto della sobrietà di mezzi economici. Con l’evoluzione (?) dei costumi il ciclocross perse la partecipazione dei Bitossi e dei Chiappucci e si specializzò: nell’era dei De Clercq e Groenendaal vantammo una rivalità nostrana di alto lignaggio, quella tra Pontoni e Bramati, e poi venne l’oblio o quasi. 

Il 31 sarà un’occasione ghiotta per ammirare questo massacro divertente: il tracciato si annuncia una pista di pattinaggio su ghiaccio, quindi il fango sarà sostituito sadicamente dalle sbucciature sanguinanti delle cadute. L’eroe casalingo Zdenek Stybar potrebbe approfittare delle faide belghe, lo squadrone che vanta una serie infinita di capitani o presunti tali: il campione in carica Albert, il fuoriclasse Nys, l’eternauta Vervecken, l’imprevedibile Vantornout… Di sicuro è il mondiale professionisti più importante dopo quello, liturgico, della strada: a confermare la tendenza l’incredibile seppuku (ma Mishima lasciamolo stare...) dell’Uci, capace di cancellare in un solo colpo due specialità classiche come l’inseguimento individuale e la corsa a punti dalla pista olimpica. Tutto per razzolare crediti dal CIO, nello stile inconfondibile dei verbruggeniani, parenti prossimi dei blatteriadi: la grande famiglia dei batteri che incrostano e vivificano sullo sport. Un po’ come se la IAAF rinunciasse al programma dei 10.000 e dei 400 ostacoli; questi cerebrolesi, in favore di baracconate come la velocità a squadre, recidono la tradizione stessa dell’evento. D’altronde, se solo ci fossero dirigenti capaci, il ciclocross vivrebbe di allori molto più significativi; perché la dimensione perfetta di questo bandy della pedivella dovrebbero essere le olimpiadi invernali. Trattandosi di specialità a suo agio con i rigori del Generale che sconfisse Napoleone e Hitler: un po’ più sport del curling e molto meno ridicola della cinquanta chilometri in linea del fondo. 

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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